Scheda sintetica
La giurisprudenza ha riconosciuto che qualunque danno alla salute comporta anche un danno in termini di ostacoli alla normale vita di relazione che, conseguentemente, risulta menomata.
Questo è, in sintesi, il concetto del danno biologico, il cui risarcimento è ormai pacificamente ammesso.
La nozione di danno biologico trova nel rapporto di lavoro subordinato importanti applicazioni: infatti, l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore.
In altre parole, il datore di lavoro non solo deve rispettare le norme antinfortunistiche che disciplinano il lavoro in luoghi pericolosi o insalubri, prescrivendo specifici mezzi di prevenzione e protezione.
Oltre a ciò, il datore di lavoro deve prevenire i danni, tra l’altro, alla salute, adottando tutti gli strumenti resi disponibili dall’attuale stato della scienza e della tecnica, benché non espressamente contemplati dalle norme antinfortunistiche.
Insomma, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento del danno biologico derivante da una menomazione fisica o psichica subita nell’espletamento della attività lavorativa. Più precisamente, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento qualora il lavoratore possa dimostrare non solo di aver subito una lesione fisica o psichica, ma anche che la lesione è dovuta al lavoro e non ad una causa diversa.
Da quest’ultimo punto di vista, si può aggiungere che, per esempio nel caso di sordità o di infarto (o di altre lesioni simili), la prova che il danno dipende dal lavoro può essere fornita anche mediante l’allegazione della rendita riconosciuta dall’Inail per invalidità professionale. A tale riguardo bisogna anche precisare che la rendita per invalidità non è alternativa, ma aggiuntiva al risarcimento del danno biologico.
Se il lavoratore ha fornito le prove di cui si è parlato, il datore di lavoro potrà esimersi dal risarcimento dimostrando di aver rispettato non solo le norme antinfortunistiche, ma anche l’art. 2087 c.c., quindi di aver utilizzato tutti i rimedi preventivi consentiti dall’attuale stato della scienza e della tecnica.
Se il datore di lavoro fallisce questa prova, il lavoratore potrà ottenere il risarcimento del danno, normalmente commisurato al grado di invalidità corrispondente alla lesione subita. Di regola, questo accertamento viene effettuato mediante consulenza tecnica, affidata ad un medico legale, che provvede alla quantificazione della invalidità; sulla scorta di questa quantificazione, il giudice liquiderà in via equitativa il danno.
A chi rivolgersi
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- Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Tutele accordate dal legislatore alla salute del lavoratore
Una decisione della Corte di cassazione (n. 4721 del 9/5/98) consente di fare alcune precisazioni sulla questione.
Nel caso in questione, la vedova di un lavoratore, impiegato in un ambiente lavorativo ove erano presenti polveri di amianto e deceduto per mesotelioma peritoneale, aveva convenuto in giudizio il datore di lavoro chiedendone la condanna al risarcimento del danno.
La domanda era fondata sull’art. 2087 c.c., che prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro, di tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore. La società convenuta si era difesa sostenendo di aver adottato tutte le misure preventive e di sicurezza prescritte dalla normativa all’epoca vigente (luglio 1987).
Pertanto, sia il Giudice del lavoro che il Tribunale, constatato che la società non aveva ricevuto contestazioni per violazioni della normativa anti – infortunistica; constatato – tramite consulenza tecnica – che nell’ambiente di lavoro non vi era una concentrazione di fibre di amianto superiore al massimo consentito dalla legge all’epoca vigente, aveva rigettato la domanda presentata dalla erede del lavoratore.
La sentenza del Tribunale è stata però annullata dalla Corte di cassazione. Infatti, è stato ritenuto che l’art. 2087 c.c. costituisce la norma di chiusura della normativa anti – infortunistica.
In altre parole, le norme anti – infortunistiche che pongono specifici divieti o obblighi nei confronti del datore di lavoro costituiscono semplicemente l’applicazione ad un caso particolare del principio generale, ricavabile appunto dall’art. 2087 c.c.
Pertanto, il datore di lavoro, nel caso in cui il lavoratore subisca un danno alla propria salute, non può andare indenne dal risarcimento solo per il fatto di aver adottato le prescrizioni specificamente imposte dalla legge.
Oltre a queste prescrizioni, resta il generale obbligo sancito dal già citato art. 2087, che impone al datore di lavoro, indipendentemente dalle specifiche disposizioni anti – infortunistiche, di adottare tutte le cautele necessarie, secondo l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica del dipendente.
Pertanto, al di fuori degli eventi coperti dalla assicurazione obbligatoria, il datore di lavoro è responsabile dei danni derivanti da infortuni o malattie professionali, subiti da un suo dipendente a causa della nocività dell’ambiente di lavoro e in violazione dell’obbligo imposto dall’art. 2087 c.c.
Rispetto all’amianto va anche precisato che, più recentemente, la L. 257 del 27/3/92 ha disposto la cessazione dell’impiego dell’amianto nei luoghi di lavoro, predisponendo anche misure di sostegno per i lavoratori che sono stati esposti all’amianto, quali il pensionamento anticipato, la rivalutazione dei contributi pensionistici, il trattamento straordinario di integrazione salariale per i lavoratori addetti ad imprese che utilizzano o estraggano amianto, o che siano coinvolte in processi di ristrutturazione e riconversione industriale.
Risarcimento del danno nel caso in cui la salute sia stata compromessa da un impegno eccessivo di lavoro
Un’altra decisione della Corte di Cassazione (n. 8267/97) ha affermato che il datore di lavoro è responsabile, ai sensi dell’art. 2087 c.c., nei confronti del lavoratore dipendente, nel caso in cui quest’ultimo abbia subito una compromissione della salute determinata da un impegno eccessivo sul lavoro, ricollegabile a un numero di dipendenti insufficiente.
Secondo la Corte di Cassazione, la ricerca di livelli competitivi di produttività non può compromettere l’integrità psico-fisica del lavoratore; da questo principio viene fatto discendere il conseguente dovere dell’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore, compreso un organico adeguato al volume di produzione dell’azienda stessa.
Anche se il dipendente accetta di lavorare troppo, svolgendo una consistente mole di lavoro straordinario, pur nei limiti fissati dalla contrattazione collettiva, ciò non esime il datore di lavoro dal dovere di limitare questo sforzo eccessivo.
Le risorse umane insomma debbono essere sufficienti a consentire un impegno lavorativo non eccessivo e comunque non pregiudizievole alla salute; se necessario, al fine di evitare che l’usura fisica e psichica determini danni alla salute del dipendente, l’organico aziendale deve essere rivisto e adeguato a un impegno sopportabile per tutti i dipendenti.
Anche se apparentemente eversivo, in termini di interferenza della Magistratura nella libertà d’impresa (art. 41 Cost.) e quindi nella libertà dell’imprenditore di organizzare come meglio crede la propria azienda, il principio affermato dalla Cassazione non è altro se non un’applicazione concreta della norma contenuta nell’art. 2087 c.c., secondo il quale “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro”.
Non si deve pensare che, in questo modo, si lascino decidere ai giudici le dimensioni dell’organico aziendale; piuttosto, la sentenza sopra citata mette a fuoco il dovere dell’imprenditore di darsi una struttura tale da evitare che uno o più lavoratori dipendenti siano costretti a fornire un apporto lavorativo che possa determinare danni alla salute, a causa dell’impegno eccessivo.
In questo senso, nessun organico aziendale può essere predeterminato da un soggetto terzo; è lo stesso imprenditore che è tenuto a verificare costantemente la congruità del suo organico, per ampliarlo nei casi in cui ciò risulti necessario per impedire la lesione di un bene riconosciuto fondamentale dalla Costituzione (art. 32), quale la salute dei lavoratori dipendenti.
Il principio enunciato dalla Cassazione è ovviamente applicabile in ogni settore aziendale e in ogni tipo di mansione e funzione, e può dunque riguardare sia l’operaio che l’impiegato, sia il funzionario che il dirigente.
Risarcimento del danno in caso di infarto dovuto a stress da lavoro
Su tale aspetto è intervenuta la Cassazione (sentenza n. n. 12339 del 5 novembre 1999) enunciando un principio di estrema importanza.
La Suprema Corte è stata chiamata ad occuparsi della controversia promossa da un lavoratore colpito dapprima da depressione, e poi da un infarto al miocardio, di gravità tale da determinare un’invalidità di grado elevato.
Tali danni alla salute erano stati ritenuti imputabili, dal Tribunale in precedenza occupatosi del caso, in parte al comportamento del datore di lavoro, che per lungo tempo aveva sottratto al lavoratore i compiti di sua pertinenza, così determinando una situazione di stress sfociata dapprima in una sindrome depressiva e poi nell’infarto, ed in parte ad una preesistente patologia coronarica, che poteva essere considerata una delle cause dell’infarto.
Pertanto, la responsabilità del danno, ed il conseguentemente risarcimento, erano stati posti solo in parte a carico della società datrice di lavoro.
Accogliendo il ricorso del dipendente, la Cassazione, ha invece posto interamente a carico della società la responsabilità del danno subito dal dipendente. Ciò in quanto, secondo la Suprema Corte, la comparazione del grado di incidenza di più cause nel verificarsi di un danno può essere effettuata solo in presenza di più comportamenti umani colpevoli, ma non quando una delle concause sia, come nell’ipotesi esaminata, di origine naturale.
Ciò significa, in sostanza, che il datore di lavoro può essere esonerato, in parte, dalla responsabilità a lui imputabile, solo nel caso in cui dimostri che il danno è stato determinato anche da un inadempimento ai propri obblighi del lavoratore, o di un altro soggetto, mentre non può invocare a giustificazione del danno subito dal lavoratore il fatto che lo stesso fosse precedentemente malato, o che comunque a determinare il danno abbia concorso anche qualche evento naturale ed imprevedibile.
