Questa voce è stata aggiornata da Arianna Castelli e aggiornata da Kendra Barbotta e Tommaso Pizzo
Scheda sintetica
Le dimissioni sono l’atto con cui un lavoratore dipendente recede unilateralmente dal contratto che lo vincola al datore di lavoro.
Secondo la legge, le dimissioni si configurano come una facoltà del lavoratore. Questa facoltà può essere esercitata senza alcun limite, con il solo rispetto dell’obbligo di dare il preavviso previsto dai contratti collettivi. In caso di grave inadempimento da parte del datore di lavoro, tale da non consentire la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro, l’obbligo di preavviso viene meno e il lavoratore ha diritto di recedere immediatamente (c.d. dimissioni per giusta causa).
Le dimissioni devono essere frutto di una decisione volontaria del lavoratore. Sono quindi da considerarsi illegittime sia le dimissioni richieste contestualmente all’atto dell’assunzione (cd. dimissioni in bianco), sia le dimissioni rassegnate a seguito di minacce o raggiri, ovvero determinate da errore o incapacità di intendere e di volere. In tutti questi casi, le dimissioni sono annullabili ricorrendo all’autorità giudiziaria.
Per garantire la genuinità della decisione del lavoratore, la legge subordina l’efficacia delle dimissioni al rispetto di una specifica procedura, modificata da ultimo nell’ambito delle riforme del c.d. Jobs Act.
In particolare, diversamente dalla previgente disciplina, introdotta dalla riforma del 2012 – che lasciava al lavoratore piena libertà in merito alle modalità con le quali comunicare al datore di lavoro le proprie dimissioni, ma subordinava l’efficacia dell’atto risolutivo al rispetto di una successiva procedura di convalida –, la nuova normativa, entrata in vigore il 12 marzo 2016, stabilisce che le dimissioni possono essere rassegnate esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero e delle politiche sociali attraverso il sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro competente. Le dimissioni rese con qualsiasi altra modalità sono inefficaci.
Gli unici soggetti ai quali non si applica la nuova procedura telematica sono:
- i lavoratori e le lavoratrici che rassegnano le dimissioni nelle sedi c.d. protette: Direzione territoriale del lavoro, sindacato o Commissione di certificazione;
- le lavoratrici nel periodo di gravidanza, nonché le lavoratrici e i lavoratori durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento; per tali soggetti, continua ad applicarsi l’art. 55 del Testo Unico maternità, che al quarto comma prevede che le dimissioni devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio (a detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto);
- i lavoratori e le lavoratrici domestiche.
Normativa
- Codice civile
- Contratto collettivo di lavoro
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Decreto Legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito in Legge 9 agosto 2013, n. 99
- Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 151, recante disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183;
- Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 15 dicembre 2015, recante disposizioni sulle modalità di comunicazione delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro
Dimissioni rassegnate dalla madre lavoratrice e dal padre lavoratore durante il periodo cd. protetto
Ai genitori lavoratori è riconosciuta una particolare tutela nel caso in cui rassegnino proprie dimissioni volontarie dal lavoro durante alcuni periodi di tempo considerati “protetti”.
Tale regime di tutela è volto ad evitare che questi soggetti decidano di interrompere il proprio rapporto di lavoro a causa di pressioni operate dal datore di lavoro in seguito all’acquisizione del nuovo status genitoriale.
Al fine di assicurarne le genuinità, pertanto, è previsto che le dimissioni siano efficaci solo in seguito alla convalida da parte del servizio ispettivo del Ministero del Lavoro istituito presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro competente in base alla residenza della lavoratrice o del lavoratore e che, solo successivamente a detto adempimento, il rapporto di lavoro possa considerarsi definitivamente concluso.
In particolare, il legislatore ha stabilito che sono soggette all’obbligo di convalida le dimissioni rassegnate:
- dalla lavoratrice madre durante il periodo di gravidanza;
- dalla lavoratrice e dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino (ovvero nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento o, in caso di adozione internazionale, fino ai tre anni decorrenti dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore).
Le dimissioni presentate dalla lavoratrice madre e dal lavoratore padre durante i periodi sopra menzionati devono essere convalidate a pena di nullità. Nel caso in cui il servizio ispettivo dovesse verificare la non genuina volontà di dimettersi, non procederà con la convalida ed il rapporto di lavoro non potrà essere risolto.
La lavoratrice ed il lavoratore che intendono rassegnare le dimissioni nel periodo cd. protetto devono preliminarmente notificare al datore di lavoro, a mezzo lettera consegnata a mano o inviata tramite raccomandata a/r, la comunicazione con la quale manifestano la volontà di rassegnare le dimissioni durante il periodo protetto, precisando contestualmente la data relativa all’ultimo giorno di lavoro.
Successivamente la lavoratrice o il lavoratore si dovranno recare presso la sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro muniti di copia della lettera di dimissioni presentata al datore controfirmata per ricevuta da quest’ultimo, o corredata dalla copia della ricevuta di ritorno in caso di invio a mezzo raccomandata.
Ai sensi del DPCM 22 dicembre 2010, n. 275, il servizio ispettivo deve rilasciare, entro 45 giorni dalla richiesta fatta dal genitore, il provvedimento di convalida che viene inviato al/alla dipendente ed al datore di lavoro, consentendo quindi a quest’ultimo di espletare le formalità relative alla cessazione del rapporto di lavoro.
Il rapporto di lavoro si risolverà con effetto dalla data indicata nella iniziale comunicazione notificata al datore di lavoro e dalla medesima cesserà anche il diritto alla retribuzione.
La procedura durante la pandemia ed il periodo dell’emergenza sanitaria
In conseguenza dello stato di emergenza sanitaria dovuto all’epidemia causata dal COVID-19, le sedi territoriali dell’Ispettorato del Lavoro hanno modificato le modalità della procedura di convalida delle dimissioni.
Rimane fermo l’obbligo di inviare al datore di lavoro la comunicazione di voler procedere con le dimissioni, mentre non è temporaneamente possibile recarsi presso le sedi dell’ITL. Conseguentemente la lavoratrice ed il lavoratore durante il periodo protetto sono tenuti a compilare un apposito modulo disponibile online sul portale dell’Ispettorato. Successivamente dovranno procedere all’invio tramite e-mail ordinaria al servizio ispettivo competente.
Rimane invariato il termine di 45 giorni entro i quali l’Ispettorato Territoriale del Lavoro dovrà provvedere ad inviare la convalida alla lavoratrice o lavoratore ed al datore di lavoro.
Dimissioni rassegnate in caso di matrimonio
Il legislatore ha previsto che anche le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice nel lasso di tempo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni del matrimonio e l’anno successivo alla celebrazione delle nozze debbano essere effettuate tramite la procedura telematica prevista dall’art.26 D.Lgs. 151/2015.
La tutela del legislatore (divieto di licenziamento in caso di matrimonio) è rivolta esclusivamente alla lavoratrice, infatti il lavoratore – licenziato in costanza di matrimonio – non può impugnare il licenziamento invocando il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna. In questi casi, infatti, il divieto di licenziamento per matrimonio contenuto nell’art. 35 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 non è applicabile (v. sentenza 28926 del 12 novembre 2018 Corte Cass., commentata sulla newsletter n. 20 del 2018)
Per estensione la tutela per le lavoratrici è prevista anche in caso di dimissioni rassegnate tra la data delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione del matrimonio.
Tuttavia, anche in questo caso, al fine di verificare che le stesse non siano state presentate in seguito a pressioni o coartazioni da parte del datore di lavoro, è prevista un’apposita procedura di convalida.
In particolare, la lavoratrice deve provvedere a confermare le proprie dimissioni preso la sede dell’ITL territorialmente competente entro un mese dalla comunicazione al datore di lavoro.
