Questa voce è stata curata da Laura Bianchi
Definizione
L’appalto è il contratto con cui una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, l’obbligazione di compiere in favore di un’altra (committente o appaltante) un’opera o un servizio verso un corrispettivo in denaro.
Il codice civile non contiene una definizione del contratto di subappalto.
Il subappalto non è consentito, salva autorizzazione, per iscritto, del committente (art.1656 c.c.). L’appalto è infatti un contratto fondato sull’ intuitus personae, per cui non è consentita una sostituzione non autorizzata del soggetto obbligato.
Qualora sia autorizzato, il subappalto è contratto derivato (o sub-contratto) e determina la derivazione da un determinato contratto di un altro contratto caratterizzato dal fatto di avere lo stesso contenuto economico e lo stesso tipo di causa di quello principale.
Con il subappalto, in particolare, l‘appaltatore affida ad un terzo (subappaltatore), in tutto o in parte, l’esecuzione del lavoro ad esso appaltato.
Il subappalto attiene, pertanto, all’esecuzione del contratto di appalto e non interferisce nel contratto principale.
La legge prevede una responsabilità solidale tra i soggetti che intervengono nel contratto di appalto (committente, appaltatore e subappaltatore).
Scopo della norma è coinvolgere tali parti nel controllo riguardo la effettuazione e il versamento dei contributi previdenziali, assicurativi, nonché delle ritenute fiscali, riferibili ai lavoratori che sono utilizzati nell’appalto stesso.
Scheda sintetica
L’appalto è il contratto con cui una parte (appaltatore) assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, l’obbligazione di compiere in favore di un’altra (committente o appaltante) un’opera o un servizio verso un corrispettivo in denaro. Nell’ordinamento italiano, il contratto d’appalto è regolato dagli articoli 1655 e seguenti del codice civile.
L’appalto si distingue quindi in maniera sostanziale dalla somministrazione, con la quale emergono precise differenze.
L’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 conferma i due requisiti fondamentali previsti dalla disciplina del codice civile per l’individuazione del contratto d’appalto genuino, vale a dire l’organizzazione dei mezzi necessari per l’esecuzione dell’appalto da parte dell’appaltatore e l’assunzione del rischio d’impresa da parte di quest’ultimo.
Tale norma introduce, tuttavia, un’ulteriore specificazione in merito al primo requisito per cui l’organizzazione dei mezzi può anche risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, in relazione all’opera o al servizio appaltato.
L’appalto può, quindi, ritenersi lecito, anche quando non sia necessario l’utilizzo di macchinari o attrezzature per lo svolgimento dell’attività appaltata, essendo sufficiente l’organizzazione e la direzione del personale da parte dell’appaltatore purché quest’ultimo, in ogni caso, si assuma il correlativo rischio d’impresa.
Per vigilare contro l’utilizzo illecito dell’appalto, ai lavoratori vengono garantite tutele sotto diversi punti di vista.
In particolare la sanzione per l’appalto illecito è la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in capo all’appaltante dall’inizio dell’appalto stesso.
E’ espressamente previsto che tutti gli atti e comportamenti dell’appaltatore fittizio siano imputabili all’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa, vale a dire al committente, per il quale la legge prevede precisi obblighi nei confronti dei lavoratori dell’appalto.
Quanto alle tutele dei lavoratori impiegati nell’ambito degli appalti genuini, la disciplina in materia di solidarietà è stata interessata da significative modifiche, che si sono sovrapposte nel corso del tempo.
In particolare, con l’entrata in vigore della cd. “Legge Biagi” è stata eliminata la regola della parità di trattamento in favore dei dipendenti delle imprese appaltatrici, pur confermando il regime di responsabilità solidale tra committente e appaltatore.
L’art. 1, comma 911, Legge 296/2006, senza distinguere tra appalti di opere o di servizi, ha successivamente ampliato il regime di responsabilità solidale tra committente (imprenditore o datore di lavoro) e appaltatore estendendolo a ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, per la corresponsione dei trattamenti retributivi e contributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto.
La norma, oltre ad allargare l’obbligazione solidale nei confronti di tutti i soggetti coinvolti nella filiera degli appalti, ha esteso la garanzia inerente al trattamento retributivo fino a due anni dalla cessazione dei lavori.
L’art. 21, co. 1 D.L. 5/2012, convertito con modifiche dalla legge 35/2012 ha ridisegnato il sistema di tutele, introducendo il beneficio per il committente, ove convenuto in giudizio per il pagamento, unitamente all’appaltatore, della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore.
Pertanto, il committente, ove abbia tempestivamente sollevato l’eccezione nella prima difesa in giudizio, non è più tenuto a rispondere fino a quando non sia dimostrata, nella fase esecutiva, l’infruttuosità del patrimonio del datore di lavoro.
Con l’entrata in vigore della legge 92/2012 di riforma del diritto del lavoro, sono state introdotte ulteriori modifiche.
In primo luogo è stata prevista la possibilità di deroga al regime di responsabilità solidale da parte della contrattazione collettiva nazionale di categoria, a cui è attribuito il potere di prevedere disposizioni differenti da quelle di legge che siano comunque finalizzate ad individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti. La disposizione citata ha inoltre confermato il beneficium excussionis e introdotto, al fine di consentire l’operatività della norma, la necessità di convenire in giudizio tutti i soggetti che hanno preso parte alla filiera dell’appalto (il committente, unitamente all’appaltatore e a tutti gli eventuali subappaltatori).
Con l’art. 9, co. 1, del D.L. 76/2013 (c.d. Pacchetto Lavoro), il legislatore ha chiarito che l’eventuale intervento delle parti sociali potrà avere effetto “esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto con esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi”. La norma in questione ha introdotto altre significative novità: da un lato, la tutela è stata estesa anche a favore dei lavoratori autonomi; dall’altro, è stata sancita l’inapplicabilità dell’art. 29 in relazione ai contratti d’appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art.1, comma 2 d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165.
Accanto al regime di solidarietà delineato, continua in ogni caso a sussistere l’azione diretta dei dipendenti dell’appaltatore nei confronti dell’appaltante per i trattamenti retributivi e quelli previdenziali non corrisposti dall’appaltatore, ma nei limiti del rapporto debitorio esistente, al momento dell’azione, tra committente e appaltatore (art. 1676 c.c.).
Inoltre sussistono diritti dei lavoratori in caso di sub ingresso di un nuovo appaltatore.
Su quest’ultimo punto, occorre richiamare la disciplina introdotta dal D.lgs. 23/2015 (Decreto attuativo Jobs act) che all’art. 7 ha previsto la possibilità di computare, in caso di subingresso di nuovo appaltatore, l’anzianità complessivamente maturata dal lavoratore adibito, in maniera continuativa, nell’ambito dell’attività appaltata, ma solo ai fini del calcolo dell’indennizzo dovuto in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento.
- Per ulteriori dettagli si veda la Scheda di approfondimento
- Si veda inoltre la parte relativa agli aspetti pratici di tutela dei lavoratori
Normativa
- Codice civile, artt. 1655 e segg.
- Decreto Legislativo 2015, n. 23 (art. 7)
- Decreto Legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito in Legge 9 agosto 2013, n. 99
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Legge 27 dicembre 2006, n. 296 (art. 1, commi 910 e 911)
- Decreto Legislativo 6 ottobre 2004, n. 251
- Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276
- Legge 14 febbraio 2003, n. 30
- Legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (Abrogata dal D.Lgs. 276/2003)
- Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori)
A chi rivolgersi
- Ufficio vertenze sindacale
- Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Scheda di approfondimento
Pur non essendo stata modificata la definizione codicistica dell’appalto di cui all’art. 1655 c.c., e pur essendo stato ribadito che gli elementi fondamentali di distinzione tra il contratto d’appalto d’opera o di servizi e il contratto di somministrazione di lavoro sono l’organizzazione dei mezzi necessari per l’esecuzione dell’appalto da parte dell’appaltatore e l’assunzione da parte del medesimo del rischio d’impresa, l’art. 29 introduce un ulteriore specificazione del concetto di “organizzazione dei mezzi necessari per l’esecuzione dell’appalto” per cui essa può anche “risultare, in relazione alle esigenze dell’opera del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto”.
Definizione quest’ultima che potrebbe dare adito ad un utilizzo elusivo della legge dopo la contestuale abrogazione della Legge 1369/60 che vietava l’intermediazione di manodopera, e che rende necessaria per distinguere tra appalto lecito e interposizione illecita da parte degli operatori un’analisi molto rigorosa della fattispecie, utilizzando anche i criteri per la individuazione dell’appalto illecito già elaborati dalla giurisprudenza sotto la vigenza della stessa Legge 1369/60.
La previsione normativa, introdotta dal primo comma, non può legittimare in alcun modo che l’organizzazione dei mezzi necessari per effettuare l’appalto possa consistere nel solo esercizio del potere organizzativo e disciplinare, senza che vi sia contemporaneamente, anche se in misura minima, l’utilizzo e l’organizzazione di attrezzature, conoscenze o capitali per lo svolgimento dell’attività appaltata, perché verrebbe meno l’altro requisito essenziale per la configurazione di un contratto d’appalto che è il rischio d’impresa o l’organizzazione imprenditoriale per lo svolgimento dell’attività appaltata, peraltro in violazione dell’art. 1, lett. m punto 7 della Legge 30/2003 e dell’art. 84 del D.Lgs. 276/2003 che pongono come punto fermo per la distinzione concreta tra interposizione illecita e l’appalto “genuino” la rigorosa verifica della reale organizzazione dei mezzi e dell’assunzione effettiva del rischio da parte dell’appaltatore.”.
L’interpretazione di tale norma non deve, quindi, legittimare l’ipotesi classica dell’interposizione di manodopera ove l’apporto dell’appaltatore consista nella sola ed esclusiva gestione di manodopera, perché ciò dilaterebbe oltre misura l’ipotesi di appalto, rendendo assolutamente residuale l’istituto della somministrazione di lavoro.