Con altra sentenza (n. 1307 del 5/2/2000), la suprema Corte ha esaminato il caso di un lavoratore con qualifica di quadro, che aveva svolto per circa sette anni le mansioni di capo ufficio addetto alla organizzazione delle esposizioni di un Ente Fiera e, nel marzo 1986, aveva subito un infarto cardiaco.
Conseguentemente si era rivolto al Giudice del lavoro per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, sostenendo di essere stato costretto ad un’estenuante attività lavorativa con impegno medio settimanale di 60 ore a causa della inadeguatezza dell’organico e della complessità dei compiti affidatigli.
La domanda veniva rigettata dal Pretore e dal Tribunale. La sentenza del Tribunale è stata poi cassata dalla Suprema corte, sulla base del seguente principio: il potere imprenditoriale, volto alla massimizzazione della produzione, incontra un imprescindibile limite nella necessità di non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e nel far sì che nell’attività di collaborazione richiesta ai dipendenti venga predisposta una serie di misure, oltre quelle legali, che appaiono utili a impedire l’insorgere o l’ulteriore deteriorarsi di situazioni patologiche idonee a causare effetti dannosi alla salute del lavoratore (art. 41 c. 2 Cost. e art. 2087 c.c.). Conseguentemente, la Corte ha rinviato la causa al Tribunale di rinvio.
Il Giudice del rinvio ha successivamente accolto la domanda del lavoratore, ritenendo provata la sussistenza delle condizioni di superlavoro in cui aveva operato il dipendente nell’indifferenza del datore di lavoro. Il giudice del rinvio, inoltre, sulla base della consulenza tecnica che già era stata disposta dal Pretore, ha ritenuto che l’infarto subito dal lavoratore fosse da attribuire all’attività lavorativa, nonostante la sussistenza di altri fattori di rischio, quali la familiarità ipertensiva, il fumo di 15 sigarette al giorno e la vita sedentaria. Conseguentemente, il datore di lavoro è stato condannato a risarcire il danno, quantificato in L. 300.000.000, oltre interessi e rivalutazione.
La questione è infine tornata all’esame della Suprema corte a seguito di ricorso del datore di lavoro. L’impugnazione è stata rigettato dalla sentenza sopra citata, che ha definitivamente posto fine alla controversia.
In particolare, è stato ritenuto che il datore di lavoro, per non compromettere l’integrità psico-fisica del lavoratore, deve attuare tutte le misure necessarie, compreso l’adeguamento dell’organico. L’adozione di tali misure, comprese appunto quelle intese ad evitare l’ eccessività di impegno da parte del lavoratore, resta necessaria anche nel caso in cui il lavoratore accetti di prestare lavoro straordinario continuativo, ancorché contenuto nel c.d. monte ore contrattuale massimo, o rinunci a un idoneo periodo feriale.
Né ha efficacia esimente per il datore di lavoro, che abbia omesso le misure atte ad impedire l’evento lesivo, l’eventuale concorso di colpa del lavoratore: il datore di lavoro è esonerato da ogni responsabilità soltanto quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute.
Infine la Corte ha precisato che spetta al lavoratore fornire la prova della violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la integrità psico-fisica del lavoratore.
Al datore di lavoro spetta invece l’onere di provare che l’evento lesivo dipenda da un fatto a lui non imputabile e cioè da un fatto che presenti i caratteri dell’abnormità, dell’inopinabilità e dell’esorbitanza in relazione al procedimento lavorativo e alle direttive impartite.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di danno biologico
In genere
- La responsabilità solidale del committente per il danno alla salute subito dal dipendente dell’appaltatore ha natura contrattuale, prescrivendosi dunque nel termine ordinario di dieci anni.
Il Tribunale accoglie parzialmente il ricorso presentato da un lavoratore, impiegato in un appalto, per il danno biologico differenziale provocato da un infortunio subito nel corso della propria attività lavorativa, condannando il datore di lavoro a risarcire il danno differenziale liquidato sulla base dei consolidati orientamenti in materia. Quanto alla responsabilità solidale del committente per i danni subiti dal lavoratore impiegato nell’appalto, viene respinta l’eccezione di prescrizione quinquennale proposta dall’appaltante, ritenendo il Giudice che la natura contrattuale dell’obbligazione di sicurezza si estenda anche alla relazione col soggetto co-obbligato ex lege in garanzia. Tuttavia, la domanda a carico della committente viene respinta nel merito per carenza di prova della sussistenza di una specifica responsabilità di quest’ultima, che non viene ritenuta oggettiva, richiedendosi una valutazione in concreto del nesso causale tra il comportamento della committente e le inadempienze dell’appaltatore. (Trib. Gorizia 31/5/2023, Giud. Allieri, in Wikilabour, Newsletter n. 12/23) - In tema di liquidazione del danno biologico cd. differenziale, di cui il datore di lavoro è chiamato a rispondere nei casi in cui opera la copertura assicurativa INAIL in termini coerenti con la struttura bipolare del danno-conseguenza, va operato un computo per poste omogenee, sicché, dall’ammontare complessivo del danno biologico, va detratto non già il valore capitale dell’intera rendita costituita dall’INAIL, ma il solo valore capitale della quota di essa destinata a ristorare, in forza dell’art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000, il danno biologico stesso, con esclusione, invece, della quota rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell’assicurato, volta all’indennizzo del danno patrimoniale. (Cass. 14/10/2016 n. 20807, Pres. Nobile Rel. Spena, in Lav. nella giur. 2017, 204)
- Il danno biologico, in base all’art. 13, d.lgs. n. 38/2000, è la lesione dell’integrità psico-fisica della persona suscettibile di valutazione medico legale. Conseguentemente, il giudice di merito, per tale valutazione, deve disporre consulenza tecnica d’ufficio, non essendo sufficiente il mero richiamo all’equità. (Cass. 8/3/2011 n. 5437, Pres. Roselli Rel. Curzio, in Lav. nella giur. 2011, 520)
- Lo sforzo fisico del lavoratore può determinare una patologia riconducibile all’infarto occorso allo stesso qualora si verifichi un’azione rapida e intensa tale da determinare una lesione del lavoratore medesimo. A tal fine è necessario per il risarcimento del danno la dimostrazione del nesso causale tra l’attività lavorativa svolta e l’evento lesivo. (Nella specie la Cassazione ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno della moglie di un fattorino deceduto per infarto sul rilievo che il semplice stress e affaticamento quotidiano del lavoro svolto dal marito non può essere l’unico elemento per dimostrarne la nocività). (Cass. 28/7/2010 n. 17649, Pres. Sciarelli Rel. Nobile, in Lav. Nella giur. 2010, 1049)
- In considerazione del carattere provvisorio dell’art. 13 del D.Lgs. n. 38 del 2000, il quale non ha la pretesa di esaurire la tematica dell’indennizzo del danno biologico, le tabelle allegate al suddetto decreto potrebbero essere disapplicate in via incidentale dal giudice ordinario che le ritenesse illegittime, restando esclusa invece la possibilità di incrementare per via giurisprudenziale l’ammontare del danno biologico lamentato dal lavoratore per causa di lavoro e di superare i valori dalla stessa indicati qualora si rivelino insufficienti per una adeguata valutazione del danno. (Cass. 23/4/2010 n. 9699, Pres. Roselli Rel. Di Nubila, in Lav. nella giur. 2010, 733)
- L’indennizzo del danno biologico ai sensi dell’art. 13, d.lgs. n. 38/2000, non preclude il diritto del lavoratore danneggiato a conseguire il risarcimento del danno biologico differenziale c.d. qualitativo. (Trib. Tivoli 18/11/2009, Est. Mari, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2010, con commento di Antonio Federici, “Il danno differenziale prima e dopo il D.Lgs. n. 38/2000”, 351)
- Costituisce violazione dell’art. 2087 c.c. l’adibizione continuativa del dipendente in ambiente sotterraneo insalubre e con richiesta di interventi continuativi 24 su 24, così esponendo il ricorrente a uno stress nel tempo somatizzato sub specie di patologia psichica che ha dato luogo a danno biologico permanente, che deve quindi essere risarcito dal datore di lavoro. (Trib. Bari 11/6/2009, Est. Napoliello, in D&L 2009, 783)
- Costituiscono fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2087 c.c. la condizione di intenso e protratto disagio fisico e psichico che la condotta datoriale ha procurato alla lavoratrice madre e che ha dato luogo non solo a un pregiudizio interiore di tipo emotivo, ma anche ad alterazioni della vita di relazione derivanti dall’aver indotto scelte personali e familiari diverse, rispetto a quelle che sarebbero state espressive della personalità della lavoratrice qualora avesse potuto godere liberamente e senza ritorsioni dei suoi diritti quale madre. Il risarcimento può essere liquidato in via equitativa. (Trib. Pisa 2/4/2009, Est. Santoni, in D&L 2009, con nota di Chiara Zambrelli, “In tema di licenziamento di lavoratrice madre”, 801)
- L’azione di risarcimento del danno da perdita di chances può essere proposta dal lavoratore che non abbia maturato il diritto alla retribuzione per colpevole inadempimento del datore di lavoro. La parte ricorrente, creditrice, ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita, della quale il danno risarcibile deve essere la conseguenza immediata e diretta. (Trib. Napoli 11/3/2009, Giud. Totaro, in Lav. nella giur. 2009, 636)
- Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento del danno è regolato dalle norma dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato. L’art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne sia conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti. (S.U. 11/11/2008 n. 26972, Pres. Carbone Est. Preden, in Orient. della giur. del lav. 2009, 1)
- Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre. Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale, del quale va esclusa ogni connotazione di carattere temporale. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Ugualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del pregiudizio di tipo esistenziale che altro non sono che componenti del complesso pregiudizio non patrimoniale, che va integralmente e unitariamente ristorato. Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicché darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione. (S.U. 11/11/2008 n. 26972, Pres. Carbone Est. Preden, in Orient. della giur. del lav. 2009, 1)
- Nel caso in cui il datore di lavoro non consenta al lavoratore di avvalersi delle risorse umane di supporto necessarie, nonostante le ripetute richieste di supporto da parte del lavoratore, e imponga (o consenta) allo stesso di effettuare un numero di ore di lavoro straordinario superiore a quello massimo previsto dal Ccnl e, in conseguenza di queste condizioni di lavoro stressante, il lavoratore si ammali, il datore di lavoro è responsabile ex art. 2087 c.c. ed è tenuto al risarcimento del danno non patrimoniale, con riferimento al danno esistenziale e morale. (Trib. Grosseto 23/7/2008, dott. Ottati, in Lav. nella giur. 2009, 98)
- Il diritto al risarcimento non viene meno per effetto dell’erogazione da parte dell’Inail della prestazione di cui all’art. 13, D.Lgs. n. 38/2000. Il diritto leso, ossia l’integrità psicofisica, è bene fondamentale, costituzionalmente tutelato, la cui lesione deve essere integralmente risarcita; la norma posta dall’art. 13 D.Lgs. citato, dichiaratamente provvisoria e introdotta in attesa della definizione di carattere generale di danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, assume finalità indennitaria a scopi previdenziali e non pretende di esaurire l’entità delle conseguenze pregiudizievoli del sinistro verificatosi in occasione di lavoro, come provano la mancata distinzione a fini indennitari, del danno di inabilità temporanea da quello per inv alidità permanente e l’esclusione dell’indennizzo per il danno biologico permanente per menomazioni inferiori al 60%. (Trib. Treviso 7/12/2007, D.ssa Bigi, in Lav. nella giur. 595)
- L’illecito lesivo dell’integrità psico-fisica della persona può dar luogo a due distinte voci di risarcimento, rispettivamente a titolo di danno biologico e di danno patrimoniale per la riduzione della capacità lavorativa specifica; pertanto il giudice è tenuto a verificare se le lesioni accertate, oltre a incidere sulla salute del soggetto, abbiano anche pregiudicato la sua capacità lavorativa specifica, con riduzione, per il futuro, della sua capacità di reddito. Cass. 10/1/2007 n. 238, Pres. Senese Est. De Matteis, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Dario Simeoli, “Presunzione di colpa e danno morale; danno biologico e invalidità lavorativa specifica”, 670 e in D&L 2007, con nota di Francesca Malzani, “Infortuni sul lavoro, responsabilità contrattuale e voci di danno risarcibili”, 770)
- In virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., il danno biologico, individuato nella lesione dell’integrità psico-fisica della persona, va ricondotto al danno non patrimoniale, come pure il danno morale, tradizionalmente inteso come sofferenza psichica causata alla vittima, e la lesione di interessi costituzionalmente protetti. (Trib. 4/1/2006, Est. Dott.ssa Vitali, in Lav. nella giur. 2006, 1026)
- Il cosiddetto mobbing consiste in una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo e gravità. Tale fenomeno si distingue dal c.d. straining che è costituito da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre a essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining in persistente inferiorità. Pertanto mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento). Nella fattispecie, strutturata da solo demansionamento assoluto e protratto (c.d. forzata inattività) per oltre due anni, il comportamento illecito datoriale è qualificabile come straining, determinativo di danno biologico (stimato dal Ctu nel 7-8%), nonché di danno alla professionalità (equitativamente liquidabile con il parametro dell’80% della retribuzione netta e non del 100% in considerazione del fatto che la lavoratrice si è prepensionata e non ha dovuto ricercare nuova occupazione sul mercato del lavoro). Compete alla vittima altresì il danno morale che, alla luce del recente orientamento giurisprudenziale (costituito da Cassazione nn. 8827 e 8828 del 31 maggio 2003 e da Corte Costituzionale n. 233/2003), nell’attuale sistema normativo caratterizzato da una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., prescinde dalla sussistenza di un fatto qualificabile astrattamente come reato, essendo unicamente ricollegato alla lesione di interessi costituzionalmente garantiti. (Trib. Bergamo 20/6/2005, Giud. Bertoncini, in Lav. e prev. oggi 2005, 1826)
- Al soggetto affetto da patologia dipendente da attività lavorativa il danno biologico subito deve essere liquidato utilizzando le tabelle elaborate dal Tribunale di riferimento, sulla base della percentuale di invalidità e dell’età della persona, mentre il danno morale può essere equitativamente risarcito con una somma equivalente al quarto del danno biologico. (Trib. Barcellona Pozzo di Gotto 15/4/2004 n. 501, Giud. Grasso, in Giur. It. 2005, 1168)
- Il D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, realizza la necessità di ricondurre il danno biologico alla copertura assicurativa obbligatoria. Il c.d. danno differenziale è certamente danno patrimoniale, risarcibile nel caso di fatto costituente reato, mentre sicuramente tale non è il danno biologico, dunque sostenere l’analogia tra i due istituti presenta notevoli difficoltà dal punto di vista logico. Inoltre, l’art. 5, L. n. 57/2001 prevede la possibilità di adire il giudice per ottenere un risarcimento ulteriore, mentre sul punto nulla prevede l’art. 13, D. Lgs. N. 38/2000. (Trib. Torino 10/6/2003, Est. Lanza, in Lav. nella giur. 2004, 1209)
- L’art. 2087 c.c., il cui disposto trova conferma nel principio costituzionale dell’art. 41, 2° comma Cost., consente di qualificare come illecito contrattuale ogni comportamento doloso o colposo che cagioni un pregiudizio alla personalità del lavoratore. (Nella fattispecie il fatto di dover subire da parte dei soci e responsabili del lavoro un linguaggio scurrile, reazioni inutilmente aggressive ed espressioni verbali maleducate o minacciose diventa sicuramente lesivo della personalità e della dignità del lavoratore nel contesto lavorativo in cui si trova giuridicamente in posizione di debolezza ed in cui la reazione è impedita dal pericolo di perdere il posto di lavoro). L’imputabilità di alcune condotte lesive della personalità morale e della dignità del lavoratore al socio amministratore della società cedente e la loro conoscenza da parte del legale rappresentante della società cessionaria, che non ha agito secondo gli obblighi di prevenzione e repressione di condotte lesive della personalità morale e della dignità del lavoratore imposti dall’art. 2087 c.c., comporta la condanna della società cessionaria al risarcimento del danno biologico derivante dalla violazione dell’art. 2087 c.c., anche in via solidale in virtù dell’art. 2112 c.c. La tolleranza da parte dell’amministratore della datrice di lavoro di comportamenti illeciti e la loro prevedibile evoluzione in comportamenti di molestia sessuale costituenti reato comportano ex art. 2049 c.c. una concorrente responsabilità aquiliana della società, che risponde pertanto anche del danno morale. (Trib. Pavia 14/12/2002, Est. Trogni, in D&L 2003, 349)
- Il contenuto dell’obbligo previsto dall’art. 2087 c.c. non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione in materia di prevenzione degli infortuni, ma comporta, per il datore di lavoro, il divieto di porre in essere, nell’ambito aziendale, qualsivoglia comportamento lesivo del diritto all’integrità psico-fisica del lavoratore (Cass. 2 maggio 2000 n. 5491, pres. Grieco, est. Stile, in D&L 2000, 778, n. Tagliagambe)
- Ove risulti – come nella fattispecie – che le manifestazioni esteriori del danno subito dal lavoratore alla propria integrità psicofisica, e cioè la perdita del patrimonio affettivo, e le varie somatizzazioni denunciate (nausea, vomito, irritabilità), non siano da porre in relazione diretta con i comportamenti datoriale, ma piuttosto con le autonome scelte di vita del lavoratore o delle persone a lui affettivamente legate, non può ritenersi alcuna responsabilità datoriale, per difetto del nesso di causalità fra evento dannoso e comportamento del datore di lavoro (Cass. 2 maggio 2000 n. 5491, pres. Grieco, est. Stile, in D&L 2000, 778, n. Tagliagambe)
- Il danno biologico è il danno alla salute immanente alla lesione dell’integrità bio-psichica della persona e si distingue da ogni altro danno di natura patrimoniale e dal danno morale conseguente a reato, ed è comprensivo anche del danno alla vita di relazione (Cass. sez. lav. 5 novembre 1999 n. 12339, pres. Delli Priscoli, est. Mercurio, in D&L 2000, 205, n. Liguori, Danno biologico e concause)
- E’ opinione unanimamente condivisa che il danno biologico è rappresentato dalle lesioni all’integrità psicofisica, ossia alla salute della persona in sé e per sé considerata, in quanto ricadente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, sicché rilevano in termini di detto danno menomazioni, deturpazioni, impotenza sessuale, malattie nervose, insonnia, malattie mentali e ogni altro genere di lesioni dell’integrità corporale e mentale della persona. Risulta incontestato che il danno biologico vada risarcito quale danno rilevante in sé, distinto rispetto ai danni morali sia rispetto alle conseguenze negative di carattere patrimoniale che da esso possono scaturire (Cass. 23/2/99, n. 2037, pres. Grieco, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 468, con nota di Guerra, Riflessioni sul danno biologico. Spunti critici in tema di risarcibilità del danno biologico iure hereditatis (o successionis) e iure proprio)
Onere della prova