Tale conferma può avvenire con diverse modalità. La lavoratrice, dopo aver comunicato la propria intenzione di interrompere il rapporto di lavoro al datore, conferma personalmente le dimissioni presso gli uffici dell’ITL. Laddove, invece, la lavoratrice non intenda recarsi fisicamente presso gli uffici competenti, può, in un primo momento, manifestare la propria volontà confermativa scrivendo ai servizi ispettivi del proprio territorio. In questo caso, verrà convocata solo successivamente presso l’ufficio provinciale o la sezione locale al fine di rendere una dichiarazione di conferma. Nel caso in cui la volontà espressa tramite lettera non sia conforme a quella manifestata oralmente in presenza del funzionario, prevale la dichiarazione resa personalmente nella sede dell’ITL. Qualora successivamente alla convocazione, la lavoratrice non si presenti, il funzionario è tenuto a recarsi personalmente presso il suo domicilio al fine di raccogliere la dichiarazione di conferma delle dimissioni.
La procedura può essere attivata anche dal datore di lavoro che, una volta ricevute le dimissioni da parte della dipendente, provvede ad inviare la relativa comunicazione all’ITL territorialmente competente affinché quest’ultima convochi la lavoratrice per confermare la volontà di interrompere il rapporto di lavoro.
Anche in questo caso, laddove la lavoratrice invii la propria dichiarazione di conferma tramite lettera, la ITL è tenuta a convocarla personalmente presso i propri uffici.
L’interruzione del rapporto di lavoro è subordinata in ogni caso alla conferma personale della lavoratrice, dunque, ove ciò non avvenga la dipendente può chiedere in ogni momento di essere riammessa in servizio, poiché in questo caso le dimissioni sono inefficaci.
Se la lavoratrice viene invitata a riprendere servizio, ma dichiara entro dieci giorni dal ricevimento dell’invito di voler interrompere il rapporto, ha diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.
La comunicazione al competente ITL non deve risolversi in un atto meramente formale, ma comporta un’approfondita indagine sulla reale volontà della lavoratrice interessata, volta ad evitare che le dimissioni non mascherino un licenziamento per causa di matrimonio.
A partire dal 5 giugno 2016, in seguito all’entrata in vigore della legge n. 76/2016, le disposizioni in questione dovranno essere applicate anche alla lavoratrice parte di un’unione civile.
La procedura di convalida delle dimissioni in vigore fino all’11 marzo 2016
Fino all’11 marzo 2016, la legge subordinava l’efficacia delle dimissioni a una procedura – introdotta dalla riforma del mercato del lavoro del 2012 – finalizzata a verificare l’effettiva sussistenza dell’intenzione del lavoratore di dimettersi o, comunque, del suo consenso alla risoluzione del rapporto.
Tale procedura distingueva due diverse ipotesi.
Se si trattava di lavoratrice in gravidanza o di lavoratrice/lavoratore con un figlio minore di tre anni, le dimissioni o la risoluzione consensuale dovevano essere convalidate dall’Ufficio ispettivo del Ministero del lavoro. L’atto risolutivo produceva, quindi, i suoi effetti solo una volta intervenuta tale convalida.
In tutti gli altri casi, invece, affinché le dimissioni o la risoluzione del rapporto potessero considerarsi efficaci, era alternativamente necessario che:
- l’atto venisse convalidato davanti alla Direzione provinciale del lavoro o al Centro per l’impiego territorialmente competenti;
- il lavoratore sottoscrivesse una dichiarazione da apporre in calce alla dichiarazione di cessazione del rapporto.
Se tali operazioni non erano compiute contestualmente all’atto risolutivo, il datore di lavoro poteva invitare il lavoratore davanti alla DTL o a al Centro per l’impiego per far convalidare lo stesso o per far sottoscrivere la dichiarazione. In assenza di tale invito, le dimissioni dovevano considerarsi prive di effetto.
A seguito della ricezione dell’invito, l’efficacia delle dimissioni era ancora sospesa per sette giorni, durante i quali il lavoratore poteva scegliere se:
- aderire all’invito (e quindi alla risoluzione del rapporto);
- non aderire all’invito: in questo caso, il rapporto si intendeva comunque risolto;
- revocare le dimissioni o la risoluzione consensuale: in tal caso, il rapporto riprendeva, ma il lavoratore non maturava il diritto alla retribuzione nel periodo in cui non aveva prestato attività lavorativa.
Il legislatore, con il D.L. 76/2013 (c.d. Pacchetto Lavoro), aveva infine esteso la suddetta procedura di convalida delle risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro e delle dimissioni anche:
- alle lavoratrici e ai lavoratori impegnati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, di cui all’art. 61, co. 1, del d.lgs. 276/2003;
- alle lavoratrici e ai lavoratori impegnati con contratti di associazione in partecipazione di cui all’art. 2549, co. 2, c.c.
L’annullamento delle dimissioni
Se il lavoratore ha rassegnato le dimissioni non per sua libera scelta, ma a seguito di minaccia, ovvero per errore o perché versava in stato di incapacità di intendere e di volere, le dimissioni sono invalide e pertanto annullabili.
A proposito delle dimissioni rese in stato di incapacità di intendere e di volere, la giurisprudenza ha precisato che, in tale ipotesi, l’annullamento presuppone non solo la sussistenza di un quadro psichico connotato da aspetti patologici, ma anche l’esistenza di un collegamento causale tra l’alterazione mentale e le ragioni soggettive che hanno spinto il lavoratore al recesso (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1070).
Nel caso di lavoratore minorenne (le cui dimissioni sono astrattamente valide in quanto il Codice civile attribuisce al minore la capacità di compiere atti giuridici nell’ambito del rapporto di lavoro), le dimissioni possono essere annullate qualora si dimostri l’incapacità di fatto di intendere e di volere del lavoratore al momento del recesso, nonché il grave pregiudizio derivante al minore dall’atto compiuto.
Quanto, invece, all’ipotesi delle dimissioni rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, la giurisprudenza ha recentemente affermato che esse sono annullabili per violenza morale solo qualora il lavoratore sia in grado dimostrare in giudizio l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente (Cass. 25 maggio 2012, n. 8298).
Le dimissioni per giusta causa
Il lavoratore può rassegnare le dimissioni in tronco (cioè senza preavviso) quando si sia verificata una causa che non consenta la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto.
La giurisprudenza ha riconosciuto le ipotesi di ”giusta causa” facendo riferimento a gravi inadempimenti del datore nell’ambito del rapporto di lavoro (es. omessa corresponsione della retribuzione, omesso versamento dei contributi previdenziali, molestie sessuali, dequalificazione professionale).
In tal caso, proprio perché il recesso è stato determinato da un fatto colpevole del datore di lavoro, il lavoratore che receda per giusta causa conserva comunque il diritto a percepire l’indennità sostitutiva del mancato preavviso, nel caso si versi in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Tale indennità spetta al lavoratore a titolo di indennizzo per la mancata percezione delle retribuzioni per il periodo necessario al reperimento di una nuova occupazione, tenuto conto che l’interruzione immediata del rapporto è, in realtà, imputabile al datore di lavoro.
Nel caso in cui il datore di lavoro neghi l’esistenza di una giusta causa alla base del recesso del lavoratore, e si rifiuti così di versare l’indennità sostitutiva del preavviso, il lavoratore potrà agire in giudizio per chiedere l’accertamento della giusta causa delle dimissioni, e vedersi riconosciuto il diritto a percepire tale indennità, oltre che per la restituzione dell’importo eventualmente trattenuto a titolo di mancato preavviso.
Dimissioni incentivate dal datore di lavoro
Benché di norma il datore non possa fare pressioni affinché il lavoratore rassegni le proprie dimissioni, è possibile che possa offrire una contropartita economica al fine di incentivare il lavoratore a interrompere il rapporto di lavoro. Anche in questo caso, tuttavia, è necessario che il lavoratore sia consapevole di tutte le conseguenze di un’eventuale interruzione del rapporto lavorativo: la presenza di un incentivo economico deve essere valutata liberamente dal dipendente, che dovrà, in ogni caso essere libero di rifiutare l’offerta.
In questo caso, le dimissioni del lavoratore sono comunque espressione della volontà del dipendente di interrompere il rapporto di lavoro entro il termine fissato dal datore. Per questo motivo, le dimissioni agevolate non possono essere ritenute né illegittime né essere equiparati a un licenziamento per riduzione di personale.