L’organizzazione dei mezzi deve essere, quindi, effettiva, e deve consistere non solo nell’organizzazione di manodopera, ma anche di mezzi quali capitale, strumenti, secondo gli indici già elaborati dalla giurisprudenza per l’art. 1 della Legge 1369/60.
Quindi, se è vero che l’apporto di attrezzature e strumenti da parte dell’appaltatore dipende dall’attività esercitata, e possono esistere imprese prive quasi di strutture materiali e che necessitano di un basso impiego di capitali e mezzi ma che portano know-how, software e, comunque, beni immateriali aventi valore preminente nell’appalto, come spesso accade nel settore informatico, la valutazione dell’adeguatezza dei mezzi impiegati per il raggiungimento di un risultato autonomo deve essere sempre e comunque messa in relazione all’apporto dell’appaltante che deve essere accessorio e marginale rispetto all’impiego dei mezzi organizzati dall’appaltatore per l’effettuazione dell’opera o del servizio appaltato.
A tale proposito si ricorda che la giurisprudenza ha sempre considerato come interposizione illecita l’appalto il cui oggetto consista nel mettere a disposizione del committente la prestazione lavorativa, cui resta la direzione tecnica, lasciando all’appaltatore solo compiti di gestione amministrativa del rapporto di lavoro quali la corresponsione della retribuzione, la tenuta dei turni presenza senza facoltà di scelta delle modalità e tempi di lavoro, l’assegnazione di ferie, in quanto ciò non comporta una reale organizzazione della prestazione finalizzata ad un risultato produttivo autonomo rispetto all’organizzazione del committente.
Quindi, devono sempre ritenersi in vigore per la sussistenza di un appalto lecito sia il criterio dell’organizzazione dei mezzi che deve essere adeguata al raggiungimento dell’autonomo risultato dell’attività appaltata, sia il criterio essenziale dell’assunzione del rischio economico che presuppone una propria organizzazione d’impresa con riguardo a quell’opera o servizio oggetto dello specifico appalto, con assunzione di tutti i costi che derivano dall’organizzazione e direzione reale dei mezzi da parte dell’appaltatore.
La specificazione in materia di appalti introdotta dal D.Lgs. 276/2003 comporta che l’appaltatore, anche se non utilizza propri macchinari, porti come contributo autonomo un proprio patrimonio di conoscenze, esperienze e professionalità nello svolgimento del servizio appaltato e di cui il committente è privo; ciò comporta che si debbano verificare anche altri elementi oltre quelli della configurazione del rapporto di lavoro, quali l’assetto dell’impresa anche dal punto di vista commerciale e del mercato con eventuale esame dei bilanci, degli eventuali utili, rapporto tra entrate e uscite, al fine di verificare l’imprenditorialità dell’attività esercitata in concreto con l’appalto.
Gli elementi che definiscono un appalto lecito, come delineati dal citato art. 84, sono particolarmente importanti per verificare se, dopo l’abrogazione della Legge 1369/60, alcuni appalti endoaziendali di servizi, quali quelli definiti leciti dagli ex artt. 3 e 5 della stessa Legge 1369/60 (appalti di manutenzione ordinaria o straordinaria, di pulizia, di facchinaggio), possano o meno essere considerati come appalti genuini.
In queste ipotesi dovrà, infatti, essere posta una maggiore attenzione nel verificare che le attività dedotte in appalto non facciano parte delle attività di core business dell’azienda e che l’appaltatore abbia una reale organizzazione di mezzi oltre ad assumersi concretamente il rischio di impresa.
In ogni caso la contrattazione nazionale di categoria, e la contrattazione aziendale potranno intervenire per stabilire obblighi di non ricorrere ad appalti per quelle attività o lavorazioni che rientrino nel normale ciclo produttivo dell’azienda o per lavori di manutenzione ordinaria.
Conseguenze dell’appalto illecito o interposizione illecita
L’appalto illecito porta automaticamente alla somministrazione irregolare di mano d’opera, con la conseguenza della costituzione di un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato tra l’utilizzatrice ed i lavoratori formalmente dipendenti dell’impresa appaltatrice: qualora, infatti, nell’ambito di un contratto formalmente qualificato come appalto la società appaltatrice non soddisfi i requisiti di autonomia imprenditoriale ed organizzativa sopra descritti che differenziano l’appalto dalla somministrazione, nella sostanza tale impresa altro non fa che somministrare dei lavoratori, non avendo però le debite autorizzazioni e requisiti, e, conseguentemente incorrendo nelle sanzioni previste dalla legge (art. 38, co. 1, D.lgs. 81/2015; già art. 21, co. 4, d.lgs. n. 276/2003).
Per quanto riguarda il concetto di “interposizione” lo stesso compare solamente nell’art. 84 del decreto – rubricato “interposizione illecita e appalto genuino”-, ove è previsto, da un lato, che gli organi di certificazione possono svolgere la propria opera anche in sede di stipulazione ed esecuzione degli appalti e, dall’altro, che gli indici presuntivi per distinguere appalto lecito da interposizione illecita siano contenuti in un decreto ministeriale, tenendo conto delle disposizioni in materia contenute nei contratti collettivi.
Analizzando quindi la nuova disciplina sembra che si possa agevolmente ricostruire in via interpretativa il concetto che l’interposizione illecita, in qualunque forma si sviluppi, sia ancora presente nel nostro ordinamento come figura che realizza un’ipotesi di somministrazione irregolare, che nel contesto del D.lgs. 276/2003 era sanzionabile civilmente ex art. 27, nonché sanzionabile sul piano penale e amministrativo ex art. 18 e infine, con ogni probabilità, di somministrazione per finalità fraudolente sanzionata ex art. 28.
Per i contratti stipulati a partire dal 25 giugno 2015, il regime sanzionatorio è quello delineato dagli artt. 38 – 40, d.lgs. 81/2015, relativo alle ipotesi di somministrazione nulla (allorquando il contratto di somministrazione non venga stipulato per iscritto) e somministrazione irregolare (qualora la somministrazione sia avvenuta al di fuori dei limiti e delle condizioni di cui agli artt. 31, 32 e 33 D.lgs 81/2015).
Le disposizioni da 20 a 28 del D.lgs 276/2003, nonché l’art. 18, co. 3 e 3 bis, sono state abrogate dall’art. 55 lett. d) del D.lgs.81/2015.
Si deve dare atto che la disciplina della somministrazione di cui al citato D.lgs. 81/2015 (artt. da 30 a 40) è ora completamente svincolata dalla sussistenza di ragioni legittimanti. I limiti residuali di utilizzo dell’istituto, in aggiunta alla forma scritta e agli elementi che devono essere specificati nel contratto (art. 33), sono individuati nel rispetto delle clausole di contingentamento, con rinvio alla contrattazione collettiva per l’individuazione dei limiti quantitativi (art. 31) e dei divieti tassativi di ricorso alla somministrazione (art. 32).
Inoltre, la riforma non contempla più la fattispecie della somministrazione fraudolenta, pur introducendo nuove sanzioni amministrative.
A ciò si aggiunga che, con i decreti legislativi 7/2016 e 8/2016, sono stati depenalizzati alcuni reati, tra cui quello di interposizione illecita.
In conclusione si può dire che il D.Lgs. 276/2003, nonché la disciplina introdotta dal D.lgs. 81/2015 (decreto attuativo del “jobs act” in materia di riordino delle tipologie contrattuali e revisione della normativa in materia di mansioni), che ha definitivamente liberalizzato l’istituto, pur rovesciandone la tecnica regolativa, ripropongono un regime non troppo diverso dal passato (salva la modifica quantitativa dell’area della somministrazione lecita): il titolare dell’organizzazione produttiva può lecitamente decentrare a terzi la gestione di fasi o parti della lavorazione solo mediante un genuino appalto (ovvero con altre forme contrattuali) la fornitura di lavoro in qualsiasi forma non può mai essere oggetto di un contratto lecito (di appalto o di altro genere), se non nel caso autorizzato e sottoposto a limiti della somministrazione regolare; ogni ipotesi di fornitura di lavoro, che non sia realizzata nelle forme (e col rispetto dei limiti) della somministrazione ex artt. 20 e 21 D.lgs 276/2003 (ora artt. 31, 32 e 33 del D.lgs. 81/2015), e non configuri un genuino appalto (o altro genere di genuino decentramento, o un distacco nei limiti definiti dall’art. 30), rappresenta una somministrazione irregolare, (sanzionata ex art. 27 D.lgs 276/2003, oppure ex artt. 38-40 D.lgs. 81/2015, a secondo della disciplina applicabile ratione temporis).
Si può quindi concludere che si può parlare di interposizione fittizia di manodopera in tutti quei casi in cui si ha una somministrazione irregolare di manodopera, cioè quando mancano i requisiti previsti dagli artt. 31, 32 e 33 del D.lgs. 81/2015 e in quei casi (contratti di appalto, di fornitura, rapporti di fatto tra imprese collegate, distacchi illeciti) in cui un datore di lavoro (imprenditore o non) si avvale direttamente delle prestazioni di lavoratori formalmente dipendenti da un altro soggetto giuridico.
Al di là di ogni valutazione critica in ordine alla scelta legislativa di ampliare la possibilità di fare ricorso alla fornitura di manodopera, se ne deduce che l’ordinamento ritiene ancora illecita, di per sé, la dissociazione tra utilizzazione della prestazione lavorativa e titolarità del rapporto di lavoro, a maggior ragione nel momento in cui propone di questa una versione lecita, autorizzata e regolata.
Sembra quindi che si possa tranquillamente dire che la somministrazione irregolare è anche interposizione illecita, e ogni caso di interposizione trova la propria sanzione nella disciplina della somministrazione irregolare, poiché all’elemento materiale della fornitura di manodopera si accompagna sempre quello della carenza di almeno una delle condizioni di liceità previste dalla legge.