- Il dirigente che, in conseguenza della risoluzione del rapporto di lavoro per recesso ingiustificato del datore, rivendica il risarcimento del danno biologico dovuto all’illegittima condotta datoriale, deve provare i fatti posti a fondamento della domanda, in quanto gli effetti risarcitori non derivano automaticamente dall’accertata illegittimità del recesso, e, in particolare, deve provare l’elemento soggettivo della colpa grave e del dolo sotteso ai comportamenti datoriali. (Cass. 22/3/2010 n. 6847, Pres. Roselli Est. Morcavallo, in D&L 2010, con nota di Vania Scalambrieri, “Il risarcimento del danno biologico per illegittimo licenziamento presuppone la prova dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave in capo al datore di lavoro”, 582, e in Orient. giur. lav. 2010, 368)
- Il lavoratore che agisce in giudizio per il risarcimento del danno conseguente alla violazione della normativa in materia di sicurezza del lavoro da parte del datore è onerato di provare, oltre al danno e alla pericolosità dell’ambiente lavorativo, anche il nesso eziologico tra questi due elementi. Sul datore di lavoro grava invece l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie a impedire il verificarsi del danno. (Trib. Pisa 14/3/2008, Giud. Santori Rugiu, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Fabio Fabbrini, “Sull’onere della prova e gli effetti del giudicato penale nel giudizio civile in tema di danno da infortunio sul lavoro o malattia professionale”, 585)
- In caso di dequalificazione, dall’inadempimento datoriale non deriva automaticamente l’esistenza del danno, per cui si rende necessaria una specifica allegazione in tal senso da parte del lavoratore, che deve in primo luogo precisare quale delle molteplici forme che può assumere il danno da dequalificazione ritenga in concreto di aver subito, fornendo tutti gli elementi, le modalità e le peculiarità della situazione di fatto, attraverso i quali possa emergere la prova del danno e indicando quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. (Trib. Milano 6/11/2007, D.ssa Porcelli, in Lav. nella giur. 2008, 426)
- La situazione di turbamento psichico conseguente al proseguimento della prestazione lavorativa in ambiente inquinato, se non può formare oggetto di prova diretta, al pari di qualsiasi altro stato psichico interiore del soggetto, può essere tuttavia desunta da altre circostanze di fatto esterne, quali la presenza di malattie psico-somatiche, insonnia, inappetenze, disturbi del comportamento o altro. Conseguentemente, il lavoratore che, impiegato in cantiere esposto all’inalazione di polveri di amianto, chiede il risarcimento dei danni per l’esposizione ad agenti patogeni, pur non avendo contratto alcuna malattia, non è liberato dalla prova di aver subito un effettivo turbamento psichico e questa prospettata situazione di sofferenze e disagio non può essere desunta dalla mera prestazione lavorativa in ambiente inquinato. (Principio affermato in controversia in cui i lavoratori deducevano che il patema d’animo causato dalla consapevolezza della seria e concreta esposizione ultratrentennale all’amianto non poteva essere oggetto di accertamento o di riscontro medico legale, ma poteva essere desunto dai dati di comune esperienza; la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva respinto la domanda di risarcimento per non avere i lavoratori fornito alcuna prova in ordine alla gravità dell’evento e all’asserito turbamento, nè alla dipendenza causale del turbamento dall’esposizione all’agente patogeno). (Rigetta, App. Lecce, 13 febbraio 2004). (Cass. 6/11/2006 n. 23642, Pres. Sciarelli Est. D’Agostino, in Dir. e prat. lav. 2007, 1313)
- Poiché la violazione dell’art. 2087 c.c. implica una responsabilità contrattuale, e non extracontrattuale, il regime probatorio applicabile è quello previsto dall’art. 1218 c.c., e non quello dell’art. 2043 c.c., con la conseguenza che grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di tutela dell’integrità psicofisica dei lavoratori, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare sia la lesione dell’integrità psicofisica, sia il nesso di causalità fra tale evento e il comportamento datoriali (Cass. 2 maggio 2000 n. 5491, pres. Grieco, est. Stile, in D&L 2000, 778, n. Tagliagambe)
- La responsabilità del datore di lavoro – che è tenuto alla predisposizione e all’adozione di tutte le misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore – ha natura contrattuale, con la conseguenza che, al fine della risarcibilità del danno biologico – inteso come danno all’integrità psico-fisica della persona in sé considerato (danno che può consistere in un eccessivo carico di lavoro estrinsecantesi nell’accettazione di lavoro straordinario continuativo o nella rinuncia a periodi di ferie), grava sul lavoratore l’onere di provare l’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di adottare le suddette misure di protezione. Una volta assolto tale onere, non occorre invece che il lavoratore dimostri anche la sussistenza della colpa del datore di lavoro inadempiente, gravando su quest’ultimo il diverso onere di provare che l’evento lesivo sia dipeso da un fatto a lui non imputabile. Inoltre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa (Cass. 5/2/00 n. 1307, pres. Sommella, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 391, con nota di Ludovico, “Superlavoro” e demansionamento: due pronunce della Cassazione in tema di danno biologico e rilevanza delle concause naturali; in Dir. relazioni ind. 2000, pag. 390, con nota di Veronesi, Danno da ” superlavoro” e responsabilità del datore)
Concause
- L’autore dell’azione o dell’omissione è sollevato interamente da ogni responsabilità dell’evento solo nel caso in cui le condizioni ambientali o i fattori naturali si dimostrino sufficienti a determinare l’evento di danno, indipendentemente dall’apporto del comportamento umano (Cass. sez. lav. 5 novembre 1999 n. 12339, pres. Delli Priscoli, est. Mercurio, in D&L 2000, 205, n. Liguori, Danno biologico e concause)
- La completa responsabilità dell’agente va riconosciuta per tutte le conseguenze che derivano secondo normalità dall’evento, senza che possa attuarsi una riduzione di responsabilità proporzionale alla minore gravità della colpa, potendo essere comparato il grado di incidenza solo tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli e non tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (Cass. sez. lav. 5 novembre 1999 n. 12339, pres. Delli Priscoli, est. Mercurio, in D&L 2000, 205, n. Liguori, Danno biologico e concause)
- Il lavoratore (nella specie dirigente) che, a seguito di demansionamento e forzata inattività, subisca uno stress psico-fisico con conseguente infarto, ha diritto al risarcimento del danno biologico, nell’intera misura quantificata; né, a circoscrivere la responsabilità datoriale, rileva l’esistenza di una concausa naturale antecedente, in quanto una comparazione del grado di incidenza di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto fra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non già tra una causa umana imputabile e una concausa naturale non imputabile (Cass. 5/11/99 n. 12339, pres. Priscoli, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 391, con nota di Ludovico, “Superlavoro” e demansionamento: due pronunce della Cassazione in tema di danno biologico e rilevanza delle concause naturali)
- Il principio della causalità grave – secondo il quale tutti gli antecedenti di un evento si considerano causa dello stesso, salvo il sopravvento di eventi eccezionali, idonei a interrompere il nesso di causalità – trova applicazione anche nel diritto civile; conseguentemente, ove la dequalificazione sia concausa di un evento lesivo (nella specie, afonia), deve riconoscersi la risarcibilità autonoma del relativo danno biologico (Pret. Milano 20/6/95, est. Curcio, in D&L 1995, 944)
Infortunio sul lavoro
- Con riferimento al risarcimento del danno esistenziale per perdita del rapporto parentale e del danno morale e biologico iure successionis in favore degli eredi di un lavoro deceduto dopo alcuni giorni dall’infortunio, non è risarcibile il danno esistenziale (in quanto duplicazione del danno morale iure proprio già riconosciuto) e il danno morale iure successionis (in quanto duplicazione del danno biologico richiesto allo stesso titolo), mentre deve essere riconosciuto nella misura del 100% il danno biologico terminale iure successionis, considerando, più che il lasso temporale tra l’infortunio e la morte, l’intensità della sofferenza provata dalla vittima dell’illecito per la presenza di una sofferenza e di una disperazione esistenziale di intensità tale da determinare nella percezione dell’infortunato un danno catastrofico, in una situazione di attesa lucida e disperata dell’estinzione della vita. (Cass. 18/1/2011 n. 1072, Pres. Vidiri Est. Zappia, in Orient. Giur. Lav. 2011, 114)
- In caso di infortunio sul lavoro, dal quale sia derivata la morte del lavoratore a distanza temporale dal fatto anche brevissima, è risarcibile al lavoratore, ed è quindi trasmissibile iure ereditatis, il c.d. danno tanatologico o da morte immediata, il quale va ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia accezione, come sofferenza della vittima che assiste allo spegnersi della propria vita. (Cass. 4/6/2010 n. 13672, Pres. Roselli Est. Nobile, in Orient. Giur. Lav. 2010, 546)
- Il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno preferenziale da infortunio sul lavoro proposta dal lavoratore si pone negli stessi termini posti dall’art. 1218 c.c., in forza del quale il creditore che agisca per il risarcimento del danno deve provare tre elementi: la fonte (negoziale o legale) del suo diritto, il danno e la sua riconducibilità al titolo dell’obbligazione; a tale scopo egli può limitarsi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre è il debitore convenuto a essere gravato dell’onere di provare il proprio adempimento, o che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile. (Trib. Monza 10/3/2009, Giud. Dani, in Lav. nella giur. 2009, 637)