Per tale motivo, il lavoratore può legittimamente percepire l’indennità economica promessa dal datore, ma non ha diritto a percepire il trattamento di disoccupazione. In particolare, l’indennità economica viene riconosciuta solo in seguito all’accettazione scritta della proposta formulata dal datore di lavoro. In tale atto di adesione, generalmente, il lavoratore rinuncia anche a impugnare l’atto interruttivo del rapporto e a qualsiasi pretesa connessa. Solo in seguito alla sottoscrizione di tale documento il datore di lavoro provvede a compilare una lettera di accettazione delle dimissioni del lavoratore.
Le somme erogate dal datore di lavoro al fine di incentivare il dipendente a rassegnare le proprie dimissioni sono esenti da prelievo contributivo, purché tale finalità incentivante si desuma chiaramente dal comportamento dalle parti e non da una mera coincidenza temporale tra l’erogazione della somma e la cessazione del rapporto.
Come fare quando il datore di lavoro propone le dimissioni in alternativa al licenziamento
In linea generale, a meno che non vengano versate cifre consistenti, non è mai conveniente rassegnare le dimissioni, ma è preferibile essere licenziati.
Infatti, nonostante le comune convinzione che il licenziamento sia più “infamante”, le conseguenze tra le due ipotesi sono ben differenti.
Innanzitutto anche sul vecchio libretto di lavoro non veniva annotata la causa di cessazione del rapporto, ma solo ed esclusivamente la data di risoluzione. In secondo luogo, il licenziamento di regola determina il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, che varia secondo la qualifica e l’anzianità.
Quel che più conta però è che il licenziamento può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro, mentre le dimissioni, salvo casi eccezionali, no.
Questo significa la possibilità di far verificare al Giudice che effettivamente sussistessero le ragioni che hanno portato al licenziamento (che in molti casi si rivelano, al vaglio della Magistratura, insussistenti).
Nel caso in cui fosse esclusa la legittimità del licenziamento, , al lavoratore spetterebbe la tutela prevista dall’art. 18 S.L., qualora il caso concreto rientri nell’ambito di applicazione di tale norma.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di dimissioni
In genere
- Discriminatoria la trattenuta dell’indennità di preavviso a carico del lavoratore che si dimette, quando lo stesso non ha potuto effettuarlo in servizio a causa di una condizione di disabilità.
Il Tribunale accoglie il ricorso di un lavoratore disabile e condanna la società convenuta a restituire la somma illegittimamente trattenuta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso. La società aveva infatti trattenuto tre mensilità di stipendio al lavoratore, dopo che questi aveva rassegnato le dimissioni per accedere al pensionamento, per via del peggioramento delle condizioni di salute, ma non aveva potuto prestare attività lavorativa durante il periodo di preavviso. Secondo il Tribunale il comportamento della società che applica la sospensione del termine di preavviso al lavoratore assente per malattia, quando quest’ultima è causata dallo stato di disabilità, integra una discriminazione indiretta. (Trib. Lecco 30/1/2023, Giud. Trovò, in Wikilabour, Newsletter n. 10/23) - Gli effetti delle dimissioni del lavoratore da un contratto a tempo determinato, facente parte di una sequenza di contratti similari succedutisi nel corso degli anni, non sono limitati al solo rapporto a termine, ma si estendono anche al rapporto a tempo indeterminato accertato dal giudice con sentenza dichiarativa della nullità del primo dei contratti di lavoro a termine e, dunque, frutto della conversione. Ciò non esclude il diritto del lavoratore di chiedere l’accertamento della nullità del termine, ma al solo fine del risarcimento dei danni. (Cass. 14/3/2019 n. 7318, Pres. Bronzini Rel. Blasutto, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di V. Pasquarella, “Impossibile la conversione del contratto in caso di dimissioni da un rapporto di lavoro a termine”, 451)
- In caso di dimissioni del prestatore, la rinunzia al periodo di preavviso da parte del datore di lavoro non obbliga alla corresponsione dell’indennità sostitutiva, in assenza di una specifica clausola contenuta nel contratto individuale di lavoro o nel contratto collettivo. (Trib. Padova 7/3/2019 n. 181, Giud. Dallacasa, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di V. Del Gaiso, Dimissioni del lavoratore: il datore può rinunciare al preavviso senza corrispondere l’indennità sostitutiva”, 385)
- A fronte del riconoscimento di adeguati benefici sia economici che legati alla progressione della carriera in capo al prestatore di lavoro subordinato, è del tutto legittima la clausola con la quale egli si impegna, in caso di dimissioni, a osservare un periodo di preavviso di durata sensibilmente superiore a quella ordinariamente prevista da parte del contratto collettivo. (Cass. 15/9/2016 n. 18122, Pres. Nobile Rel. Negri Della Torre, in Lav. nella giur. 2017, 92)
- L’obbligo di preavviso per le dimissioni non trova applicazione nel caso in cui il rapporto di lavoro sia sospeso per la collocazione in cigs del lavoratore, con la conseguenza che è illegittimo il comportamento del datore che trattenga dalle competenze di fine rapporto una somma a titolo di indennità di mancato preavviso. (Trib. Napoli 15/6/2015, Est. Vargas, in Riv. it dir. lav. 2016, con nota di Fabio Avallone, “Il lavoratore malato in cigs e dichiarato inabile civile al 100% è tenuto a rispettare il termine di preavviso in caso di dimissioni?”, 3)
- In materia di recesso dal rapporto di lavoro, è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove tale facoltà di deroga sia prevista dal contratto collettivo e sia compensata da altri vantaggi (Cass. 12/3/2015 n. 4991, Pres. Macioce Est. Buffa, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di, “Legittima la deroga delle parti al periodo di preavviso previsto dal ccnl”, Maria Antonietta Carbone, 9)
- Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato può essere risolto dal lavoratore con una dichiarazione di volontà unilaterale e recettizia (dimissioni), per la quale vige il principio della libertà di forma, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto una particolare forma convenzionale per la validità dell’atto “ad substantiam”. (Trib. Udine 12/3/2014 n. 108, Giud. Berardi, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Pietro Polizzotto, 1014)
- Alle parti collettive non è consentito di concordare l’attribuzione a determinati comportamenti del lavoratore di valore e significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria. Il rapporto di lavoro può estinguersi, in base all’ordinamento giuridico, esclusivamente per le cause a tal fine previste dalla legge e non è permesso alle parti introdurre altre cause di estinzione del rapporto. (Cass. 2/7/2013 n. 16507, Pres. Stile Est. Napoletano, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Paola Salazar, 137)
- La minaccia di far valere un diritto costituisce causa invalidante di un negozio giuridico soltanto quando l’autore di essa se ne serva per conseguire, non già il risultato ottenibile con l’esercizio del diritto, ma vantaggi ingiusti, abnormi o diversi da detto risultato o obiettivamente iniqui ed esorbitanti rispetto al dovuto. Nel caso in cui, invece, sussista perfetta identità dell’effetto consistente nell’estinzione ad nutum del rapporto stesso, conseguibile con le dimissioni o con il licenziamento, il risultato conseguito dal datore di lavoro non può considerarsi abnorme, né esorbitante o obiettivamente ingiusto. (Trib. Milano 19/2/2013 Giud. Cipolla, in Lav. nella giur. 2013, 526)
- In materia di pubblico impiego privatizzato, le dimissioni del lavoratore – a cui equivale la rinuncia alla concessa proroga a rimanere in servizio fino al sessantacinquesimo anno di età a seguito di superamento della massima anzianità contributiva – costituiscono un atto unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui pervengono a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle, con la conseguenza che la successiva revoca è inidonea a eliminare l’effetto risolutivo già prodottosi, restando peraltro salva la possibilità, per le parti, in applicazione del principio generale di libertà negoziale, di porre nel nulla le dimissioni con la conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso, e con l’onere, in tal caso, di fornire la dimostrazione del raggiungimento del contrario accordo, a carico del lavoratore. (Trib. Napoli 13/5/2011, Giud. Lombardi in Lav. nella giur. 2011, 853)