Nell’ipotesi di costituzione del rapporto di lavoro con l’appaltante sin dall’inizio dell’appalto illecito la legge dispone che tutti gli atti e comportamenti dell’appaltatore sono da ritenersi imputabili all’appaltante sin dall’inizio del rapporto. Quindi anche atti quali il licenziamento, anche se formalmente comminati dall’appaltatore sono da ritenersi imputabili all’appaltante, con conseguente necessità per il lavoratore di impugnare il licenziamento nei confronti dell’appaltante, oltre che, per opportunità, nei confronti dell’appaltatore.
Inoltre le somme percepite dall’appaltatore debbono essere imputate a quelle dovute dall’appaltante sin dall’inizio del rapporto.
Tutele per i lavoratori negli appalti leciti
L’art. 1676 c.c. riconosce a favore dei dipendenti dell’appaltatore l’azione diretta nei confronti dell’appaltante per il pagamento dei trattamenti retributivi e previdenziali non corrisposti dall’appaltatore, fino a concorrenza del debito ancora dovuto dal committente verso l’appaltatore.
I diritti nascenti dall’art. 1676 possono pertanto esercitarsi nel limiti del debito esistente al momento di proposizione della domanda e si prescrivono nel normale termine di 5 anni, facendo presente che la norma si riferisce ai crediti di qualsiasi natura, anche non retributiva, purché relativi all’esecuzione dei lavori affidati in appalto.
Pertanto, quando si versi in una controversia per il pagamento delle retribuzioni maturate, il committente non potrà esonerarsi dal pagamento ai sensi dell’art. 1676 c.c. sollevando eccezioni legate ai rapporti intercorrenti con l’appaltatore.
In altre parole, il committente non potrebbe rifiutarsi di versare le retribuzioni dovute in ragione del blocco dei pagamenti (ad esempio, la sospensione dei pagamenti in edilizia è correlata alle irregolarità contributive nei confronti delle Casse Edili territoriali), posto che il lavoratore è titolare di un’azione diretta e autonoma rispetto ai rapporti intercorrenti tra i soggetti che operano a diverso titolo nell’ambito dell’appalto.
Tutele più stringenti sono riconosciute dall’art. 29, D.Lgs. 276/2003.
Infatti, la legge finanziaria per l’anno 2007 ha introdotto una modifica normativa di particolare pregio, riformulando l’art. 29, D.Lgs. 276/2003, nel senso di responsabilizzare i committenti di lavori affidati in appalto, con l’intento di ostacolare fenomeni difficilmente controllabili in realtà caratterizzate da un elevato decentramento produttivo e da condizioni di lavoro spesso non in linea con le previsioni di legge e contratto (caporalato, irregolarità dei rapporti di lavoro, assenza di misure minime di sicurezza…).
L’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 (come modificato dal decreto correttivo 251/2004, dalla legge 296/06 e, infine, dalla legge 92/2012), senza più distinguere tra appalto di opere e servizi, prevede infatti la responsabilità solidale del committente (imprenditore o datore di lavoro) con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori, per il pagamento dei trattamenti economici e previdenziali dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto, purché l’azione sia promossa entro due anni dalla scadenza dell’appalto.
Di recente il legislatore ha peraltro chiarito che le disposizioni di cui all’art. 29 si applicano anche in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo, mentre non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, del d.lgs. 165/2001 (art. 9, co. 1, D.L. 76/2013).
La riforma del 2012 ha precisato che per far valere la responsabilità solidale è necessario convenire in giudizio sia il committente, sia l’appaltatore sia tutti i subappaltatori.
Si tratta di un’ipotesi di litisconsorzio necessario (solo processuale), che pone problematiche applicative in caso di fallimento di uno dei debitori solidali (sul punto, si segnalano indirizzi giurisprudenziali contrastanti; per alcuni, tale situazione determina l’interruzione del processo, dato che il litisconsorzio necessario non consente che il giudizio si svolga in assenza di una delle parti , né che il ricorrente possa rinunciare alla propria domanda nei confronti di uno dei soggetti (v. Tribunale di Milano, 24 novembre 2013). Secondo un diverso orientamento, non prevale il litisconsorzio necessario e il processo si interrompe solo nei confronti del soggetto fallito, con possibilità di proseguire il giudizio nei confronti dei soggetti in bonis davanti al giudice del lavoro (v. Tribunale di Pavia, ordinanza 28 luglio 2015).
La stessa legge ha, inoltre, introdotto la possibilità per il committente di eccepire (entro la prima difesa) il cd. beneficio di preventiva escussione. In tal caso, il lavoratore può chiedere il pagamento a quest’ultimo o iniziare una procedura esecutiva nei suoi confronti solo a condizione che il patrimonio dell’appaltatore e di tutti i subappaltatori non abbiano soddisfatto il credito residuo.
La previsione di un termine, entro cui far valere il beneficio di preventiva escussione, suggerisce la seguente interpretazione: qualora il committente non sollevi l’eccezione nella memoria di costituzione e risposta, non potrà più proporre opposizione una volta iniziata l’azione esecutiva nei suoi confronti (tornando così a operare pienamente la regola generale in materia di obbligazioni solidali, che consente al creditore di agire per l’intero contro ciascuno degli obbligati in solido).
Pur non essendo previsto l’obbligo di riconoscere i trattamenti retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva di settore, un orientamento giurisprudenziale riconosce il diritto di adeguare le somme corrisposte a titolo di retribuzione secondo i principi di proporzione e sufficienza, così da rivendicare, anche nei confronti del committente, l’adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 della Costituzione.
A seguito dell’entrata in vigore della legge 92/2012, tale disciplina è nuovamente derogabile attraverso la contrattazione collettiva nazionale di categoria. Quest’ultima può, infatti, prevedere disposizioni che modifichino il regime legale, purché siano comunque finalizzate a individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti.
Il D.L. 76/2013 (c.d. Pacchetto Lavoro) ha precisato che l’eventuale intervento delle parti sociali potrà comunque avere effetto “esclusivamente in relazione ai trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto con esclusione di qualsiasi effetto in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi” (art. 9, co. 1).
Resta inoltre ferma l’esclusione della responsabilità solidale qualora il committente sia una persona fisica che non eserciti attività d’impresa o professionale.
L’obbligazione solidale non si applica neppure nel caso in cui i lavori siano stati commissionati da un Condominio, trattandosi, secondo la qualificazione giurisprudenziale, di un “ente di gestione” non riconducibile al concetto di impresa.
Nessun ostacolo all’applicazione della norma si avrà invece nel caso in cui il committente sia un’impresa immobiliare.
Nella medesima direzione di garantire tutele in contesti produttivi caratterizzati da frammentarietà del lavoro, l’art. 1, comma 910, legge Finanziaria 2007, ha introdotto la responsabilità solidale tra committente, appaltatore e ciascuno dei singoli subappaltatori, per il risarcimento di tutti i danni causati ai lavoratori impiegati nell’appalto, nel caso di infortuni o di malattie professionali provocati dalla mancata o insufficiente adozione di misure di sicurezza e/o antinfortunistiche.
L’applicabilità delle tutele economiche e normative previste dall’art. 29, D.Lgs. 276/2003, nei confronti delle pubbliche amministrazioni è stata definitivamente esclusa ad opera della riforma del 2013 (vedi infra “la responsabilità solidale negli appalti pubblici”). Infatti, l’art. 9, co. 1 del d.l. 76/2013 ha disposto che la garanzia di cui all’art. 29 non trova applicazione nei confronti dei contratti di appalto stipulati dalle pubbliche amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
La formulazione della norma (contenente il richiamo espresso al T.U. in materia di pubblico impiego) consente di ritenere che tale esclusione operi soltanto nei confronti delle amministrazioni dello Stato in senso stretto, restando invece escluse le società a partecipazione pubblica.
Gli appalti nel settore edile
L’introduzione di tutele specifiche per i lavoratori impiegati in edilizia trova giustificazione nelle peculiari condizioni di un settore qualificato da un’organizzazione del lavoro estremamente flessibile, che si sviluppa su cantieri mobili o temporanei.
Il contratto collettivo edili ed affini riconosce importanti diritti di comunicazione in capo ai dirigenti delle rappresentanze sindacali unitarie.
In particolare, l’art. 14 CCNL prevede, entro 15 giorni dall’inizio dei lavori, il diritto di ricevere informazioni relative a:
- denominazione dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice
- indicazione delle opere appaltate o subappaltate
- durata presumibile dei lavori
- numero dei lavoratori che verranno occupati.
Le comunicazioni dovrebbero consentire un controllo in ordine alla regolarità e trasparenza degli appalti, tanto più efficace laddove vengano trattati appalti pubblici, necessariamente rispondenti a regole e principi di cui al T.U. 163\06.
Proprio nel settore degli appalti pubblici, il diritto di richiedere e ricevere informazioni trova specifico fondamento nel principio di accesso agli atti amministrativi di cui alla legge 241/1990, nonché nell’art. 26 T.U. in materia di sicurezza sul lavoro (D.Lgs. 81/2008 pubblicato in Gazzetta Ufficiale 30 aprile 2008) ove al comma 6 viene stabilito che “nella predisposizione delle gare d’appalto e nella valutazione dell’anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo della sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture”.
Queste verifiche in ordine alla regolarità degli appalti (mediante l’esibizione da parte del committente pubblico, nonché possibilità di estrarre copia, dei contratti in essere) assumono rilevanza per le Organizzazioni Sindacali impegnate nell’azione di tutela dei lavoratori e sono pertanto oggetto di comunicazione ai sensi della normativa in tema di diritto di accesso agli atti amministrativi.