- L’indennizzo erogato dall’Inail ai sensi dell’art. 13, D.Lgs. 38/2000 non ripara integralmente il danno alla salute subito dal lavoratore a causa della malattia professionale o dell’infortunio sul lavoro; va conseguentemente riconosciuta la risarcibilità del danno biologico differenziale. (Corte d’appello Torino 29/11/2004, Pres. Peyron Rel. Buzano, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Enrico Barraco, 574)
- Nel nuovo regime indennitario previsto dall’art. 13, D.Lgs. n. 38/2000 il lavoratore non è legittimato a chiedere al datore di lavoro il risarcimento di danno biologico differenziale, trovando tale voce di danno pieno ed unico ristoro nell’indennizzo corrisposto dall’Inail per tale specifico titolo; tuttavia l’indicata tutela previdenziale non sembra consentire di escludere sempre e comunque la possibilità di allegare e provare l’esistenza, in concreto, di componenti di danno non coperte e non previste dal sistema dell’indennizzo Inail, che necessitano una valutazione personalizzata del valore di punto da attribuire al danno biologico (nel caso di specie il giudice, considerando che il lavoratore prima dell’infortunio agli arti superiori praticava il nuoto e viaggiava con il proprio camper, riconosce che questi elementi costituiscono un quid pluris personalizzato al cui risarcimento deve provvedere direttamente il datore di lavoro. (Trib. Vicenza 3/6/2004, Est. Perina, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Enrico Barraco, 569)
- In ipotesi di infortunio sul lavoro comportante una grave menomazione fisica, una volta accertata la responsabilità del datore di lavoro, questi è tenuto al risarcimento del danno biologico e del danno morale subiti dal dipendente; per la determinazione del danno biologico, che comprende l’inabilità temporanea, totale o parziale, e l’invalidità permanente, può farsi ricorso alle tabelle in uso mentre il danno morale-tenuto conto delle sofferenze e dei patemi d’animo connessi alla menomazione-cpuò quantificarsi con valutazione equitativa (nella fattispecie il danno morale è stato quantificato in misura pari alla metà del danno biologico complessivo). (Trib. Milano 14/3/2003, Est. Negri della Torre, in D&L 2003, 674)
- Con riferimento al danno biologico derivante da infortunio sul lavoro occorso prima dell’entrata in vigore dell’art. 13 d. leg. 23 febbraio 2000 n. 38, che ha esteso ad esso la copertura dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, l’onere probatorio si ripartisce secondo il regime particolare previsto dall’art. 1218 c.c., dovendo il datore di lavoro vincere la presunzione legale di colpa per l’inadempimento dell’obbligo di sicurezza statuito dall’art. 2087 c.c., mentre a carico del lavoratore grava l’onere di provare il fatto dell’inadempimento e la sussistenza del nesso di causalità materiale tra tale fatto e il danno biologico. (Cass. 26/10/2002, n.15133, Pres. Senese, Est. De Luca, in Foro it. 2003, parte prima, 505)
- Secondo la disciplina di cui al d. P. R. n. 1124/1965, applicabile per il periodo antecedente l’entrata in vigore del d. lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, non può ammettersi una decurtazione delle somme dovute dal datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno biologico patito dal prestatore in conseguenza di un infortunio o malattia professionale sul presupposto che tale pregiudizio sia in parte coperto dalla rendita INAIL per riduzione della capacità di lavoro generica. L’indennizzo INAIL, prima della riforma del 2000, si limitava infatti a riparare la perdita patrimoniale da mancato guadagno, era chiamato cioè solo a ristorare i riflessi economici derivanti dalla perdita dell’attitudine a svolgere un qualsiasi lavoro, mentre in nessun modo e per nessuna quota poteva intendersi volto a compensare la menomazione dell’integrità psico-fisica della persona in sé considerata. (Cass. 21/3/2002, n. 4080, Pres. Mileo, Est. De Matteis, in Riv. it. dir. lav. 2003, 31, con nota di Alberto Pizzoferrato, Danno biologico da infortunio sul lavoro: copertura assicurativa INAIL e risarcimento a carico del datore di lavoro; in Foro it. 2003, parte prima, 506)
- In ipotesi di infortunio sul lavoro, stante la natura contrattuale della responsabilità ex art. 2087 c.c., spetta al datore di lavoro fornire la prova di avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore (Cass. 4 luglio 2000 n. 8944, pres. Santojanni, est. D’Angelo, in D&L 2000, 1029, n. Quadrio)
- In ipotesi di infortunio sul lavoro, una volta accertata la mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza imposte dal DPR 27/4/55 n. 547, va ritenuta la piena responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., nonché ex art. 590 c.p., con conseguente obbligo di integrale risarcimento del danno biologico, del danno morale e delle spese mediche, indipendentemente dall’eventuale concorso di colpa del lavoratore infortunato, che non vale a escludere la responsabilità datoriale, a meno che non si concreti in una condotta totalmente estranea alla prestazione lavorativa, e, come tale, assolutamente inopinabile e imprevedibile (Pret. Busto Arsizio, sez. Gallarate, 10/2/99, est. Guadagnino, in D&L 1999, 641)
- In ipotesi di infortunio sul lavoro, una volta accertata la mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza imposte dal DPR 30/6/65 n. 1124, va ritenuta la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico; l’adesione spontanea del lavoratore alla richiesta della prestazione lavorativa straordinaria durante la quale l’infortunio si è verificato è irrilevante ai fini della sussistenza di detto obbligo, posto che tale comportamento non introduce alcun elemento di volontarietà idoneo a configurare un “rischio elettivo” (Trib. Roma 22/1/99, pres. ed est. Zecca, in D&L 1999, 590)
- Al lavoratore della subappaltatrice, riconosciuto dipendente della subappaltante, che sia rimasto vittima di infortunio per accertata responsabilità di quest’ultima, compete il risarcimento del danno biologico e morale, da porsi a carico esclusivo della subappaltante, e non anche della committente, posto che l’art. 1676 c.c. si applica ai soli crediti di natura retributiva, e non a quelli di carattere risarcitorio (Pret. Milano 5/7/97, est. Cecconi, in D&L 1998, 155)
- In ipotesi di infortunio sul lavoro, una volta accertata la mancata adozione, da parte del datore di lavoro, delle misure di sicurezza imposte dal DPR 164/56, va ritenuta la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico, indipendentemente dall’eventuale concorso di colpa del lavoratore infortunato, posto che la possibilità di concorrenti condotte colpose degli addetti è una delle principali ragioni della rigorosità della normativa antinfortunistica di riferimento (Pret. Milano 30/4/97, est. Mascarello, in D&L 1997, 815)
- In ipotesi di infortunio occorso a un lavoratore, per avere sollevato un peso eccessivo, in rapporto alle sue precarie condizioni fisiche, già portate alla conoscenza dell’impresa, va affermata la responsabilità datoriale in relazione al sinistro, con obbligo di risarcimento del danno biologico, quand’anche sia accertato che fossero state impartite espresse disposizioni al lavoratore, affinché si astenesse da sforzi eccessivi, in quanto l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare, di propria iniziativa, e sotto il proprio controllo, tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza del lavoro, non consentendogli di demandare in via sistematica allo stesso lavoratore la valutazione e la decisione su ciò che, di volta in volta, può essere rischioso per la propria salute (Pret. Milano 17/5/96, est. Mascarello, in D&L 1997, 144)
- In caso di infortunio sul lavoro, ove sia accertato che l’evento dannoso si è verificato in conseguenza del comportamento imprudente o negligente del datore di lavoro, pur in assenza di specifiche violazioni della normativa anti-infortunistica, va ritenuta la responsabilità contrattuale datoriale, per violazione dell’art. 2087 c.c., con diritto del lavoratore infortunato al risarcimento del danno biologico e morale (Pret. Milano 11/10/95, est. De Angelis, in D&L 1996, 192)
- In ipotesi di infortunio sul lavoro, una volta accertata l’omissione, da parte del datore di lavoro, dell’adozione delle misure preventive di sicurezza, imposte, in forma generica, dall’art. 2087 c.c. e, in forma specifica, dal DPR 27/4/55 n. 547, va ritenuta la piena responsabilità, anche penale, del datore di lavoro, per imprudenza o negligenza; conseguentemente, compete al lavoratore infortunato l’integrale risarcimento del danno biologico, a prescindere da eventuali indennità previdenziali, attinenti esclusivamente ai riflessi che la menomazione psicofisica produce sulla capacità lavorativa dell’assicurato, nonché l’integrale risarcimento del danno morale, a prescindere dall’accertamento del reato in sede penale, ben potendo tale accertamento essere compiuto dal giudice civile (Pret. Monza 2/5/95, est. Padalino, in D&L 1995, 1009)
- In ipotesi di infortunio ascrivibile a responsabilità penale del datore di lavoro, per inosservanza della normativa antiinfortunistica di cui al DPR 27/4/55 n. 547, compete al lavoratore infortunato il risarcimento integrale del danno biologico e del danno morale, a prescindere da eventuali indennità corrisposte dall’Inail, essendo stato l’art. 10, c. 6 e 7, DPR 30/6/65 n. 1124, dichiarato illegittimo, con sentenza 27/12/91 n. 485 della Corte cost., nella parte in cui prevede la risarcibilità del danno biologico per la sola quota eccedente le indennità corrisposte dall’Inail (Pret. Milano 11/3/95, est. Peragallo, in D&L 1995, 655)
- Ove, in relazione alla produzione di un infortunio sul lavoro, sia accertata la responsabilità civile del datore di lavoro, per violazione degli obblighi imposti dall’art. 2087 c.c., ma non sia stata né dedotta né accertata la responsabilità penale del medesimo, compete al lavoratore infortunato il risarcimento del danno biologico, mentre non può essere riconosciuto il risarcimento del danno morale, essendo l’accertamento incidentale del reato in sede civile precluso dalla mancata richiesta di parte (Pret. Mlano 30/11/94, est. Taraborrelli, in D&L 1995, 398)