- È valida e non contrasta con alcuna norma o principio dell’ordinamento giuridico la clausola contrattuale con la quale il lavoratore, disponendo liberamente della propria facoltà di recesso, pattuisce una garanzia di durata minima del contratto di lavoro e si obbliga a risarcire il danno al datore nell’ipotesi di dimissioni anticipate. (Cass. 19/8/2009 n. 18376, Pres. Roselli Est. Curcuruto, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Annamaria Donini, “Clausola di durata minima: la Cassazione conferma il proprio orientamento a favore della disponibilità della facoltà di recesso del lavoratore”, 358)
- Se il testo delle dimissioni risulta scritto al computer e in modo del tutto generico, mentre solo la data è scritta a penna, anche a ritenere autentica la sottoscrizione del lavoratore si versa quanto meno nell’ipotesi di dimissioni in bianco cioè quelle dimissioni prive di data e quindi nulle per difetto di causa. Inoltre, va valutata l’assenza di fatti concludenti idonei a svelare la volontà del lavoratore di dimettersi: infatti, al lavoratore, per palesare la volontà di dimettersi, sarebbe bastata l’ingiustificata assenza dal lavoro dopo il periodo di malattia. (Trib. Arezzo 21/10/2008, Giud. Afeltra, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Anna Piovesana, 398)
- In un procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., al fine della sussistenza del c.d. periculum in mora deve valutarsi non soltanto l’aspetto retributivo, in relazione alle esigenze primarie del lavoratore e della sua famiglia, ma anche l’interesse del lavoratore stesso a rendere la propria prestazione lavorativa, anche per la sua dignità. (Trib. Arezzo 21/10/2008, Giud. Afeltra, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Anna Piovesana, 398)
- In seguito alla “contrattualizzazione, il lavoratore pubblico che intenda determinare l’estinzione del rapporto non presenta più, come nel regime di diritto pubblico, una “domanda” per l’avvio del procedimento amministrativo culminante nel provvedimento di “accettazione” delle dimissioni, ma manifesta al datore di lavoro la volontà di recesso mediante negozio giuridico unilaterale recettizio (art. 2118 c.c.). Pertanto qualora il dipendente dichiari di voler essere collocato in pensione “con decorrenza dal giorno successivo al compimento dei requisiti previdenziali corrispondenti a 40 anni di servizio”, si configura una responsabilità contrattuale del datore di lavoro pubblico che rifiuti la prestazione lavorativa da una data precedente quella in cui il lavoratore abbia maturato il predetto requisito di servizio. (Cass. 8/5/2008 n. 11373, Pres. Sciarelli Rel. Picone, in Lav. nelle P.A. 2008, 645)
- Dichiarata la nullità del termine con conseguente dichiarazione della sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sin dall’inizio della prestazione, la disciplina del comporto di malattia non è quella dettata con riguardo al contratto a termine e parametrata sulla sua durata, bensì quella relativa ai rapporti di lavoro a tempo indetrminato prevista in generale; ne discende la nullità del recesso operato dal datore di lavoro per superamento del periodo di comporto breve previsto per il dipendente a tempo determinato. Corte app. Firenze 15/10/2007, Pres. Amato Est. Nisticò, in D&L 2008, con nota di Andrea D. Conte, “Illegittimità del termine ed effetto “moviola”: orientamenti della giurisprudenza verso una tutela “integrale””, 547)
- In tema di dimissioni del lavoratore, il fatto che questi le abbia presentate in adesione a un accordo intervenuto tra le organizzazioni sindacali e il datore di lavoro, per garantirsi la riassunzione presso altro datore di lavoro, non esclude che l’atto corrisponda alla sua effettiva volontà negoziale; pertanto, in quanto atto unilaterale recettizio, che ai sensi dell’art. 1324 c.c. soggiace alle norme in tema di annullabilità per vizi della volontà dei contratti, le dimissioni possono essere annullate soltanto se sussistono i presupposti di cui agli artt. 1427 e ss. c.c. (Cass. 5/10/2007 n. 20887, Pres. Mattone Est. Monaci, in Lav. nella giur. 2008, 311 e in Dir. e prat. lav. 2008, 1531)
- Il disconoscimento non costituisce mezzo processuale idoneo a dimostrare l’abusivo riempimento del foglio in bianco, sia che si tratti di riempimento absque pactis, sia che si tratti di riempimento contra pacta, dovendo invece essere proposta querela di falso, qualora si sostenga che nessun accordo per il riempimento era stato raggiunto, e dovendo invece essere fornita la prova di un accordo dal contenuto diverso da quello del foglio sottoscritto, qualora si sostenga che l’accordo raggiunto era diverso. (Cass. 15/5/2007 n. 11163, Pres. Ravagnani Est. Miani Canevari, in D&L 2007, con nota di Chiara Zambrelli, “Dimissioni in bianco e possibili rimedi”, 1196)
- La prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto, allegando di essere stato licenziato – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, cioè la sua estromissione dal luogo di lavoro ovvero, da parte del datore di lavoro, della prestazione lavorativa messagli a disposizione dal lavoratore, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro – avente valore di un’eccezione – ricade sull’eccipiente ex art. 2697, secondo comma, c.c. (Corte app. Milano 28/3/2007, Pres. Ruiz Rel. Trogni, in Lav. nella giur. 2008, 93)
- Le dimissioni del lavoratore costituiscono un atto unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui pervengono a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo, con la conseguenza che la successiva revoca delle stesse è inidonea a eliminare l’effetto risolutivo che si è già prodotto, restando limitata la prosecuzione del rapporto al solo periodo di preavviso. Tuttavia, in applicazione del principio generale di libertà negoziale, le parti possono consensualmente stabilire di porre nel nulla le dimissioni con conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso e, in tal caso, l’onere di fornire la dimostrazione del raggiungimento del contrario accordo, che, come le dimissioni, non richiede la forma scritta, salva una diversa espressa previsione contrattuale, è a carico del lavoratore. (Cass. 26/2/2007 n. 4391, Pres. Ciciretti Est. Nobile, in Lav. nella giur. 2007, 1027)
- E’ ammissibile la richiesta di riammissione in servizio del pubblico dipendente che si sia dimesso durante il periodo di prova e che ne faccia domanda entro il termine previsto dal contratto collettivo. (Trib. Ravenna 14/2/2007, Est. Riverso, in ADL 2008, con commento di Maria Giovanna Greco, “Riammissione in servizio e divieto di reformatio in peius del trattamento retributivo, nel passaggio da un’amministrazione a un’altra, nel lavoro pubblico privatizzato”, 208)
- Nell’ipotesi di controversia in ordine alle modalità di risoluzione del rapporto – nella quale il lavoratore assume di essere stato licenziato oralmente, mentre il datore di lavoro eccepisce che lo stesso ha dato le dimissioni – ai sensi dell’art. 2697 c.c., la mancanza di prova certa sulle dimissioni non può sopperire alla assoluta mancanza di prova del licenziamento verbale, poichè, altrimenti, si verificherebbe una sorta di inversione dell’onere della prova, dato che quella sull’avvenuto licenziamento incombe sul lavoratore. (Corte App. Milano 31/1/2007, Pres. Salmeri Rel. Sbordone, in Lav. nella giur. 2007, 947)
- L’istituto della riammissione in servizio del dipendente dimissionario di amministrazione pubblica (ai sensi dell’art. 132, d.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3, Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello stato) non fonda il diritto soggettivo alla ricostituzione del rapporto di lavoro, in quanto presuppone la decisione discrezionale dell’amministrazione circa la sussistenza di un interesse pubblico a coprire il posto rimasto scoperto. (Cass. 5/10/2006 n. 21408, Pres. Sciarelli Est. De Luca, in ADL 2007, con nota di Sabrina Bellumat, “Sul controverso diritto alla riammissione in servizio del dipendente nella pubblica amministrazione” 549)
- Nell’ipotesi in cui il contratto collettivo attribuisca il valore delle dimissioni a un certo periodo di assenza ingiustificata dal posto di lavoro, tale presunzione ammette la prova contraria, la quale può desumersi anche dal comportamento del datore di lavoro che, con valutazione propria, non abbia reputato sussistente una reale volontà risolutiva da parte del dipendente (fattispecie relativa all’ipotesi di un datore di lavoro che, nonostante l’assenza del dipendente per un periodo superiore ai tre giorni previsti dal contratto collettivo applicato come ipotesi di dimissioni presunte del lavoratore, ha provveduto al suo licenziamento al termine di un procedimento disciplinare a causa delle menzionate assenze). (Trib. Milano 8/6/2005, Est. Di Leo, in Orient. Giur. Lav., 2005, 958)