Sul versante delle tutele individuali, il contratto collettivo per i lavoratori edili istituisce una garanzia ulteriore, stabilendo un regime di responsabilità solidale intercorrente tra impresa appaltante, o subappaltante, con l’impresa appaltatrice, in ordine al pagamento del trattamento economico e normativo dovuto ai lavoratori adibiti alle opere effettuate sul cantiere.
L’azione deve essere promossa nel termine di decadenza di 6 mesi dalla cessazione dei lavori.
Fino all’introduzione delle recenti modifiche normative, l’art. 14 CCNL edili, prendendo in considerazione l’ultimo anello del decentramento produttivo, ovvero i dipendenti dei subappaltatori presenti sul cantiere, costituiva una garanzia senza precedenti a favore dei lavoratori meno tutelati, tenuto conto delle minori garanzie di solvibilità delle imprese esecutrici e di condizioni di lavoro spesso al di sotto dei minimi inderogabili di legge e contratto.
In seguito all’introduzione delle novità legislative, che hanno modificato il regime di solidarietà ex art. 29 D.lgs. 276/03, trasformando l’obbligazione solidale in obbligazione sussidiaria, l’art. 14 è tornato a svolgere funzione di norma speciale, che integra la disciplina, per certi aspetti meno garantista, dell’art. 29, D.lgs. 276/2003.
Tale previsione contrattuale introduce una norma di maggior favore rispetto al regime legale , volta a tutelare più intensamente, nell’ambito di lavoratori impiegati negli appalti, quelli addetti alle lavorazioni edili, in relazione alle peculiarità del settore.
Si rammenta che sul piano dei rapporti di gerarchia tra le fonti, il contenuto di norme di legge può essere derogato dalla contrattazione collettiva, qualora il contratto contenga norme più favorevoli per il lavoratore .
Appalti e trasferimento d’azienda. L’art. 29, 3 comma, D.Lgs. 276/2003
Il D.Lgs. 276/2003 disciplina l’appalto nell’ambito delle diverse forme di esternalizzazione del ciclo produttivo.
Un caso particolare riguarda la regolamentazione dei rapporti di lavoro facenti capo all’impresa appaltatrice nel caso di ingresso nel contratto di un nuovo appaltatore (successione nella titolarità dell’appalto).
L’art. 29, comma 3, esclude espressamente l’ipotesi di trasferimento d’azienda in caso di acquisizione del personale già impiegato nel precedente appalto da parte del nuovo appaltatore. Conseguentemente il lavoratore non potrà rivendicare il diritto alla conservazione del precedente trattamento economico e normativo previsto dai contratti nazionali e aziendali vigenti alla data di trasferimento e fino alla loro scadenza.
Tale disposizione è in evidente contrasto con la direttiva CEE in materia di trasferimento d’azienda e con l’interpretazione in materia elaborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Si deve, pertanto, necessariamente rivendicare anche giudizialmente la conservazione del precedente trattamento economico e normativo, invocando la violazione della direttiva CEE sui trasferimenti d’azienda e la rimessione alla Corte di Giustizia europea.
Nella versione originaria del D.Lgs. 276/2003, in caso di cessione di ramo d’azienda e contestuale contratto d’appalto, nei confronti dei dipendenti dell’impresa appaltatrice era previsto, tra cedente e cessionario, un regime di responsabilità solidale nei limiti dell’art. 1676 c.c., poi sostituito dal D.Lgs. 251/2004 nell’obbligazione solidale di cui all’art. 29, secondo comma.
Aspetti pratici sulla tutela dei lavoratori
Si è già detto che l’appalto è legittimo se il datore di lavoro appaltatore disponga di un’organizzazione dei mezzi necessari a compiere un’opera o un servizio, la gestione dei mezzi sia a suo rischio e egli eserciti un potere organizzativo e disciplinare nei confronti dei lavoratori impiegati nell’appalto.
In sostanza si può dire che l’appaltatore deve essere un imprenditore vero. Ne consegue che in assenza di queste condizioni si verifica una somministrazione irregolare di mano d’opera, che può essere impugnata avanti al giudice del lavoro.
La mancanza di queste condizioni consente cioè di agire in giudizio per ottenere l’assunzione diretta in capo alla società che ha utilizzato di fatto i lavoratori.
Queste argomentazioni trovano fondamento nel divieto di interposizione fittizia, tuttora vigente nonostante l’abrogazione della Legge 1369/60.
Il principio secondo cui il lavoratore debba considerarsi alle dirette dipendenze dell’imprenditore che utilizzi effettivamente la sua prestazione è imposto dalla definizione stessa di lavoro subordinato, per tutte le fattispecie non riconducibili a somministrazione o appalto lecito.
Questa ricostruzione dei fenomeni interpositori è l’unica coerente con la nozione di subordinazione delineata dall’art. 2094 c.c., trattandosi della forma comune e più diffusa dei rapporti di lavoro riconducibili ai tipi della subordinazione.
La prestazione di lavoro subordinato è infatti qualificata dall’utilizzo diretto della prestazione, con pieno inserimento del lavoratore nel contesto organizzativo d’impresa; il rapporto di lavoro viene pertanto accertato, in sede giudiziale, secondo i principi che presiedono il procedimento di qualificazione e che impongono di ricondurre le caratteristiche del rapporto alla tipologia negoziale effettivamente realizzatasi tra le parti.
Il divieto di utilizzare manodopera altrui, al di fuori dei casi espressamente consentiti, è quindi corollario della fattispecie lavoristica fondamentale.
Riepilogando le tutele di natura economica previste nell’ambito di genuini contratti d’appalto, si menziona la solidarietà tra appaltante appaltatore e subappaltatori riguardo alla corresponsione dei trattamenti retributivi e contributivi a favore dei lavoratori che hanno prestato la propria attività per la realizzazione dell’appalto, ma entro il limite di due anno dal temine dell’appalto.
I dipendenti del subappaltatore possono quindi agire, anche nei confronti del committente, per il pagamento delle retribuzioni o dei contributi previdenziali.
Rimane ferma, nei confronti del solo datore di lavoro, la prescrizione rispettivamente quinquennale e decennale del diritto del lavoratore alla denuncia di evasioni retributive e contributive.
Decorsi i due anni dalla cessazione dell’appalto, i lavoratori potranno ancora esperire l’azione ai sensi dell’art. 1676 c.c. (la cui prescrizione è quinquennale) per il pagamento dei crediti maturati, a qualsiasi titolo, durante l’esecuzione dell’appalto, fino a concorrenza di quanto ancora dovuto dal committente all’appaltatore nel momento in cui i lavoratori agiscono in giudizio.
Sul rapporto tra appalto e trasferimento d’azienda, occorre precisare che la nuova norma esclude che in caso di cambio di appalto si debba applicare la procedura prevista in caso di trasferimento d’azienda.
Va quindi tenuta in conto la previsione della contrattazione collettiva per il cambio di appalto con particolare riferimento a settori quali ristorazione collettiva, pulizie, etc.
La tutela dei lavoratori assunti da imprese appaltatrici è articolata in due fasi distinte, la prima di natura sindacale la seconda di natura vertenziale/legale.
Come nel caso della somministrazione è indispensabile l’esercizio dei diritti di informazione da parte della RSU e dell’organizzazione sindacale di categoria.
Quindi in primo luogo è necessaria la verifica da parte della RSU e dell’organizzazione sindacale di categoria del rispetto delle norme in materia di appalto previste dalla contrattazione collettiva.
Anche in materia di appalto è possibile per il sindacato attivare causa per comportamento antisindacale (art. 28 Legge 300/1970 Statuto dei lavoratori) qualora siano violati i diritti di informazione comunque previsti dai CCNL.
A tal fine è opportuno raccogliere durante lo svolgimento del rapporto elementi probatori in particolare riguardo:
- alle modalità di svolgimento del rapporto di lavoro (chi organizza l’attività del lavoratore ed in cosa consiste, se questi risponde direttamente all’appaltante o all’appaltatore riguardo le modalità di svolgimento del proprio lavoro ed anche riguardo gli aspetti normativi del rapporto di lavoro);
- la proprietà dei mezzi di produzione, se è in capo all’appaltante o all’appaltatore;
- notizie circa i trattamenti retributivi e normativi applicati ai dipendenti dell’impresa appaltante e di quella appaltatrice.
Differenza tra appalto e somministrazione
L’art. 29 D.Lgs. 276/2003 distingue dalla somministrazione il contratto d’appalto, disponendo che quest’ultimo si differenzia dal primo in quanto l’appaltatore provvede alla organizzazione dei mezzi necessari all’appalto stesso.
La norma precisa che l’organizzazione dei mezzi può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio appaltato, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratore utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte dell’appaltatore, del rischio d’impresa.
Ciò significa che l’appalto di servizi deve necessariamente caratterizzarsi per la fornitura di un qualcosa in più, che non può consistere nella semplice direzione dei lavori e che determina la sussistenza di una soglia minima di imprenditorialità dell’appaltatore: come si è visto, infatti, la norma dispone che in ogni caso quest’ultimo deve assumersi il rischio d’impresa.
In buona sostanza, l’attività organizzativa non può esaurirsi nell’assunzione, gestione amministrativa e direzione dei lavoratori, né nell’assunzione da parte dell’appaltatore del solo rischio relativo alle vicende dei rapporti di lavoro.
Piuttosto, l’appalto genuino presuppone che l’organizzazione e la direzione dei lavoratori coinvolti siano espressione di un vero imprenditore, che utilizzi in piena autonomia un preciso e identificabile patrimonio di conoscenze, esperienze, professionalità del quale il committente sia privo.
In tal senso, assumono per esempio rilevanza l’attività di selezione e formazione del personale impiegato, o la regolarizzazione dei lavoratori dell’appalto, o il rispetto delle norme di sicurezza sul lavoro e prevenzione degli infortuni.