Malattie professionali
- Il principio dell’autonomia dei due istituti dell’equo indennizzo e del risarcimento del danno procurato da malattia professionale non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia, sia ai fini dell’equo indennizzo che della malattia. In sostanza, deve ritenersi che le due forme di tutela (equo indennizzo e risarcimento del danno biologico) sono assolutamente cumulabili e non alternative. (Trib. Taranto 7/3/2011, Giud. Lastella, in Lav. nella giur. 2011, 636)
- Ai sensi dell’art. 13, commi 2 e 8, della L. n. 30 del 2000, nel procedere alla liquidazione all’assicurato del danno biologico in capitale nel caso di lesioni dell’indennità psicofisica di grado intercorrente tra il sei e il sedici per cento, si deve fare riferimento alla situazione esistente non prima di sei mesi e non oltre un anno dal momento in cui è pervenuto all’Inail il certificato medico attestante l’avvenuta stabilizzazione dei postumi. Ove peraltro si tratti di malattie professionali che siano soggette a periodi di acuzie e a periodi di regressione, nella determinazione del danno occorre tener conto della frequenza e della durata delle varie fasi di maggiore e minore intensità del danno e dell’entità degli effetti dannosi riscontrabili nel corso di dette fasi. (Nella specie, la S.C., enunciando il principio su esteso, ha cassato con rinvio la sentenza di merito che, in relazione alla malattia professionale della dermatite da contatto da calce e da cemento, aveva liquidato il danno biologico commisurandolo ai postumi relativi alla fase acuta della malattia riscontrata al tempo della domanda amministrativa e non ai postumi minori come successivamente stabilizzati). (Cass. 16/10/2007 n. 21603, Pres. Senese Est. Monaci, in Lav. nella giur. 2008, 312)
- E’ ammissibile la domanda intesa a ottenere una prestazione assicurativa in relazione a una patologia, che sia denunciata come infortunio sul lavoro e risulti invece classificabile come malattia professionale; l’assicurato ha infatti l’obbligo di riferire in modo particoleggiato la sintomatologia accusata e quella rilevata dal medico certificatore, spetta poi al giudice qualificare l’evento come infortunio sul lavoro o malattia professionale. (Cass. 26/5/2006 n. 12559, Pres. Senese Est. De Matteis, in D&L 2006, 947)
- In caso di domanda promossa dagli eredi del lavoratore per il risarcimento dei danni derivanti da malattia professionale sussiste la legittimazione passiva dell’avente causa dal cessionario del ramo d’azienda cui era addetto il lavoratore anche quando la cessione sia avvenuta dopo la conclusione del rapporto di lavoro. (Trib. Milano 21/7/2003, Est. Atanasio, in D&L 2003, 971, con nota di Sara Huge, “Trasferimento di ramo d’azienda e responsabilità del cessionario anche per il risarcimento del danno alla persona”)
- In ipotesi di malattia professionale, provocata da esposizione dei lavoratori a sostanze nocive in assenza di adeguate misure di protezione, può essere accertata anche in sede civile, indipendentemente da qualsiasi pregiudiziale penale, la responsabilità datoriale, sia per violazione dell’art. 2087 c.c., sia per commissione di reato, con conseguente diritto dei lavoratori al risarcimento tanto del danno biologico, quanto del danno morale (Pret. Milano 9/2/96, est. Martello, in D&L 1996, 734)
Molestie sessuali
- Va confermata, perché immune da vizi censurabili in sede di legittimità, la sentenza di merito che, nel procedere alla liquidazione equitativa del danno non patrimoniale riportato da una dipendente a seguito delle molestie sessuali subite dal legale rappresentante della società datrice di lavoro, abbia fatto leva, per quanto riguarda il c.d. danno morale da reato, sulla particolare odiosità della condotta lesiva, indotta soprattutto dallo stato di soggezione economica della vittima, e, per la parte concernente il c.d. danno esistenziale, sul clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo e sul peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare della vittima stessa. (Cass. 19/5/2010 n. 12318, Pres. Vidiri Est. Ianniello, in Orient. Giur. Lav. 2010, 395)
- Nel procedimento penale per il reato di violenza sessuale commessa sul luogo di lavoro in danno di un’ispettrice di polizia da parte del superiore gerarchico, il Siulp è legittimato a costituirsi parte civile, ove la lavoratrice sia iscritta a tale sindacato. (Cass. pen. sez. III 26/3/2008 n. 12738, Pres. Altieri Est. De Maio, in Dir. e prat. lav. 2008, 1058)
- In ipotesi di atti di libidine violenti e di violenza carnale commessi in danno di lavoratrice subordinata dal superiore diretto non sussiste una concorrente responsabilità del datore di lavoro in ordine alle domande risarcitorie avanzate dalla lavoratrice per avere egli omesso, in violazione dell’art. 2087 c.c., di adottare le cautele necessarie ad evitare danni all’integrità personale ed alla dignità della propria dipendente qualora gli atti posti in essere dal superiore siano risultati non prevedibili e non sia emerso in altro modo un comportamento negligente da parte del datore di lavoro; sussiste peraltro nel caso di specie la responsabilità in solido del datore di lavoro e dell’autore dei fatti delittuosi ai sensi dell’art. 2049 c.c. ricorrendo una situazione di occasionalità necessaria tra la posizione lavorativa attribuita all’autore dei fatti delittuosi ed il compimento dei medesimi.
- In ipotesi di atti di libidine violenti e di violenza carnale commessi in danno di lavoratrice subordinata, il datore di lavoro e l’autore dei fatti delittuosi sono solidalmente responsabili per il risarcimento del danno morale, del danno biologico nelle due componenti temporanea e permanente, nonché del danno esistenziale; per la determinazione della misura di tali voci il Giudice può procedere in via equitativa. (Trib. Milano 9/5/2003, Est. Ianniello, in D&L 2003, 649, con nota di Franco Bernini, “Le voci di danno alla persona e la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro”)
- L’onere di provare la ricorrenza di molestie sessuali da parte del superiore gerarchico grava sulla lavoratrice che si assume molestata; qualora la prova sia raggiunta, alla lavoratrice spetta il risarcimento del danno biologico, se verificatosi, ex art. 2087 c.c.; qualora la prova non sia stata fornita e la lavoratrice abbia accusato la società datrice di lavoro, con espressioni idonee a lederne il prestigio, di non averla tutelata, sussiste un giustificato motivo di licenziamento, per essere venuto meno il rapporto fiduciario intercorrente tra le parti (Cass. 8/1/00, n. 143, pres. Trezza, est. Prestipino, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 92, con nota di Conte, L’onere della prova in tema di molestie sessuali e le conseguenze del suo mancato assolvimento)
- Nell’ambito dell’illecito aquiliano, l’autore delle molestie sessuali è tenuto a risarcire il danno biologico che comprende anche il danno imprevedibile consistente nelle ulteriori conseguenze che l’evento dannoso ha causato al danneggiato la cui preesistente struttura di personalità era caratterizzata da labilità e incapacità a elaborare situazioni stressanti (Trib. Milano 21/4/98, pres. Ruiz, est. de Angelis, in D&L 1998, 957)
- La responsabilità solidale del datore di lavoro con il dipendente che abbia effettuato molestie sessuali ai danni di altro dipendente ha natura contrattuale che deriva dalla violazione dell’art. 2087 c.c. e che limita l’obbligo risarcitorio del datore stesso al solo danno biologico subito dal soggetto molestato (Trib. Milano 21/4/98, pres. Ruiz, est. de Angelis, in D&L 1998, 957)
- Qualora dal comportamento posto in essere da un incaricato del datore di lavoro che, nell’esercizio delle proprie mansioni, abbia tenuto per petulanza, nei confronti di una dipendente, reiterati e intenzionali comportamenti sessualmente molesti, in luogo di lavoro aperto al pubblico, sia derivata causalmente alla dipendente una temporanea patologia psichica, consistita in disturbi dell’adattamento, sia il preposto che il datore di lavoro (che non abbia adottato alcun provvedimento a tutela dell’integrità psicofisica e morale della dipendente) sono tenuti al risarcimento, tanto del danno biologico temporaneo quanto del danno morale, in via fra loro solidale anche in relazione al danno morale, per il combinato disposto degli artt. 2049 c.c. e 185 c.p. (Pret. Milano 31/1/97, est. Curcio, in D&L 1997, 619)
Dequalificazione
- In tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Inoltre mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione e di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere a una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c. (Cass. 17/9/2010 n. 19785, Pres. Vidiri Rel. Stile, in Lav. nella giur. 2010, 1135)
- In caso di dequalificazione del lavoratore, che lamenti un danno biologico conseguente alla modifica delle mansioni, il rapporto eziologico tra il provvedimento di modifica delle mansioni e la malattia sussiste anche quando il provvedimento costituisca solo una concausa della malattia e abbia operato su di un substrato patologico preesistente. (Cass. 26/1/2010 n. 1575, Pres. De Luca Est. Curzio, in Orient. giur. lav. 2010, 77)
- La violazione del diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; peraltro, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessan deve essere non di meno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa al’esercizio dei poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore. (Corte app. Roma 1/10/2007, Pres. Marasco Rel. Poscia, in Lav. nella giur. 2008, 322)