- Il lavoratore che ha presentato dimissioni con preavviso non può in un secondo tempo mutare il regime delle stesse, affermando che si devono intendere per giusta causa, poiché nel momento in cui la dichiarazione costituente il contenuto delle dimissioni è giunta a destinazione si è perfezionata e il lavoratore non può più intervenire. L’immutabilità deriva dal fatto che le dimissioni sono un atto recettizio che si perfeziona con la sua comunicazione, momento in cui si esaurisce la possibilità di modificare la dichiarazione. (Trib. Verona 7/9/2004, Est. Matano, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Francesca Marchesan, 462)
- L’indennità sostitutiva di preavviso che il lavoratore dimissionario è tenuto a pagare va calcolata adottando, come parametro di risarcimento, la retribuzione indicata nel ccnl, ma detraendo dall’importo le trattenute previdenziali e fiscali, perché le stesse non sono dovute né al datore di lavoro, né agli istituti; il parametro serve solo a quantificare il risarcimento e non comporta l’assoggettamento della indennità sostitutiva alla disciplina previdenziale e fiscale prevista per la retribuzione. (Corte d’appello Milano 13/2/2004, Pres. Mannacio Rel. Ruiz, in Lav. nella giur. 2004, 906)
- Le dimissioni del lavoratore costituiscono un atto unilaterale recettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto nel momento in cui pervengono a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo, con la conseguenza che la successiva revoca delle stesse è inidonea ad eliminare l’effetto risolutivo che si è già prodotto, restando limitata la prosecuzione del rapporto al solo periodo di preavviso. Tuttavia, in applicazione del principio generale di libertà negoziale, le parti possono consensualmente stabilire di porre nel nulla le dimissioni con conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso. L’onere di fornire la dimostrazione di tale contrario accordo, che, come le dimissioni, non richiede la forma scritta, salva una diversa espressa previsione contrattuale, è a carico del lavoratore. (Cass. 12/5/2004 n. 9046, Pres. Mattone Rel. Dell’Anno, in Dir. e prat. lav. 2004, 2582)
- Il lavoratore indotto alle dimissioni da colpevole comportamento dell’Inps, che gli abbia erroneamente comunicato il perfezionamento del requisito contributivo per il conseguimento della pensione di anzianità, ha diritto al risarcimento del danno in un importo commisurabile a quello delle retribuzioni perdute tra la data della cessazione del rapporto di lavoro e quella dell’effettivo conseguimento della detta pensione, in forza del completamento del periodo di contribuzione a tal fine necessario, ottenuto col versamento di contributi volontari, da sommarsi a quelli obbligatori anteriormente accreditati. (Cass. 24/1/2003, n. 1104, Pres. Senese, Rel. Filadoro, in Lav. nella giur. 2003, 576)
- In materia di estinzione del rapporto di lavoro, le dimissioni volontarie dal servizio da parte del pubblico dipendente sono un atto unilaterale recettizio che produce il suo effetto nel momento in cui viene a conoscenza il datore di lavoro e la cui eventuale revoca non ha effetto se non viene accettata dall’Amministrazione. In materia di revoca delle dimissioni volontarie dal servizio da parte del pubblico dipendente, l’eventuale differimento della data del collocamento a riposo da parte dell’Amministrazione non equivale ad accettazione della revoca, ma ad una nuova proposta di lavoro che si intenda accettata dal dipendente con il comportamento concludente della permanenza in servizio. (Corte d’Appello Milano 29/11/2002, Pres. Ruiz Est. Accardo, in D&L 2003, 169)
- Nel caso in cui il lavoratore non provi il licenziamento verbale dedotto in giudizio e, contestualmente, il datore di lavoro non provi le asserite dimissioni del primo, il rapporto tra le parti, in difetto di prova di di un valido atto risolutivo, deve essere considerato ancora esistente con conseguente diritto del lavoratore alla riammissione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni dovute. (Trib. Firenze 8/2/2002, Est. Nuvoli, in D&L 2002, 980)
- In tema di licenziamento in tronco, questo ha effetto legale dal momento della consegna della comunicazione scritta all’interessato, ferma rimanendo la disciplina giuridica-art. 1334 c.c.-degli atti unilaterali recettizi. Pertanto il succesivo atto di dimissioni, intervenendo su un rapporto di lavoro cessato, si configura come atto privo di causa e, in quanto tale, affetto da nullità. (Corte d’Appello Firenze 15/9/2001, Pres. Cacialli, in Lav. nella giur. 2003, 85)
- La previsione del contratto collettivo che stabilisca come normale la forma scritta delle dimissioni non costituisce regola assoluta di efficacia del negozio, ma comporta soltanto un particolare rigore nell’accertamento dell’esistenza di un negozio orale di dimissioni (Cass. 13/4/00, n. 4760, pres. Mercurio, est. Servello, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 166, con nota di Caro, La ripartizione dell’onere della prova dell’estinzione del rapporto di lavoro, in assenza di dichiarazioni negoziali scritte)
- A seguito dell’apertura di procedura di licenziamento collettivo per riduzione di personale ex art. 24, L.23/7/91 n. 223, ai lavoratori che rassegnino spontanee dimissioni senza preavviso, non è dovuta l’indennità sostitutiva del preavviso, ma nemmeno può essere operata dal datore di lavoro alcuna ritenuta a titolo di mancato preavviso (Pret. Milano 2/7/97, est. Frattin, in D&L 1998, 101)
Annullamento
- Le disposizioni codicistiche in tema di annullamento del contratto per errore si applicano anche agli atti unilaterali, qual è l’atto di dimissioni, ai sensi dell’art. 1324 c.c.; va tuttavia rilevato che la fattispecie in esame non è sussumibile nell’ambito dell’errore determinante l’annullamento dell’atto, giacché l’errore di diritto invocato non concerne propriamente le dimissioni, non lamentando la ricorrente di aver errato né sulla natura, né sugli effetti dell’atto e che quindi fosse viziata la sua volontà di risolvere il rapporto di lavoro. L’errore di diritto è caduto invece su una norma giuridica concernente il distinto, ancorché collegato, rapporto previdenziale, giacché la lavoratrice si aspettava, attraverso il riconoscimento della rendita vitalizia, di aver maturato il diritto al trattamento pensionistico. (Trib. Roma 20/11/2020, Giud. Savignano, in Lav. nella giur. 2021, 425)
- L’irrilevanza dell’errore sui motivi, sostenuta dalla dottrina prevalente, è confermata da un dato di diritto positivo, perché quando si è inteso conferire rilevanza al motivo lo si è espresso chiaramente, come previsto in tema di donazione, la quale ex art. 787 c.c. può essere impugnata per errore sul motivo, se questo risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donante a compiere la liberalità. (Trib. Roma 20/11/2020, Giud. Savignano, in Lav. nella giur. 2021, 425)
- Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale quella prevista dall’art. 428 c.c.), costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere. Pertanto, laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato, il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinuncia al posto di lavoro – bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost. – sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso. (Cass. 21/11/2018 n. 30126, Pres. Napoletano Est. Tria, in Riv. It. Dir. lav. 2019, con nota di M. Pannone, “Annullabili le dimissioni rese in stato di forte turbamento psichico”, 57)
- La violenza morale che si concreti nella minaccia di far valere un diritto è causa invalidante di un contratto o di un atto unilaterale, quali le dimissioni del lavoratore subordinato, allorché il suo autore intenda perseguire un vantaggio esorbitante e iniquo: tale minaccia è concretamente ravvisabile, sotto il profilo della effettiva funzione intimidatoria del comportamento, solo se venga prospettato un uso strumentale del diritto o potere, diretto non solo a realizzare l’interesse la cui soddisfazione è prevista dall’ordinamento, ma anche a condizionare la volontà. (Cass. 14/6/2016 n. 12215, Pres. Venuti Rel. D’Antonio, in Lav. nella giur. 2016, 928)
- Perché l’incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’atto che sta per compiere; la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se adeguatamente motivata. (Cass. 28/10/2014 n. 22836, Pres. Roselli Est. Lorito, in Lav. nella giur. 2015, 89)
- In caso di dimissioni date dal lavoratore in stato di incapacità naturale, il diritto a riprendere il lavoro nasce con la sentenza di annullamento ex art. 428 c.c., i cui effetti retroagiscono al momento della domanda, stante il principio secondo cui la durata del processo non deve andare a detrimento della parte vincitrice. Solo da quel momento nasce il diritto alla retribuzione. (Cass. 14/4/2010 n. 8886, Pres. Roselli Est. Curzio, in D&L 2010, con nota di Nicola Coccia, “Annullamento delle dimissioni e diritto alle retribuzione pregresse”, 579)