Obblighi del committente nei confronti dei lavoratori dell’appalto
Il contratto di appalto è disciplinato dagli artt. 1655 e seguenti del codice civile.
In particolare, l’art. 1676 c.c. prevede la possibilità per coloro che, alle dipendenze dell’appaltatore, hanno fornito la loro attività, per eseguire l’opera o per prestare il servizio oggetto dell’appalto, di agire nei confronti del committente per ottenere quanto è loro dovuto, ma ciò solo nei limiti del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel momento in cui viene proposta la domanda.
L’art. 29, comma 2, D.Lgs. 276/2003 ha rafforzato la tutele già esistenti.
I lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore o dei subappaltatori possono infatti agire anche nei confronti del committente per ottenere i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti, e ciò indipendentemente dalla sussistenza di crediti dell’appaltatore nei confronti del committente, purché l’azione sia promossa entro due anni dalla cessazione dell’appalto.
In ogni caso, i contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati dai sindacati dei lavoratori comparativamente più rappresentativi, possono introdurre disposizioni diverse da quelle previste dalla legge, qualora siano finalizzate ad individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti.
La previsione normativa da ultimo citata non trova applicazione qualora il committente sia una persona fisica che non esercita attività di impresa o professionale (art. 29, comma 3-ter, D.Lgs. 276/2003).
Diritti dei lavoratori di un appalto nel caso di sub ingresso di un nuovo appaltatore
Il sub ingresso di un nuovo appaltatore non impone di per sé il passaggio dei lavoratori addetti all’appalto alle dipendenze del nuovo appaltatore.
Solamente alcuni contratti collettivi prevedono che, in un caso come questo, il passaggio debba necessariamente avvenire.
Quando non sia applicabile una simile norma contrattuale, dunque, il lavoratore potrà essere impiegato in un altro appalto, sempre che vi siano posizioni lavorative vacanti.
Nel caso in cui si verificasse il passaggio dei lavoratori dal precedente appaltatore a quello subentrante, per espressa disposizione dell’art. 29 c. 3 D.Lgs. 276/2003 non è applicabile la disciplina del trasferimento d’azienda o di un suo ramo.
Ciò significa che il passaggio può avvenire senza riconoscere l’anzianità del lavoratore, o la sua retribuzione o il suo livello di inquadramento.
In ogni caso, ai sensi dell’art. 2112 c.c., nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto d’appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’art. 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276.
Naturalmente, il contratto collettivo può prevedere condizioni di miglior favore, disponendo per esempio che il rapporto debba proseguire a parità di condizioni.
Da ultimo, si segnala che l’introduzione del contratto di lavoro a tutele crescenti (intendendosi per tale il regime sanzionatorio applicabile, ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, in caso di licenziamento illegittimo), ha inciso sulle tutele applicabili al personale coinvolto nel cambio appalto.
Al fine di garantire la continuità occupazionale, si è detto che i contratti collettivi di alcuni settori possono prevedere clausole sociali, aventi per oggetto l’obbligo di assunzione del personale già impiegato nell’appalto, in capo al soggetto che subentra nell’appalto.
In caso di licenziamento illegittimo, il lavoratore adibito in maniera continuativa ad un medesimo appalto potrà computare l’anzianità complessiva, ai fini del calcolo dell’indennizzo dovuto a titolo di risarcimento, facendo riferimento a tutto il periodo in cui è stato impiegato nell’attività appaltata, ma tale anzianità non risulta utile ai fini dell’applicazione delle tutele precedenti all’entrata in vigore del D.lgs. 23/2015.
Responsabilità solidale negli appalti pubblici
Nell’ambito degli appalti pubblici, la possibilità di azionare la responsabilità solidale ai sensi dell’art. 29, D.Lgs. 276/2003, nei confronti della p.a. committente, era questione controversa, sino alla riforma di cui al d.l. 28 giugno 2013, n. 76.
Infatti, la disposizione citata ha definitivamente chiarito che la tutela della responsabilità solidale non si applica rispetto agli appalti commissionati da una pubblica amministrazione. Si è detto che l’esclusione opera nei confronti della pubblica amministrazione in senso stretto, intendendosi per tale tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti, le scuole, le Regioni, le Province, i Comuni, le istituzioni universitarie, le camere di commercio, gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, il servizio sanitario nazionale.
Soluzione diversa deve invece essere adottata per le società per azioni a partecipazione pubblica. Come è stato correttamente rilevato dalla giurisprudenza di merito (Corte d’Appello di Firenze, 06/10/2015), la solidarietà si applica alle imprese private, seppur soggette alla disciplina del codice degli appalti, proprio perché la deroga alla solidarietà deve intendersi limitata alla pubblica amministrazione di cui al T.U. 165/2001. Tale preciso riferimento non consentirebbe l’interpretazione estensiva della norma, anche nei confronti di soggetti formalmente privati.
Si è inoltre discusso se l’art. 9, co. 1. L. 99/2013 sia norma di interpretazione autentica (e in tal caso avrebbe efficacia retroattiva) oppure se tale previsione debba essere considerata alla stregua di una novella legislativa (ius superveniens ), con conseguente applicazione soltanto nei confronti delle fattispecie successive all’entrata in vigore della norma medesima. Dovendo ritenere preferibile questo secondo orientamento, secondo cui l’art. 9 delimita il nuovo ambito di applicazione della norma (non essendovi, per converso, alcun elemento che consenta di presumere che si tratti di legge interpretativa), si ritiene possibile continuare ad azionare la responsabilità solidale della pubblica amministrazione committente per i contratti di appalto che abbiamo avuto esecuzione prima del 28 giugno 2013.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di appalto
In genere
- Secondo la disciplina di cui alla L. n. 1369 del 1960, l’interposizione illecita va esclusa quando l’appaltatore utilizza una propria organizzazione e gestisce direttamente i rapporti di lavoro ed i requisiti dell’appalto lecito vengono individuati nella organizzazione propria dell’appaltatore e nella assunzione di questi del rischio di impresa per il conseguimento di un autonomo risultato produttivo, mentre ai sensi dell’art. 29, D.Lgs. n. 276 del 2003, l’appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera è lecito purché il requisito della organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell’appaltatore, senza che l’appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell’appaltatore e il requisito della organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, previsto dal citato art. 29, può essere individuato, in presenza di particolari esigenze dell’opera o del servizio, anche nell’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nel contratto (respinta, nella specie, la richiesta avanzata da alcuni autisti che sostenevano di avere operato direttamente per la società appaltante, non risultando provata l’ingerenza della società appaltante, atteso che essa si era solo limitata a standardizzare il servizio che, essendo svolto su tutto il territorio nazionale, doveva rispondere a parametri di omogeneità e qualità). (Cass. 3/11/2020 n. 24386, ord., Pres. Nobile Est. Cinque, in Lav. nella giur. 2021, 199)
- Successione negli appalti di call-center: la disciplina speciale del 2016 non comporta l’obbligo di accettare l’assunzione presso il nuovo appaltatore.
La normativa sul cambio di appalto per i call-center di cui all’art. 1, comma 10, l. n. 11/2016 e all’art. 53 CCNL Telecomunicazioni, prevede una tutela aggiuntiva per i lavoratori ma non dispone una successione automatica del rapporto di lavoro in capo al nuovo appaltatore. Per i lavoratori che non sono stati assunti dall’impresa subentrante deve essere applicata la disciplina dei licenziamenti collettivi, e i criteri di scelta vanno applicati considerando anche la possibilità di essere adibiti su altri appalti, anche ove sia necessaria una contenuta attività di addestramento. La mancata accettazione dell’assunzione da parte del subentrante, motivata dalla scarsa consistenza di tale impresa, non può costituire criterio di scelta nei licenziamenti per riduzione del personale, da parte dell’impresa uscente. (Trib. Roma 15/5/2020, Giud. Pucci, in Wikilabour, Newsletter 10/2020) - È applicabile in via analogica al subfornitore per i crediti retributivi e contributivi dei lavoratori dipendenti il regime di responsabilità solidale tra committente e appaltatore o subappaltatore previsto dall’art. 29, comma 2 del d.lgs. n. 276/2003. (Cass. 5/3/2020 n. 6299, Pres. Manna Rel. Mancino, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di M. Lovo, “Applicazione analogica della responsabilità solidale tra committente e appaltatore per i crediti retributivi e contributivi dei lavoratori: quali limiti?”, 481)
- Il lavoratore licenziato per cessazione dell’appalto può impugnare il licenziamento nei confronti dell’impresa uscente, anche se assunto dalla società subentrante in forza della previsione della contrattazione collettiva di passaggio diretto dei dipendenti.
Il Tribunale di Bologna riconosce la legittimità dell’azione di impugnazione del licenziamento esperita da una lavoratrice nei confronti dell’azienda uscente da un contratto di appalto, a seguito del licenziamento motivato con la cessazione dell’appalto. Il Tribunale esclude che la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro con la società subentrante nell’appalto, in attuazione di previsione della contrattazione collettiva, possa pregiudicare tale azione o configurare un’implicita rinuncia a impugnare il licenziamento. (Trib. Bologna 4/3/2020, Giud. Pugliese, in Wikilaboour, Newsletter n. 8/2020) - Appalti pubblici: l’obbligo per gli affidatari di applicare la contrattazione collettiva di settore stipulata dalle organizzazioni sindacali più rappresentative non è in contrasto con la Costituzione.