- La mancata ottemperanza del datore di lavoro all’ordine di reintegrazione susseguente a licenziamento illegittimo mette il dipendente nell’impossibilità di esercitare qualsiasi tipo di capacità professionale, situazione che rientra nel più ampio concetto di demansionamento, disciplinato dall’art. 2103 c.c.; in applicazione di tale norma va dunque risarcito al lavoratore, oltre alla perdita delle retribuzioni fino alla reintegrazione come previsto dall’art. 18 c. 4° SL l’ulteriore danno (quale lucro cessante) derivante dalla forzata inattività e consistente nella perdita o mancata acquisizione della professionalità con conseguente minore capacità di guadagno. La natura delle mansioni specifiche precedentemente esercitate e la durata del periodo di forzata inattività possono far ritenere raggiunta la prova logica per presunzioni in ordine alla sussistenza del danno lamentato. (Corte app. Brescia 27/6/2007, Pres. Nora Est. Terzi, in D&L 2007, con nota di Davide Bonsignorio, “Va risarcito il danno da demansionamento derivante da mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione ex art. 18 SL”, 1119)
- La dequalificazione consistita nell’allontanamento del lavoratore da mansioni che per contratto richiedono esperienza di lavoro determina un danno da perdita di esperienza professionale, incidente sul patrimonio seppure non esattamente determinabile nel suo ammontare. (Cass. 4/4/2007 n. 8475, Pres. Senese, in D&L 2007, 449)
- La totale esclusione del redattore ordinario dalle mansioni proprie della qualifica, con un accertato periodo di inattività di sei mesi, determina una palese violazione dell’art. 2103 c.c. a cui consegue, tralaltro, il diritto al risarcimento del danno professionale che può essere provato in giudizio mediante presunzioni semplici. Sussiste tuttavia a carico del lavoratore un onere di allegazione degli elementi (prolungata inoperosità – natura dell’attività svolta – risvolti di visibilità e di carattere professionale che comporta) dai quali si può risalire in via deduttiva al fatto ignoto e cioè alla esistenza del danno. (Trib. Milano 9/3/2007, Dott.ssa Sala, in Lav. nella giur. 2007, 1261)
- Il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità subito a causa della lesione del proprio diritto a eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere a una valutazione equitativa. (Trib. Milano 28/1/2007, Est. Sala, in D&L 2007, con nota di Emanuela Maggiore, “La dequalificazione del giornalista: ancora sul risarcimento del danno professionale”, 457)
- Commettono il reato di cui all’art. 323 c.p. il sindaco e il segretario comunale che, rimuovendo una dipendente dal servizio di addetta al protocollo generale e assegnandola ad altro meno qualificante incarico, abbiano a essa arrecato un danno ingiusto, consistito sia in un danno alla salute a causa del conseguente stato di disagio e frustrazione, sia in un danno economico dovuto a una valutazione della sua produttività attestatasi a un livello inferiore rispetto a quello che avrebbe potuto conseguire in caso di mantenimento del precedente incarico. (Cass. pen. sez. VI n. 18275, Pres. Sansone Est. Conti, in Dir. e prat. lav. 2007, 1728)
- In tema di mansioni del lavoratore ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 c.c. sul divieto di demansionamento, non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente a integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del titolo. (Trib. Ravenna 9/3/2007, Est. Riverso, in Lav. nella giur. 2007, 631)
- In tema di demansionamento, il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non può prescindere da una specifica allegazione e prova in ordine alla natura e alle caratteristiche del pregiudizio che ne deriva. L’adibizione a un’attività meno qualificata fa sorgere la presunzione di una diminuzione dell’attitudine professionale e del valore di mercato del lavoratore. Nella determinazione del risarcimento del danno da demansionamento può incidere il concorso di colpa del lavoratore, il quale abbia ritardato a proporre l’azione giudiziaria e non abbia invitato il datore di lavoro all’eliminazione della situazione illegittima. (Cass. 20/10/2006 n. 22551, Pres. e Est. Mileo, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Vincenzo Luciani, “Risarcimento del danno da dequalificazione professionale: accertamento presuntivo e rilevanza della colpa del lavoratore nella liquidazione del danno”, 349)
- Il diritto al risarcimento del danno da demansionamento si estingue per prescrizione nel termine ordinario decennale, trattandosi di responsabilità di natura contrattuale. (Cass. 5/10/2006 n. 21406, Pres. Ravagnani Est. Di Cerbo, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Immacolata Linciano, “Accertamento e quantificazione del danno da dequalificazione professionale: un nuovo intervento della Cassazione”, 442)
- L’ampiezza del dislivello fra le mansioni precedentemente svolte dal lavoratore e quelle inferiori successivamente assegnategli è un elemento di presunzione utilizzabile nell’accertamento del danno da dequalificazione; il risarcimento di tale danno può essere determinato equitativamente dal giudice di merito in misura pari a una frazione della retribuzione relativa al periodo in cui si è verificata la dequalificazione. (Cass. 5/10/2006 n. 21406, Pres. Ravagnani Est. Di Cerbo, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Immacolata Linciano, “Accertamento e quantificazione del danno da dequalificazione professionale: un nuovo intervento della Cassazione”, 442)
- In tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale che ne deriva non può prescindere da una specifica allegazione e offerta di prova, nel ricorso introduttivo del giudizio, circa la natura e le caratteristiche del pregiudizio medesimo. (Cass. 15/9/2006 n. 19965, Pres. Sciarelli Est. Celentano, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Valentina Pasquarella, “Incompatibilità degli incarichi di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione”, 676)
- In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto. (Cass. 26/6/2006 n. 14729, Pres. Sciarelli Rel. Celentano, in Lav. nella giur. 2007, 84 e in Dir. e prat. lav. 2007, 492)
- In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell’art. 2103 c.c. il giudice del merito può desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone l’entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla durata della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto. (Cass. 21/6/2006 n. 14302, Pres. Senese Est. Di Cerbo, in D&L 2006, 807)
- In caso di demansionamento professionale il giudice può addivenire a un giudizio positivo in ordine alla sussistenza in concreto di un danno alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro e alla professionalità in base alla valutazione degli elementi emersi nel corso dell’istruttoria (caratteristiche e durata del demansionamento, mancata utilizzazione del patrimonio professionale acquisito e conseguente impoverimento della capacità pofessionale, perdita di chance in un momento in cui l’ufficio si stava ampliando). Il riconosciuto danno di natura professionale deve essere liquidato in via equitativa utilizzando quale parametro di riferimento la retribuzione (nella fattispecie il danno è stato liquidato in misura corrispondente a una quota della retribuzione mensile lorda). (Trib. Varese 31/5/2006, est. Fumagalli, in D&L 2006)
- In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale -, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo; mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psicofisica sica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo tralatro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro del’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l’avvenuta lesione dell’interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto), si possa, attraverso un pridente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. (Cass. 24/3/2006 n. 6572, in Giust. Civ. 2006, 1443, e in Dir. e prat. lav. 2006, 2680)
Quantificazione del danno
- Sussiste concorso di colpa del danneggiato tale da ridurre proporzionalmente l’ammontare del danno risarcibile, qualora questi incorra in violazione dell’art. 6 DPR 27/4/55 n. 547 omettendo di segnalare immediatamente al datore di lavoro le deficienze dei dispositivi di sicurezza e protezione e le altre eventuali condizioni di pericolo di cui venisse a conoscenza, nonché di adoperarsi direttamente, in caso di urgenza e nell’ambito delle proprie competenze e possibilità, per eliminare o ridurre dette deficienze e pericoli (nella specie trattatasi di cameriere investito da fiamme sprigionate da un piatto in cui stava servendo spaghetti flambès). (Trib. Firenze 20/10/2005, Est. Bazzoffi, in D&L 2006, con n. Yara Serafini, “Concorso di colpa del lavoratore nella causazione dell’evento-infortunio e relativa incidenza sulla liquidazione del danno”, 511)
- L’indennizzo erogato dall’Inail ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 23/2/2000 n. 38 non ripara integralmente il danno alla salute subito dal lavoratore a causa della malattia professionale o dell’infortunio sul lavoro; va conseguentemente riconosciuta la risarcibilità del danno biologico differenziale. (Corte d’appello Torino 29/11/2004, Pres. Peyron Est. Buzano, in D&L 2005, con nota di Enrico Barraco, “Il danno biologico differenziale è risarcibile anche dopo il D.Lgs. 38/2000: una soluzione conforme alla costituzione”, 251)
- In caso di morte del lavoratore per causa indipendente dalla malattia professionale, la determinazione del danno biologico da liquidare agli eredi iure successionis deve tener conto, oltre che delle due variabili dell’età e dell’entità della riduzione permanente della capacità psicofisica, anche della circostanza che tale riduzione deve essere rapportata non al dato astratto della vita media di un uomo, ma al dato concreto costituito dal giorno della morte del lavoratore. (Trib. Milano 21/7/2003, Est. Atanasio, in D&L 2003, 971, con nota di Sara Huge, “Trasferimento di ramo d’azienda e responsabilità del cessionario anche per il risarcimento del danno alla persona”)