- Nel regime del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione successivo all’entrata in vigore del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, l’atto di dimissioni è negozio unilaterale recettizio, come nel rapporto di lavoro privato disciplinato dalle norme codicistiche, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro, indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle. Ne consegue che la successiva revoca delle stesse è inidonea a eliminare l’effetto risolutivo che si è già prodotto; salva, in applicazione del principio di libertà negoziale, la facoltà delle parti di stabilire consensualmente di porre nel nulla le dimissioni con conseguente prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto stesso. L’onere di fornire la dimostrazione di tale contrario accordo è a carico della parte che vi ha interesse (nella specie il lavoratore). (Cass. 10/2/2009 n. 3267, Pres. De Matteis, Rel. Sciarelli, in Lav. nelle P.A. 2009, 145)
- Le dimissioni del lavoratore, rassegnate sotto minaccia di licenziamento per giusta causa, sono suscettibili di essere annullate per violenza morale solo qualora venga accertata – e il relativo onere probatorio è carico del lavoratore che deduca l’invalidità dell’atto di dimissioni – l’inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell’inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del proprio diritto di recesso. (Cass. 2/10/2008 n. 24405, Pres. De Luca Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2009, 197)
- Ai fini dell’annullamento delle dimission, in quanto rese in stato di incapacità di intendere e di volere, non è necessario accertare che il lavoratore fosse, al momento dell’atto, in uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che tali facoltà siano risultate diminuite in modo tale da impedire la formazione di una volontà cosciente. (Cass. 18/3/2008 n. 7292, Pres. De Luca Est. Cuoco, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, “Dimissioni rese dall’incapace e annullamento: l’assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti”, 646)
- L’azione di annullamento delle dimissioni, in quanto rese in stato di transitoria incapacità di intendere e di volere, è subordinata alla sussistenza del requisito del grave pregiudizio per il lavoratore, così come previsto dall’art. 428, 1° comma, c.c. applicabile agli atti unilaterali, e non anche alla sussistenza dell’ulteriore requisito della malafede del datore di lavoro, richiesto dall’art. 428, 2° comma, c.c., per l’annullamento dei contratti. (Cass. 18/3/2008 n. 7292, Pres. De Luca Est. Cuoco, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, “Dimissioni rese dall’incapace e annullamento: l’assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti”, 646)
- Ai fini dell’annullamento delle dimission, in quanto rese in stato di incapacità di intendere e di volere, non è necessario accertare che il lavoratore fosse, al momento dell’atto, in uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente che tali facoltà siano risultate diminuite in modo tale da impedire la formazione di una volontà cosciente. (Trib. Milano 24/1/2008, Est. Vitali, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, “Dimissioni rese dall’incapace e annullamento: l’assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti”, 647)
- L’azione di annullamento delle dimissioni, in quanto rese in stato di transitoria incapacità di intendere e di volere, è subordinata alla sussistenza del requisito del grave pregiudizio per il lavoratore, così come previsto dall’art. 428, 1° comma, c.c. applicabile agli atti unilaterali, e non anche alla sussistenza dell’ulteriore requisito della malafede del datore di lavoro, richiesto dall’art. 428, 2° comma, c.c., per l’annullamento dei contratti. (Trib. Milano 24/1/2008, Est. Vitali, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, “Dimissioni rese dall’incapace e annullamento: l’assenza di una volontà cosciente e il grave pregiudizio sono sufficienti”, 647)
- Nel caso dell’annullamento delle dimissioni per incapacità naturale del lavoratore, manca qualsiasi fatto (determinativo di danno, n.d.r.) non solo imputabile ma anche solo riferibile al datore di lavoro, il quale non può che prendere atto delle dimissioni del lavoratore. E’ logico pertanto che lo stesso non abbia alcun obbligo nei confronti del lavoratore dimissionario, almeno fino alla pronuncia di annullamento, perchè il limite di tutela prevista in favore del lavoratore incapace è il ripristino del rapporto dalla sentenza, non anche le retribuzioni fino a quella data. (Trib. Milano 21/12/2007, Est. Beccarini, in Lav. nella giur. 2008, 532)
- La permanenza del rapporto di lavoro, in conseguenza della nullità delle dimissioni presentate dalla lavoratrice nel periodo di interdizione di cui all’art. 1 della L. n. 7 del 1963 (dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino a un anno dopo la celebrazione dello stesso), ripristinabile a semplice richiesta della lavoratrice, esclude l’indennizzabilità dello stato di disoccupazione alla stregua della normativa previdenziale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della corte territoriale che aveva fatto applicazione degli stessi criteri interpretativi enunciati da corte Cost. n. 269 del 2002, ravvisando l’eadem ratio della disposizione al vaglio dal Giudice delle leggi, di tutela dello stato di disoccupazione non dipendente da libera scelta del lavoratore). (Cass. 4/1/2007 n. 25, Pres. Ravagnani Est. Toffoli, in Lav. nella giur. 2007, 830)
- Alle dimissioni rese da lavoratore incapace di intendere o di volere è applicabile il solo comma 1° dell’art. 428 c.c., con conseguente sufficienza del grave pregiudizio per l’incapace e irrilevanza del requisito della malafede del destinatario dell’atto unilaterale. (Corte App. Milano 4/9/2006, Pres. Ruiz Est. Accardo, in D&L 2007, 241 e in lav. nella giur. 2007, 525)
- All’annullamento delle dimissioni rese da lavoratore in stato di incapacità di intendere e di volere consegue il diritto al pagamento delle retribuzioni dalla data della sentenza; tale diritto retroagisce al momento delle dimissioni solo se il datore di lavoro versi in stato di malafede. (Corte App. Milano 4/9/2006, Pres. Ruiz Est. Accardo, in D&L 2007, 241)
- L’incapacità naturale che rileva come causa di annullamento del negozio giuridico delle dimissioni consiste nella transitoria impossibilità, per un momentaneo stato di alterazione delle proprie condizioni fisiche o mentali, di rendersi conto del contenuto e degli effetti del medesimo, e non può essere provocata esclusivamente da un dispiacere, anche grave, a meno che questo non abbia provocato una patologica alterazione mentale. (Cass. 8/3/2005 n. 4967, Pres. Ravagnani Est. Roselli, in Orient. Giur. Lav. 2005, 169)
- Ai fini della sussistenza della incapacità di intendere e di volere, costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, le dimissioni), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente la menomazione di esse, tale comunque da impedire la formazione di una volontà cosciente. (Cass. 12/3/2004 n. 5159, Pres. Ciciretti Rel. Vigolo, in Lav. e prev. oggi 2004, 735)
- Perché l’incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell’atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’atto che sta per compiere; la valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è riservata al giudice di merito e non è censurabile in Cassazione se adeguatamente motivata. (Cass. 14/5/2003 n. 7485, Pres. Sciarelli Rel. Balletti, in Lav. nella giur. 2003, 1160)
- L’atto privo di data con il quale il lavoratore rassegne le proprie dimissioni in costanza di rapporto, in epoca nella quale egli non intenda porre fine al rapporto stesso, è nullo per difetto di causa e non può pertanto essere utilizzato dal datore di lavoro per far cessare il rapporto in epoca successiva (Corte d’Appello di Torino, 7/1/2003, Pres. Peyron, Est. Fierro, in Riv.it. dir. lav. 2003, 593)
- Nel caso di annullamento per violenza morale delle dimissioni o della risoluzione consensuale, sono dovute al dipendente le retribuzioni maturate medio tempore, essendo irrilevante che il dipendente stesso abbia o no formalmente offerto la propria prestazione al datore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione di fatto del rapporto (Cass. 29/8/2002, n. 12693, Pres. Ciciretti, Est. Filadoro, in Riv. it. dir. lav. 2003, 581, con nota di Michele Mariani, Le conseguenze economiche della ricostituzione ope iudicis del rapporto di lavoro, fuori dalle ipotesi disciplinate dall’art. 18 St. lav.)