L’art. 30 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 150/2016) impone alle imprese appaltatrici di applicare la contrattazione collettiva stipulata dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative del settore, e tale obbligo sussiste anche a prescindere da una previsione in tal senso del bando e dell’appalto. L’obbligo di applicazione di trattamenti migliorativi, rispetto a quelli previsti dal CCNL applicato dall’impresa appaltatrice (nel caso, quelli del CCNL Terziario confederale, rispetto al CCNL intersettoriale Conflavoro PMI) non contrasta né con l’art. 39 né con l’art. 41 della Costituzione. (Trib. Firenze 28/1/2020, Giud. Nuvoli, in Wikilabour, Newsletter n. 8/2020) - In tema di appalto di opere e servizi, il termine di decadenza di due anni previsto dall’art. 29, co. 2, d.lgs. n. 276/2003 non è applicabile all’azione promossa dagli enti previdenziali nei confronti del committente essendo la stessa soggetta al solo termine di prescrizione. (Cass. 14/11/2019, Pres. Manna Est. Berrino, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di P. Tosi e E. Puccetti, “Gli oneri previdenziali del committente tra solidarietà e intermediazione”, 327)
- In caso di appalto illegittimo, l’azione dell’ente previdenziale volta all’accertamento della sussistenza in fatto di un rapporto di lavoro subordinato tra il lavoratore ed il committente trova la sua causa petendi nell’art. 2094 c.c. e non nell’art. 29, co. 3-bis, d.lgs. n. 276/2003 che, comunque, nel suo riferimento al solo lavoratore non preclude la legittimazione degli enti previdenziali stante la nullità degli atti interpositori. (Cass. 14/11/2019, Pres. Manna Est. Berrino, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di P. Tosi e E. Puccetti, “Gli oneri previdenziali del committente tra solidarietà e intermediazione”, 327)
- È compatibile con le direttive comunitarie in tema di appalti, nonché con i principi di parità di trattamento e trasparenza in esse contemplati, un assetto nel quale la mancata indicazione separata dei costi della manodopera comporta l’esclusione dell’impresa, senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicare i suddetti costi separatamente non fosse specificato nella documentazione della gara d’appalto. Tuttavia, se le disposizioni della gara d’appalto non consentono agli offerenti di indicare i costi in questione nelle loro offerte economiche, i principi di trasparenza e di proporzionalità offrono all’amministrazione la possibilità di far sanare alle imprese la situazione e di ottemperare agli obblighi previsti dalla legislazione nazionale in materia entro un termine stabilito dalla stessa amministrazione. (Corte di Giustizia 2/5/2019 C-309/18, Pres. Jurimae Est. Escobar, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di C. Macchione, “La Corte di giustizia torna a pronunciarsi in tema di appalti pubblici sulla questione della mancata indicazione dei costi per la manodopera”, 678)
- Nell’ipotesi di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi non esiste un diritto dei lavoratori licenziati dall’appaltatore cessato al trasferimento automatico all’impresa subentrante, atteso che, per l’applicazione dell’art. 2112 c.c. occorre accertare in concreto il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all’attività di impresa, o almeno del know-how o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad un gruppo di dipendenti, altrimenti ostandovi il disposto dell’art. 29, co. 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, non in contrasto, sul punto, con la giurisprudenza eurounitaria che consente, ma non impone, di estendere l’ambito di protezione dei lavoratori di cui alla direttiva n. 2001/23/CE ad ipotesi ulteriori rispetto a quella del trasferimento di azienda. (Cass. 29/3/2019 n. 8922, Pres. Bronzini Est. Patti, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di G. Spinelli, “Successione di un imprenditore a un altro nell’appalto di servizi. I requisiti dell’art. 2112 c.c.”, 471)
- Non vi è alcuna contraddizione né incompatibilità tra l’impugnazione del licenziamento per cessazione dell’appalto e l’azione diretta ad ottenere l’applicazione della clausola sociale e l’assunzione presso l’appaltatore subentrante. Né l’accettazione della nuova assunzione integra acquiescenza al licenziamento o equivale alla rinuncia ad impugnare il recesso. (Corte app. Milano 20/2/2019 n. 72, Pres. Vitali Est. Casella, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di G. Marchi, “Clausole sociali di riassunzione e impugnazione del licenziamento”, 424)
- In ipotesi di successione nell’appalto, il fatto costitutivo del diritto all’assunzione alle dipendenze del nuovo appaltatore non è la risoluzione del precedente contratto di lavoro, ma l’adibizione del lavoratore all’appalto da un determinato periodo di tempo. (Corte app. Milano 20/2/2019 n. 72, Pres. Vitali Est. Casella, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di G. Marchi, “Clausole sociali di riassunzione e impugnazione del licenziamento”, 424)
- La richiesta stragiudiziale di pagamento delle retribuzioni arretrate, effettuata prima del fallimento della società appaltatrice, è sufficiente a integrare i requisiti per l’operatività dell’art. 1676 c.c., costituendo un vincolo di indisponibilità sul credito dell’appaltatore, ancorché il committente abbia versato in sede fallimentare il corrispettivo per l’appalto. (Corte app. Venezia 25/1/2019 n. 687, Pres. e Est. Alessio, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di A. Nicolussi Principe, “Tutela dei lavoratori ex art. 1676 c.c. e fallimento dell’appaltatore”, 435)
- Un bando di gara relativo ad appalto di servizi non può prevedere la semplice messa a disposizione di un pacchetto di ore di lavoro in favore di un terzo, reso da addetti coordinati dal soggetto che riceve la prestazione. Tale operazione, infatti, configura una somministrazione di personale che, in quanto tale, può essere realizzata solo dalle agenzie per il lavoro autorizzate a tale scopo dal ministero del Lavoro. (Cons. St. 12/3/2018 n. 1571, Pres. Balucani Est. Pescatore, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di M. Barberio, “L’appalto di servizi alla ricerca del tipo perduto”, 475)
- In ipotesi di sussistenza di appalto illecito di manodopera, il lavoratore che ha ottenuto il ripristino del rapporto di lavoro ha diritto alla retribuzione e non al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro, costituito in mora, che non ottempera all’ordine giudiziale di riammissione in servizio. (Cass. SU 7/2/2018 n. 2990, Pres. Rordorf Est. D’Antonio, in Riv. it. dir. lav. 2018, con nota di G. Sottile, “Sulla natura retributiva delle somme spettanti al lavoratore riammesso in servizio al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 18, l. n. 300/1970: il cambio di rotta delle Sezioni Unite in attesa della Corte Costituzionale”, 599)
- In caso di successione nell’appalto di servizi la mera riduzione quantitativa dei servizi appaltati non comporta discontinuità d’impresa ai sensi dell’art. 29, comma 3, d.lgs. 276/2003 come modificato dall’art. 30, l. 7 luglio 2016, n. 122, con conseguente applicazione dell’art. 2112 c.c. (fattispecie successiva alla modifica dell’art. 29, d.lgs. 276/2003 a opera dell’art. 30 della l. 7 luglio 2016, n. 122). (Trib. Bologna 7/7/2017, n. 5941, Est. Sorgi, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di L. A. Cosattini, “Successione negli appalti, cambia la legge ma non la sostanza: decisive l’identità e la continuità della gestione”, 15)
- Deve escludersi che la fattispecie relativa al cambio di appalto rientri in quelle previste dall’art. 32, c. 4, della l. n. 183 del 2010, con conseguente insussistenza dell’obbligo di impugnativa nel termine di 60 giorni imposto del licenziamento comunicato dal precedente datore di lavoro. (Cass. 25/5/2017, n. 13179, Pres. Napoletano Est. Curcio, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2018, con nota di F. Aiello, “Decadenza: ‘cambio appalto’ e tentativo di conciliazione”, 74)
- La determinazione dei costi in sede di partecipazione a un appalto basata sull’applicazione di un Ccnl sottoscritto da soggetti non rappresentativi può costituire indice di inattendibilità economica dell’offerta e di lesione del principio della par condicio dei concorrenti. (Cons. St. 13/10/2015 n. 4699, Pres. Romeo Est. D’Alessio, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Dario Calderara, “Quali sono i contratti collettivi applicabili nelle gare di appalto?”, 20)
- Con riferimento alla pretesa di imputazione del rapporto in capo all’utilizzatore effettivo, dunque, i diritti pregiudicabili dalla decadenza sono non solo quelli aventi a oggetto la ‘stabilizzazione’ presso l’utilizzatore stesso, ma anche quelli maturati per effetto dello svolgimento delle prestazioni (ad esempio per differenze retributive o a titolo di risarcimento del danno). Omissis Né fornisce argomenti a favore della tesi delle appellanti, il contesto normativo in cui la decadenza in questione è inserita, riguardando l’art. 32 in prevalenza l’impugnativa delle fattispecie risolutive del rapporto di lavoro (e non le domande di pagamento di differenze retributive, o altro). In realtà le ipotesi prese in considerazione dalla lettera d) del quarto comma dell’art. 32 (che abbracciano vari casi, dalla somministrazione fraudolenta a quella irregolare, dagli appalti illegittimi alla violazione delle norme sul distacco, sino ai fenomeni interpositori che possono realizzarsi nell’ambito dei gruppi di imprese e ai casi nei quali si rivendichi la cosiddetta contitolarità dei rapporti), non sono le uniche a non riguardare il momento risolutivo del rapporto di lavoro: come visto la decadenza introdotta dalla normativa in parola riguarda anche il trasferimento del lavoratore ai sensi dell’art. 2103 c.c. o la cessione del contratto di lavoro ex art. 2112 c.c., che poco hanno a che vedere con l’atto finale interruttivo del rapporto di lavoro. Ciò a riprova del fatto che l’art. 32, al di là della sua rubrica, è diretto a introdurre una disciplina generale della decadenza in materia di lavoro, che va oltre quelle riferibili ai casi di impugnativa del licenziamento o alla scadenza del termine invalidamente apposto al contratto di lavoro, abbracciando anche ipotesi che non attengono strettamente alla risoluzione del rapporto di lavoro. (Corte app. Brescia 2/10/2014 n. 406, Pres. Novo Rel. Finazzi, in Lav. nella giur. 2015, con commento di Annamaria Minervini, 393)