- Assodata la sussistenza di una responsabilità datoriale per infortunio (avvenuto in epoca antecedente alla disciplina del danno biologico a carico INAIL) ed il nesso di causalità tra l’evento invalidante e l’attività lavorativa, questo giudice ritiene che per il risarcimento del danno biologico richiesto e gravante sulla società possano essere utilizzate – quantunque riferibili all’indennizzo di competenza dell’INAIL – le tabelle approvate con decreto ministeriale 12/7/00 (in applicazione dell’art. 13, d.l. 23/2/00, n. 38) in quanto per la loro valenza generale e per la loro applicabilità sull’intero territorio nazionale possono essere considerate, in attesa del definitivo intervento del legislatore, il parametro attualmente più attendibile per la valutazione equitativa del danno biologico (Trib. Salerno 5/2/01, pres. e est. Di Benedetto, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 406)
- Il datore di lavoro, responsabile per l’infortunio, deve risarcire il lavoratore infortunato la metà del danno biologico (c.d. puro), poiché la restante metà (c.d. danno biologico collegato alla riduzione della capacità lavorativa generica) è coperta dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali (Pret. Trento 12/11/99, est Flaim, in Lavoro giur. 2000, pag. 962, con nota di Ogriseg, Condotta imprudente del lavoratore e limiti del danno biologico risarcibile)
- L’eventuale indennizzo corrisposto dall’Inail al lavoratore infortunato, essendo volto a ristorare il solo pregiudizio alla capacità lavorativa generica, è totalmente estraneo al risarcimento del danno biologico e del danno morale che, pertanto, vanno posti integralmente a carico del datore di lavoro (nella fattispecie, è stato anche ritenuto che, ai fini della liquidazione del danno morale, è consentito al giudice civile l’accertamento del fatto reato, indipendentemente dal previo accertamento in sede penale) (Pret. Busto Arsizio, sez. Gallarate, 10/2/99, est. Guadagnino, in D&L 1999, 641)
- In ipotesi di infortunio sul lavoro ascrivibile a responsabilità datoriale, compete al lavoratore infortunato il risarcimento del danno morale, il risarcimento del danno biologico inerente all’invalidità temporanea, nonché il risarcimento del danno biologico inerente all’invalidità permanente, quest’ultimo a ridursi equitativamente di un terzo, in funzione dell’indennizzo Inail percepito, che già copre quella parte del danno biologico che si ricollega alla perdita della capacità lavorativa generica (Pret. Milano 1/2/97, est. Cincotti, in D&L 1997, 626)
- Posto che, nell’attuale sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, le indennità a carico dell’Inail riguardano il solo danno connesso alla perdita di capacità lavorativa, e non coprono dunque l’intero ambito del danno biologico, l’azione di regresso dell’Istituto sulle somme globalmente corrisposte dal responsabile all’infortunato, a titolo di risarcimento del danno biologico, deve essere limitata a quella sola parte del danno biologico risarcito, che si ricollega alla diminuzione della capacità lavorativa generica, equitativamente stimabile, con riferimento alla fattispecie in esame, nei tre quinti del totale (Trib. Pordenone 3/5/96, pres. ed est. Appierto, in D&L 1997, 365)
- In caso di infortunio sul lavoro ascrivibile a responsabilità datoriale, compete al lavoratore infortunato il risarcimento del danno morale, nonché il risarcimento del danno biologico, da ridursi equitativamente del 50% in funzione alla rendita Inail percepita, che copre quella parte del danno biologico che si ricollega alla diminuzione della capacità lavorativa generica (Pret. Milano 9/3/96, est. Sala, in D&L 1996, 737, nota TAGLIAGAMBE)
- Posto che la rendita Inail non indennizza il danno biologico nella sua globalità, ma solo per quella parte che attiene alla menomazione della capacità lavorativa generica, va dichiarata la risarcibilità integrale del danno biologico quando, come nella fattispecie, la malattia sia insorta dopo il pensionamento del lavoratore, sì da potersi escludere qualsivoglia incidenza della lesione all’attitudine al lavoro sulla produzione del danno biologico (Pret. Torino 10/11/95, est. Fierro, in D&L 1996, 727, nota TAGLIAGAMBE, Danno biologico e danno morale per esposizione all’amianto)
Diritti degli eredi
- In caso di decesso del lavoratore il diritto al risarcimento del danno biologico è azionabile dagli eredi ai quali deve essere risarcito anche il danno morale, scaturendo l’evento lesivo dalla violazione della normativa antinfortunistica e integrando, tale comportamento gli estremi di un reato. (Trib. Milano 9/1/2006, Est. Bianchini, in D&L 2006, 515)
- Qualora l’infortunato muoia immediatamente dopo l’incidente o senza che tra l’evento e la morte segua un apprezzabile lasso di tempo il danno biologico, così come quello morale, eventualmente spettanti alla vittima, non potranno trasmettersi ai suoi eredi. E’ ammesso il diritto dei congiunti al danno morale iure proprio. (Corte d’appello Napoli, 27/9/2002, Est. Petraccone, in Lav. nella giur. 2003, 286)
- Se un soggetto, passando in breve lasso di tempo dalla vita alla morte (nella specie, lavoratore entrato in coma a causa di incidente sul lavoro e deceduto due giorni dopo), non è vissuto in condizioni di salute compromessa e non ha subito limitazioni concrete al godimento della vita nelle sue varie manifestazioni, non matura alcun diritto al risarcimento che sia trasmissibile agli eredi (Trib. Milano 24/6/00, pres. Gargiulo, est. Ruiz, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 600)
- Nel caso in cui dalla condotta datoriale illecita per violazione dell’art. 2087 c.c. sia derivata dapprima una lesione dell’integrità psico – fisica e, dopo una fase intermedia di malattia, la morte del lavoratore, gli eredi di quest’ultimo possono far valere nei confronti del datore di lavoro, iure hereditatis, il diritto al risarcimento del danno biologico e del danno morale, subiti dal lavoratore nel periodo che va dal momento della lesione a quello della morte (Pret. Torino 10/11/95, est. Fierro, in D&L 1996, 727, nota TAGLIAGAMBE, Danno biologico e danno morale per esposizione all’amianto; in senso conforme v. anche Pret. Milano 9/2/96, est. Martello, in D&L 1996, 734)
- In ipotesi di infortunio mortale cagionato da colpa datoriale, compete agli eredi del lavoratore (oltre al risarcimento del danno morale da liquidarsi equitativamente, in misura che tenga conto delle sofferenze patite dalla persona offesa, nonché della gravità dell’illecito e di tutti gli altri elementi della fattispecie concreta) il risarcimento del danno biologico iure proprio, ove questi provino di aver subito, a cagione del decesso del congiunto, una sensibile e non transeunte lesione della propria integrità fisio – psichica. Non compete invece agli eredi il risarcimento del danno biologico iure hereditario, posto che quest’ultimo, concretandosi nel danno alla salute nei suoi riflessi sulla vita di relazione, presuppone necessariamente la permanenza in vita della persona lesa, dopo l’infortunio, almeno per un periodo di tempo apprezzabile, durante il quale le predette conseguenze dannose abbiano avuto modo di prodursi (Trib. Torino 31/3/95, pres. Gamba, est. Mancuso, in D&L 1995, 1003)
Questioni di procedura
- Anche dopo la novella di cui al d.lgs. n. 38/2000, il lavoratore ha diritto, ricorrendo i presupposti dell’art. 10, t.u. 1124/1965, ad agire contro il datore di lavoro per il ristoro del danno biologico c.d. differenziale, poiché l’indennità Inail, in considerazione della sua natura assistenziale, non copre esattamente il danno alla salute. Ogni diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali di tutela del lavoro (artt. 1 e 35 Cost.), nonché con il principio di uguaglianza. (Trib. Pisa 3/5/2011 n. 308, Giud. Tarquini, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di A. Salerno, “Sulla portata della clausola di esonero della responsabilità civile per infortuni sul lavoro dopo la novella del d.lgs. n. 38/2000”, 507)
- Il datore di lavoro è esonerato dalla responsabilità per il danno biologico patito dal lavoratore, ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. 38/2000, a condizione che il danno sia stato denunciato all’Inail in epoca successiva al 9 agosto 200, data di efficacia delle norme che hanno esteso la copertura assicurativa dell’Inail al danno biologico. (Nel caso di specie la S.C. ha parzialmente riformato la sentenza del giudice di appello nella parte in cui aveva escluso l’esonero datoriale dalla responsabilità civile per il danno biologico conseguente alla malattia professionale contratta dal lavoratore, avendo ritenuto inapplicabile ratione temporis la disciplina introdotta dall’art. 13 del D.Lga. n. 38 del 2000, ma nel contempo ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso avanzato dalla società datrice di lavoro in mancanza di prove circa il momento esatto di denunzia della malattia all’Istituto assicuratore). (Cass. 5/5/2005 n. 9353, Pres. Ciciretti Rel. Vigolo, in Dir. e prat. lav. 2005, 2220)
- La domanda di risarcimento del danno proposta dal dipendente nei confronti del datore di lavoro pubblico appartiene alla giurisdizione del giudice del rapporto di lavoro (e pertanto del giudice amministrativo per le questioni inerenti il periodo di rapporto antecedente il 30/6/98) qualora venga azionata una responsabilità contrattuale ed alla giurisdizione del giudice ordinario qualora venga azionata una responsabilità extracontrattuale. Si deve ritenere proposta la seconda ogniqualvolta non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell’azione contrattuale. (Cass. 4/5/2004 n. 8438, Pres. Giustiniani Est. Miani Canevari, in D&L 2004, 339)
- Sussiste la competenza del Giudice del lavoro nel giudizio promosso nei confronti del responsabile del personale per danni conseguenti al risarcimento del danno biologico e alla vita di relazione, del danno all’immagine e al risarcimento dei danni morali conseguenti al demansionamento, alla richiesta di dimissioni, minacciando anche una denuncia per furto e per aver divulgato in azienda il contenuto delle contestazioni disciplinari e le motivazioni del licenziamento, con comportamento integrante ingiuria e diffamazione (Cass. sez. lav. 8 settembre 1999 n. 9539, pres. D’Angelo, est. D’Agostino, in D&L 2000, 250, n. Muggia. Sulla competenza del giudice del lavoro nelle ipotesi solamente connesse al rapporto lavorativo)