- In ipotesi di dimissioni, rassegnate dal lavoratore dietro minaccia del datore di lavoro di adire le vie legali in sede civile e penale per gravi mancanze, non può ritenersi perseguimento di un vantaggio ingiusto, ai sensi dell’art. 1438 c.c. (in relazione alle circostanze concrete) la soluzione concordata del recesso per dimissioni che costituisce in astratto un vantaggio di natura bilaterale, nella misura in cui anche il lavoratore evita spiacevoli conseguenze in termini di immagine e di concreto, potenzialmente lungo e penoso, contrasto con il datore di lavoro; tuttavia tali dimissioni devono essere annullate per violenza morale ai sensi dell’art. 1435 c.c. qualora tale minaccia sia stata accompagnata dal comportamento complessivamente intimidatorio tenuto dal datore di lavoro (da valutarsi anche alla luce dei principi di correttezze e buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro), ovvero da modalità vessatorie e tali da escludere un pur breve spatium deliberandi necessario al pieno sviluppo ed alla genuina espressione della volontà del lavoratore di rassegnare le dimissioni. (Corte d’Appello Firenze 11/2/2002, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2002, 682, con nota di Gianni Tognazzi, “Annullamento delle dimissioni per violenza morale”)
- Dall’annullamento (con efficacia retroattiva) delle dimissioni rassegnate a seguito di violenza morale discende che il rifiuto di riammettere in servizio il lavoratore, a seguito di revoca delle dimissioni, costituisce illegittimo allontanamento dal posto di lavoro parificabile ad un licenziamento ingiustificato, con conseguente applicabilità del regime sanzionatorio di cui all’art. 18 SL (nella ricorrenza dei requisiti dimensionali aziendali). (Corte d’Appello Firenze 11/2/2002, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2002, 682, con nota di Gianni Tognazzi, “Annullamento delle dimissioni per violenza morale”)
- In caso di licenziamento seguito da dimissioni del lavoratore, in mancanza della prova rigorosa dell’esistenza di una più ampia e complessa fattispecie di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro – il cui onere incombe sulla parte che intenda avvalersene – le dimissioni sono nulle in quanto atto mancante di causa essendo il rapporto di lavoro già estinto a seguito del recesso intimato dal datore di lavoro. La successiva declaratoria di illegittimità del licenziamento con reintegrazione del lavoratore, a seguito dell’espressa previsione del CCNL per i dirigenti di casse rurali e artigiane, non fa rivivere l’atto di dimissioni che permangono nulle in quanto comunque intimate in un momento successivo alla cessazione del rapporto di lavoro (Corte Appello Firenze 26/6/01, pres. e est. Pieri, in Lavoro giur. 2002, pag. 170, con nota di Gorretta, Licenziamento disciplinare seguito da dimissioni: validità ed efficacia dei due atti)
- In caso di licenziamento seguito da dimissioni del lavoratore, entrambi gli atti concorrono a rendere del tutto impossibile il ripristino del rapporto, del quale le parti sancirono, ciascuna per la sua parte, la definitiva risoluzione. Poiché le dimissioni sono valide, ancorché presentate dopo la comunicazione del recesso aziendale, il lavoratore è carente di interesse all’azione ex art. 100 c.p.c. (Trib. Firenze 18/5/00, pres. e est. Bazzoffi, in Lavoro giur. 2002, pag. 168, con nota di Gorretta, Licenziamento disciplinare seguito da dimissioni: validità ed efficacia dei due atti)
- In tema di annullamento dell’atto di dimissioni del lavoratore, la minaccia del licenziamento per giusta causa si configura come la prospettazione di un male ingiusto di per sé, invece che come la minaccia di far valere un diritto (art.1438 c.c.), ove si accerti l’inesistenza del diritto del datore di lavoro al licenziamento, per l’insussistenza dell’inadempienza addebitabile al dipendente (Cass. 28/12/1999 n.14621, pres. Lanni, , in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 738, con nota di Ponari, L’annullabilità delle dimissioni in caso di minaccia di licenziamento di giusta causa. In senso conforme, v. Cass. 8/3/01, n. 3380, pres. Ghenghini, est. Lamorgese, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 313)
- La minaccia di far valere un diritto, come ipotesi di violenza morale costituente causa di annullabilità di un contratto o di un atto unilaterale, quale l’atto di dimissioni di un lavoratore dipendente, può estrinsecarsi in modi vari e indefiniti, anche non espliciti, e può operare anche come semplice concausa dell’atto in ipotesi viziato, ma non assume rilievo se con il suo esercizio viene perseguito un effetto più ampio ma non abnorme rispetto a quello raggiungibile con l’esercizio del diritto; inoltre la minaccia rilevante ai sensi di legge è concretamente ravvisabile, sotto il profilo dell’effettiva funzione intimidatoria del comportamento, soltanto se venga prospettato un uso strumentale del diritto o del potere, diretto non solo alla realizzazione dell’interesse la cui soddisfazione è prevista dall’ordinamento, ma anche al condizionamento della volontà (Cass. 28/12/1999 n.14621, pres. Lanni, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 738, con nota di Ponari, L’annullabilità delle dimissioni in caso di minaccia di licenziamento di giusta causa)
- Ai fini dell’annullabilità dell’atto di dimissioni del lavoratore dipendente ottenuto con la minaccia di denuncia penale e di licenziamento vanno valutate, oltre all’obiettiva natura intimidatoria o no dell’invito alle dimissioni, anche, in modo compiuto e approfondito, le modalità fattuali del comportamento tenuto dal datore di lavoro (Cass. 28/12/1999 n.14621, pres. Lanni, , in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 738, con nota di Ponari, L’annullabilità delle dimissioni in caso di minaccia di licenziamento di giusta causa)
- Le dimissioni del lavoratore che siano state indotte dalla minaccia seria da parte del datore di lavoro di un licenziamento per fatti non veri, e che quindi non lo avrebbero giustificato, sono viziate da violenza e vanno annullate (Pret. Bari 9 luglio 1999, est. Notarnicola, in D&L 2000, 223)
- In ipotesi di violazione dell’art. 1 L. 1369/60 le dimisisoni rassegnate dal lavoratore alla società appaltatrice sono prive di effetti giuridici poiché il rapporto di lavoro intercorre ex lege con l’impresa appaltante (Cass. 27/5/96 n. 4862, pres. Buccarelli, est. Vigolo, in D&L 1996, 988, nota MUGGIA, Società cooperative e appalto di mere prestazioni di lavoro)
- Le dimissioni possono essere annullate, ai sensi dell’art. 428 c.c., quando risulti che il lavoratore le abbia rassegnate in stato di incapacità di intendere e di volere, e che dalle stesse gli sia derivato in grave pregiudizio; dall’annullamento delle dimissioni deriva – attesa la perdurante sussistenza del rapporto di lavoro – il diritto del lavoratore all’immediato ripristino del rapporto stesso e, quanto alla retribuzione, il diritto alla corresponsione con decorrenza dalla data di pronunzia della sentenza (Pret. Napoli 3/3/95, est. Di Lella, in D&L 1996, 215)
- La minaccia di un licenziamento non costituisce violenza morale e, quindi, non è causa di annullamento delle dimissioni, laddove le stesse siano rese da un lavoratore che confessi di aver commesso gli addebiti contestati e questi ultimi siano di gravità tale da poter giustificare un licenziamento per giusta causa (Pret. Nola, sez. Pomigliano d’Arco, 18/2/95, est. Perrino, in D&L 1995, 679, nota FORTUNATO, L’annullabilità delle dimissioni)
- Nel valutare l’annullabilità di dimissioni ottenute / estorte con la minaccia di denunce penali e di licenziamento per giusta causa, il giudice deve valutare l’obiettiva natura, intimidatoria o meno, dell’invito rivolto al lavoratore alle dimissioni, in relazione all’effettiva gravità del fatto illecito ascrivibile e al male ingiusto e notevole eventualmente paventato; vanno inoltre compiutamente e approfonditamente valutate le modalità fattuali del comportamento tenuto dal datore di lavoro o suo rappresentante, in rapporto all’entità del fatto concreto ascrivibile al lavoratore e a tutte le conseguenze, anche di ordine penale, notevolmente pregiudizievoli prospettate nell’immediatezza del fatto stesso (Cass. 1/6/94, pres. Alvaro, est. Caianiello, in D&L 1995, 207, nota MUGGIA, Dimissioni (ingiuste) estorte e licenziamento illegittimo: differenti conseguenze?)