- In una situazione nella quale un offerente intende eseguire un appalto pubblico avvalendosi esclusivamente di lavoratori impiegati da un subappaltatore stabilito in uno Stato membro diverso da quello a cui appartiene l’amministrazione aggiudicatrice, l’art. 56 TFUE osta all’applicazione di una normativa dello Stato membro, a cui appartiene tale amministrazione aggiudicatrice, che obblighi detto subappaltatore a versare ai propri lavoratori il salario minimo legale, in quanto tale disposizione costituisce un onere economico supplementare atto a impedire, ostacolare o rendere meno attraenti la prestazione di servizi transfrontaliera. (Corte di Giustizia 18/9/2014 C-549/13, Pres. Safjan Rel. Prechal, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Michele Forlivesi, “La clausola sociale di garanzia del salario minimo negli appalti pubblici al vaglio della Corte di Giustizia europea: il caso Bundesdruckerei”, 550)
- L’inapplicabilità dell’art. 29, co. 2, d.lgs. 276/2003 agli appalti stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni è sancita dall’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 276/2003 e confermata di recente dal d.l. n. 76/2013, conv. in l. n. 99/2013. In caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni o dei contributi dovuti al personale utilizzato nei contratti di appalto pubblico, il d.lgs. n. 163/2006 prevede speciali strumenti di tutela, le cui modalità di utilizzazione sono determinate, in particolare, dagli artt. 4 (per i contributi) e 5 (per le retribuzioni) del d.p.r. n. 207/2010. In via residuale è possibile fare ricorso alla tutela di cui all’art. 1676 c.c. (Cass. 7/7/2014 n. 15432, Pres. Vidiri Rel. Tria, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Anna Rota, “Garanzie dei crediti da lavoro negli appalti pubblici: quid novi dopo l’entrata in vigore della l. n. 99/2013?”, 1066)
- A seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 92 del 2012, l’art. 29 D.Lgs. n. 276/2003, nel prevedere la congiunta chiamata dell’appaltatore, obbligato principale, e della committente (obbligata solidale), pur ponendo quale regola generale la concentrazione dell’azione nei confronti dei coobbligati, non vale certo ad impedire l’autonoma proposizione del giudizio nei confronti del solo committente, obbligato solidale, nei casi in cui la domanda nei confronti del datore di lavoro, obbligato principale, sia improponibile o improcedibile nell’ordinaria sede di cognizione. (Trib. Monza 1/4/2014, Giud. Sommariva, in Lav. nella giur. 2014, 823)
- L’art. 29, co. 2, d.lgs. 276/2003, per come modificato dall’art. 9, co. 1, d.l. n. 76/2013, conv. in l. n. 99/2013, non trova applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulati dalle Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001 precedentemente alla data di entrata in vigore del d.l. n. 76/2013, in quanto la sintetica formulazione della novella legislativa non presenta le caratteristiche della norma imperativa. (Corte app. Milano 5/3/2014, Pres. e Rel. Curcio, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Anna Rota, “Garanzie dei crediti da lavoro negli appalti pubblici: quid novi dopo l’entrata in vigore della l. n. 99/2013?”, 1066)
- In un appalto avente a oggetto servizi di facchinaggio, l’esercizio del potere organizzativo e direttivo da parte dell’appaltante, attraverso un’ingerenza diretta sulle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e conseguente inserimento del lavoratore nel gruppo di lavoro dell’appaltante medesimo, è circostanza di per sé sufficiente a configurare una violazione dei requisiti di liceità di cui all’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 276/2003. Il lavoratore ha dunque diritto a veder costituito un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltante, non assumendo efficacia, nei confronti di quest’ultimo, le dimissioni rese dall’appaltatore, quale datore di lavoro apparente. (Trib. Milano 15/11/2013, Giud. Di Leo, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Valentina Scocca, 590)
- Risponde allo schema tipologico dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 276/2003 – secondo cui l’organizzazione dei mezzi da parte dell’appaltatore, funzionale all’opus dedotto in contratto, può consistere anche solo nell’esercizio di potere organizzativo e direttivo verso i lavoratori – un contratto d’appalto avente a oggetto servizio di logistica, entro magazzini, di capi d’abbigliamento. È ipotesi appieno integrante la figura dell’appalto c.d. labour intensive. Il che è tanto più vero quando l’appalto risponda alle seguenti caratteristiche: a) la presenza di più prestazioni oggetto d’appalto, che vanno dal controllo di qualità dei capi, alla loro etichettatura, al loro stoccaggio a magazzino, al confezionamento e imballo per le spedizioni; b) l’alto numero di lavoratori chiamati a operare in ciascun magazzino, donde la necessità di un coordinamento delle prestazioni di ciascuno e, ancor più, di formare gruppi di lavoro ripartiti in ragione delle varie prestazioni dedotte in appalto; c) l’obbligo di movimentare una certa quantità di capi entro limiti temporalmente prefissati dalla clientela dell’appaltatore – costituendo ciò il risultato del servizio che il committente attende dall’appaltatore –, sì che il potere organizzativo ex art. 29, comma 1, assume fort consistenza, nell’obiettivo di dover assicurare, giorno dopo giorno, una professionalità della prestazione lavorativa in linea con i livelli di obiettivo richiesti dal committente. (Trib. Reggio Emilia 19/7/2012, Giud. Gnani, in Lav. nella giur. 2012, 1117)
- La disposizione dell’art. 1676 c.c. – in base alla quale i dipendenti dell’appaltatore hanno azione diretta verso il committente, fino a concorrenza del debito del committente verso l’appaltatore, per conseguire quanto loro dovuto per l’attività prestata nell’esecuzione dell’appalto – si applica anche al subappalto di lavori pubblici, ai sensi dell’art. 141 del DPR n. 554/99, sia perché il subappalto è un vero e proprio contratto di appalto, seppure caratterizzato da derivazione da altro contratto di appalto, sia perché, nell’appalto e nel subappalto, ricorre la stessa esigenza di tutela dei lavoratori, onde preservarli dal rischio di inadempimento del datore di lavoro. (Cass. 22/6/2012 n. 10439, Pres. Lamorgese Est. Tria, in D&L 2012, 812)
- Non è applicabile agli appalti conferiti dalle pubbliche amministrazioni la norma di cui all’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276, secondo la quale, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti. (Corte app. Torino 9/5/2012, Pres. ed Est. Girolami, in D&L 2012, con nota di Filippo Capurro, “Una tecnica di tutela che ad alcuni sta stretta: ancora sulla solidarietà negli appalti conferiti dalle pubbliche amministrazioni”, 771)
- In tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità del committente è espressamente prevista dalla normativa di settore (art. 26 d.lgs. n. 81/2008), tuttavia, tale principio non può essere applicato automaticamente. Infatti, non può esigersi dal committente un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori. Per poter ritenere fondata la responsabilità del committente è necessario esaminare attentamente la situazione fattuale, considerando la specificità dei lavori da eseguire, i criteri seguiti dal committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, nonché, la percepibilità agevole e immediata da parte del committente di eventuali situazioni di pericolo (nella specie, la Corte ha ritenuto che i giudici del merito non avessero svolto un approfondito e specifico esame al fine di individuare profili di colpa nella condotta dei committenti; per cui, visto che nulla era stato detto sull’eventuale culpa in eligendo, ha annullato la sentenza con rinvio). (Cass. Sez. IV pen. 18/1/2012 n. 3563, Pres. Sirena Est. Piccialli, in Riv. It. Dir. lav. 2012,con nota di Andrea Presotto, “Il committente non qualificato risponde di violazione della normativa anti infortunistica solo a seguito di una rigorosa verifica fattuale”, 984)
- La Corte di Appello di Roma è stata chiamata a pronunciarsi sula responsabilità del datore di lavoro/appaltatore per infortunio occorso al dipendente nello svolgimento della prestazione presso altra impresa e sulla ripartizione del relativo obbligo di sicurezza con il terzo a cui era stato contrattualmente trasferito l’obbligo di fornire le attrezzature di sicurezza. Il giudice di secondo grado ha, altresì, affrontato il tema della intrasferibilità in capo al preposto dei compiti relativi all’approntamento delle misure di prevenzione. (Corte app. Roma 6/4/2011, Pres. Gallo Rel. Pascarella, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Daniele Iarussi, 276)
- La clausola inserita in un contratto di appalto che permette all’appaltante di ottenere la sostituzione degli addetti non graditi non può consentire, nell’ambito dei rapporti di lavoro tra appaltatrice e i suoi dipendenti, un trasferimento in assenza delle ragioni richieste dall’art. 2103 c.c. e della disciplina collettiva e in violazione del generale principio di buona fede. (Trib. Trieste 22/3/2011, Giud. Barbazi, in Lav. nella giur. 2011, 746)
- L’articolo 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003, che pone un termine di decadenza, dalla cessazione dell’appalto, per l’esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro, dipendenti da imprese appaltatrici di opere e servizi, nei confronti degli imprenditori appaltanti, limita l’ambito di efficacia del suddetto termine ai diritti suscettibili di essere fatti valere direttamente dal lavoratore. Non si può invece estendere l’efficacia dell’anzidetta disposizione legislativa a un soggetto terzo, quale l’ente previdenziale, i cui diritti, scaturenti dal rapporto di lavoro, sono disciplinati dalla legge. (Trib. Forlì 18/2/2011, Giud. Angelici Chesi, in Lav. nella giur. 2011, 529)
- L’azione diretta proposta dal dipendente dell’appaltatore contro il committente per conseguire quanto gli è dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore quando è proposta la domanda, è prevista dall’art. 1676 c.c. con riferimento al solo credito maturato dal lavoratore in forza dell’attività svolta per l’esecuzione dell’opera o la prestazione del servizio oggetto dell’appalto, e non anche con riferimento a ulteriori crediti, pur relativi allo stesso rapporto di lavoro e non afferenti in alcun modo all’appalto. (Cass. 19/11/2010 n. 23489, Pres. Foglia Est. Toffoli, in D&L 2010, 1138)