Giusta causa di dimissioni
- Il mancato pagamento delle retribuzioni per un periodo di oltre quattro mesi costituisce certamente giusta causa di risoluzione del rapporto, essendo stato il lavoratore privato dell’unica fonte di sostentamento. (Trib. Milano 10/5/2013, Giud. Ravazzoni, in Lav. nella giur. 2013, 854)
- Non sussiste “giusta causa” di dimissioni, né sussiste il conseguente diritto alla percezione dell’indennità di mancato preavviso, nel caso del docente che si dimetta dall’incarico per divergenze con la scuola in merito all’educazione e al percorso di istruzione di un alunno “difficile”. Nel “bagaglio professionale” di un docente di scuola media non possono mancare doti di pazienza e tolleranza, oltre a specifiche conoscenze psico-pedagogiche dell’età evolutiva. Uno dei compiti dell’Istituzione scolastica e del suo corpo docente è quello di assicurare, nella prima fa di “approccio” degli alunni alla nuova realtà scolastica, oltre agli aspetti strettamente didattici, anche un graduale inserimento e un crescente conformarsi dei comportamenti agli standard minimi necessari per un proficuo lavoro di apprendimento. (Nel caso di specie, si trattava di un docente in contrasto con le scelte degli organi direttivi e collegiali dell’Istituzione presso cui prestava servizio, relativamente alle problematiche educative e disciplinari create da un alunno con forti difficoltà d’inserimento. La Corte ha appurato, tralaltro, che le iniziative adottate dalla scuola, contestate dal ricorrente, avevano consentito di raggiungere risultati ampiamente positivi, migliorando i comportamenti e i risultati scolastici dell’alunno. Nel caso in esame, inoltre, non esisteva, al contrario di quanto sostenuto dal ricorrente, alcun rischio per l’integrità psico-fisica del docente). (Cass. 29/1/2008 n. 1988, Pres. Ciciretti Rel. Stile, in Lav. nelle P.A. 2008, 407)
- In caso di dimissioni per giusta causa da contratto a tempo determinato, il risarcimento del danno subito dal lavoratore è commisurato alle retribuzioni che allo stesso sarebbero spettate sino al termine di scadenza del contratto stesso. (Cass. 8/5/2007 n. 10430, Pres. Senese Est. De Renzis, in D&L 2007, con nota di Lorenzo Franceschinis, “La prova della giusta causa di dimissioni attraverso registrazione del datore di lavoro: ragionamenti sulle conseguenze delle dimissioni ante tempus”, 875)
- Il giudizio teso ad individuare il trattamento più favorevole spettante all’agente-tra art. 1751 c.c. ed accordi collettivi-deve avvenire ex post e secondo il principio della domanda di cui all’art. 112 c.p.c. Costituisce giusta causa di dimissioni-con conseguente diritto all’indennità sostitutiva del preavviso di cui all’art. 1750 c.c.-il sostanziale azzeramento della possibilità di lavoro dell’agente in assenza di oggettive ragioni aziendali. (Corte d’Appello Milano 21/11/2002, Pres. Ed Est. Mannacio, in D&L 2003, 135)
- In ipotesi di dimissione di lavoratore per giusta causa, la valutazione della gravità dell’inadempimento del datore di lavoro ai suoi obblighi contrattuali è rimessa al sindacato del giudice di merito, censurabile in sede di legittimità unicamente per vizi di motivazione. (Nella specie, risalente al tempo anteriore alla novella dell’art. 5, L. n. 903/1977, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato la gravità dell’inadempimento del datore di lavoro nell’adibizione di un dipendente notturno quale modalità normale e stabile dello svolgimento del rapporto di lavoro e ritenuto irrilevante la mancata attivazione dello speciale procedimento di cui all’art. 15 legge citata). (Cass. 18/10/2002, n. 14829, Pres. Ciciretti, Rel. Miani Canevari, in Lav. nella giur. 2003, 173)
- Il giudizio sull’idoneità della condotta del datore di lavoro a costituire giusta causa delle dimissioni del lavoratore si risolve in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità se sorretto da congrua motivazione (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata la quale aveva escluso che la contestazione disciplinare diretta al lavoratore fosse tale da giustificare una risoluzione del rapporto di lavoro per giusta causa da parte del lavoratore, sul principale rilievo che essa non aveva in sé contenuti ingiuriosi o lesivi della dignità morale o professionale del lavoratore, riguardando incontestabilmente semplici inadempienze del lavoratore ad obblighi discendenti dal contratto di lavoro) (Cass. 11/2/00 n. 1542, pres. Grieco, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 509)
- Laddove risultino provate a danno della lavoratrice molestie sessuali concretantesi in fatti lesivi della sua personalità e dignità, idonei a suscitare fastidio in un contesto in cui la persona offesa si trovi, anche da un punto di vista psicologico, in una situazione di inferiorità, tali fatti integrano giusta causa di dimissioni (nel caso di specie, è stato anche affermato che il riconoscimento del conseguente danno biologico è subordinato a una sia pur minima allegazione della sua effettiva sussistenza da parte della lavoratrice molestata) (Trib. Milano 16 giugno 1999, pres. Mannacio, est. Sbordone, in D&L 2000, 787)
- Poiché l’attribuzione a un lavoratore di mansioni inferiori a quelle spettanti determina non solo un pregiudizio morale, ma anche un pregiudizio economico (devalorizzazione progressiva delle prestazioni che il lavoratore può offrire sul mercato del lavoro), costituiscono giusta causa di dimissioni la violazione del diritto del lavoratore al rispetto della sua personalità fisica e morale, la modifica arbitraria delle fondamentali condizioni contrattuali, l’inadempimento degli obblighi che costituiscono il corrispettivo della prestazione di lavoro, disposta in contrasto con l’art. 2103 c.c. (Cass. 2/2/98 n. 1021, pres. Rapone, est. Berni Canani, in D&L 1998, 1052, nota Muggia, Dimissioni per giusta causa e risarcimento del danno)
- Nel caso di risoluzione per inadempimento di un contratto a prestazioni corrispettive spetta al contraente adempiere il risarcimento non solo del danno determinato direttamente e immediatamente dall’inadempimento (nel caso di dimissioni per giusta causa, l’indennità sostitutiva del preavviso), ma anche del danno derivante dallo scioglimento del contratto (identificato, nella specie, nella differenza tra il valore delle prestazioni non conseguite e quello delle prestazioni non più dovute); pertanto, poiché l’art. 2119 c.c. non prevede il danno da risoluzione e l’indennità di preavviso non può coprire in funzione risarcitoria danni diversi da quelli tipici (mancata percezione delle retribuzioni per il periodo necessario al reperimento di una nuova occupazione), alla risoluzione del rapporto per giusta causa e per iniziativa del lavoratore si applicano le norme generali del risarcimento del danno da inadempimento contrattuale (Cass. 2/2/98 n. 1021, pres. Rapone, est. Berni Canani, in D&L 1998, 1052, nota Muggia, Dimissioni per giusta causa e risarcimento del danno)
- Laddove il lavoratore venga specificatamente assunto per lo svolgimento di mansioni corrispondenti alla professionalità acquisita nel tempo, l’attribuzione da parte del datore di lavoro di compiti appartenenti a un tipo di professionalità diversa è valutabile in termini di inadempimento contrattuale, che, in quanto capace di aggravare col protrarsi del tempo il danno alla professionalità, costituisce giusta causa di dimissioni (Pret. Milano 10/3/97, est. Ianniello, in D&L 1997, 645)