- Costituisce un contratto d’opera e non un contratto d’appalto quello tra un committente e un artigiano (nel caso di specie un falegname) il quale svolga l’attività con prevalente lavoro personale, seppur coadiuvato da componenti della sua famiglia e da qualche collaboratore. (Cass. 2/9/2010 n. 19014, Pres. Oddo Est. Bursese, in D&L 2010, con nota di Filippo Capurro, “Ancora sulla qualificazione del contratto d’appalto”, 1131)
- Gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, gravano solo sull’appaltante (o interponente), sicché non può configurarsi una concorrente responsabilità dell’appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi a esso sottesi. Tale principio esclude una responsabilità concorrente dell’interposto, ma non impinge sulla norma dell’art. 1180, comma 1, c.c. relativa all’effetto liberatorio del pagamento del terzo, quale deve ritenersi l’interposto, e sulla norma di cui all’art. 2036 relativa all’irripetibilità da parte dello stesso delle somme corrisposte in esito a tale pagamento, non essendo possibile ritenere la scusabilità dell’errore sulla identità dell’effettivo debitore. (Cass. 14/7/2010 n. 16547, Pres. Sciarelli, in Lav. nella giur. 2010, 945)
- L’applicazione della disposizione normativa di cui all’art. 29, D.Lgs. n. 276/2003 agli appalti c.d. labour intensive, vale a dire caratterizzati dalla prevalenza delle prestazioni lavorative, consente di ravvisare una fattispecie di appalto genuino anche in presenza del solo potere direttivo nei confronti dei lavoratori, unito all’effettiva assunzione del rischio di impresa, mentre l’utilizzo di strumenti di proprietà del committente non può considerarsi elemento decisivo per la qualificazione del rapporto. Solo in caso di insussistenza degli elementi propri dell’appalto genuino, si integra la fattispecie di somministrazione irregolare di manodopera. (Trib. Milano 5/5/2010, Giud. Pattumelli, in Lav. nella giur. 2010, 735)
- L’inapplicabilità del d.lgs. n. 276/2003 alle pubbliche amministrazioni, previsto dall’art. 1, comma 2, non può che essere riferita alle stesse in qualità di datori di lavoro, per cui il regime di responsabilità solidale previsto dall’art. 29, comma 2, del suddetto decreto trova applicazione anche nel caso in cui il committente sia una Pubblica Amministrazione. (Trib. Milano 22/1/2010 n. 317, Giud. Mennuni, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di S. Varva, “La responsabilità solidale del committente pubblico ex art. 29 d.lgs. n. 276/2003”, 888)
- Il divieto di intermediazione nelle prestazioni di lavoro di cui all’art. 1 L. 23/10/60 n. 1369 posto al fine di impedire che il datore di lavoro effettivo possa sottrarsi agli obblighi conseguenti alla titolarità dei rapporti di lavoro, opera oggettivamente allorquando un lavoratore distaccato presso un’organizzazione diversa da quella del suo datore di lavoro renda la sua prestazione al servizio esclusivo del soggetto di destinazione, mentre è irrilevante l’intento fraudolento delle parti. (Cass. 3/11/2009 n. 23213, Pres. Vidiri Est. Balletti, in D&L 2009, 951)
- In materia di appalto, la violazione dell’obbligo di adozione di misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro è applicabile anche nei confronti del committente – se pur non incondizionatamente – atteso che non sussiste alcuna norma che prevede direttamente la responsabilità del committente in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro – ma laddove lo stesso si sia reso garante della vigilanza relativa alle misure da adottare in concreto, riservandosi i poteri tecnico organizzativi dell’opera da eseguire. (Cass. 28/10/2009, Pres. Sciarelli Est. Zappia, in D&L 2009, con nota diAldo Garlatti, “La responsabilità del committente e dell’appaltatore nell’infortunio sul lavoro: il nuovo quadro normativo e giurisprudenziale”, 1061)
- Il contratto con il quale un imprenditore vende ad altro imprenditore delle apparecchiature, nonché si impegna a effettuare la fornitura in opera e l’assistenza tecnica delle stesse con l’utilizzo di personale tecnico e operaio idoneo e qualificato e preventivamente addestrato alla specifica attività de qua, è riconducibile a un contratto di appalto e servizi e non a un contratto di vendita, in quanto risulta prevalente l’obbligazione di facere rispetto a quella di dare, con la conseguente applicazione dell’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276 in materia di responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore per le obbligazioni retributiva afferenti al rapporto di lavoro dei soggetti impiegati nell’appalto. (Trib. Milano 27/10/2009, Est. Vitali, in D&L 2009, con nota di Filippo Capurro, “Sulla vis espansiva della nozione di appalto ai fini giuslavoristici”, 1019)
- La responsabilità solidale di cui all’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276 si estende all’intero credito retributivo e non solo ai limiti tabellari. (Trib. Milano 27/10/2009, Est. Vitali, in D&L 2009, con nota di Filippo Capurro, “Sulla vis espansiva della nozione di appalto ai fini giuslavoristici”, 1019)
- La sentenza dichiarativa di fallimento dell’impresa utilizzatrice, intervenuta anteriormente alla stipulazione di contratti di somministrazione e non comunicata alla società di somministrazione, invalida i contratti di somministrazione, i quali non possono validamente ritenersi stipulati e atti a impegnare l’impresa fallita. (Trib. Milano 28/7/2008, Est. Beccarini Crescenzi, in Orient. della giur. del lav. 2008, 645)
- Il divieto di interposizione di manodopera trova applicazione anche nei confronti degli enti pubblici e delle aziende di Stato, ma non nel caso in cui le amministrazioni pubbliche non siano costituite in forma di azienda e non svolgano attività di impresa. (Cass. 21/5/2008 n. 12964, Pres. Mattone Rel. Di Nubila, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Luigi Menghini, 53)
- In tema di interposizione e intermediazione nella prestazione lavorativa, se, da un lato, l’imprenditore è libero di affidare in appalto tutte le attività suscettibili di fornire un autonomo risultato produttivo, senza che si possa escludere l’ipotesi in cui l’organizzazione del committente sarebbe in grado di eseguire direttamente la lavorazione, dall’altro lato, il divieto posto dall’art. 1 della l. n. 1369 del 1960 (applicabile ratione temporis) opera, in riferimento agli appalti “endoaziendali” (caratterizzati appunto dall’affidamento a un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente inerenti al ciclo produttivo del committente, come si evince dall’art. 3 della citata L. n. 1369), tutte le volte in cui l’appaltatore, pur titolare di effettiva organizzazione aziendale, metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata a un risultato produttivo autonomo. (Cass. 9/4/2008 n. 9264, Pres. Ianniruberto Est. Picone, in Lav. Nella giur. 2008, 836, e in Dir. e prat. lav. 2008, 2499)
- In caso di appalto di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti. Si deve rilevare che ai fini della sussistenza della responsabilità solidale del committente in relazione ai debiti di lavoro gravanti sull’appaltatore non è più richiesta la sussistenza di un rapporto di credito tra i due, così come richiesta dall’art. 1676 c.c., essendo al contrario sufficiente la sussistenza di un rapporto di appalto, l’inadempimento dell’appaltatore nei confronti dei lavoratori alle proprie dipendenze e il decorso di un tempo non superiore a un anno dalla cessazione dell’appalto. (Trib. Roma 16/1/2008, Rel. Mimmo, in Lav. nella giur. 2008, 736)
- In tema di divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazuioni di lavoro, solo sull’appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una concorrente responsabilità dell’appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi a esso sottesi; tuttavia, è fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti eventualmente eseguiti dal datore di lavoro fittizio, dovendo trovare applicazione l’art. 1180, primo comma, c.c., atteso che si versa in ipotesi di pagamento di debito altrui ai fini della relativa efficacia estintiva dell’obbligazione. (Cass. 15/1/2008 n. 657, Pres. De Luca Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2008, 526)
- A norma dell’art. 29, d.lgs. n. 276/2003, elemento sufficiente perchè possa configurarsi un genuino appalto di servizi è (insieme all’assunzione del rischio di impresa) l’organizzazione dei mezzi da parte dell’appaltatore, la quale, in relazione agli appalti labour intensive, è suscettibile di concretarsi nel solo esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori. Ne consegue che l’utilizzo di strumenti di proprietà del committente, non costituisce, di per sé, elemento decisivo per la qualificazione del rapporto in termini di appalto o interposizione vietata. (Trib. Milano 5/2/2007, Giud. Porcelli, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Francesca Chiantera, “Meccanismi di conversione delle collaborazioni prive di progetto e criteri di liceità degli appalti ad alta intensità di lavoro”, 809)
- In virtù dell’ “effetto utile” delle sentenze della Corte di Giustizia “Merci convenzionali c. Siderurgica Gabrielli” e “Silvano Raso”, in cui la Corte ha stabilito che l’intermediazione e la fornitura di lavoro temporaneo nei porti non possono essere riservate alle Compagnie Portuali in regime di monopolio, ma devono essere consentite a una pluralità di imprese in regime di concorrenza, la possibilità di fornire di lavoro temporaneo in deroga ai divieti di cui all’art. 1, legge 23 ottobre 1960, n. 1369, accordata dal legislatore italiano alle sole Compagnie, deve essere estesa anche alle altre imprese portuali (nella fattispecie l’estensione si riferisce al periodo luglio 1990 – maggio 1994, antecedente alla riforma di cui alla legge 30 giugno 2000, n. 186). (Cass. 18/1/2007 n. 1104, Pres. Sciarelli Rel. Di Nubila, in ADL 2008, con commento di Stefano Costantini, “L’applicabilità dei divieti di intermediazione e di interposizione di manodopera nel settore portuale: vecchi e nuovi problemi”, 137)
- L’art. 4 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369 (sul divieto di intermediazione e interposizione delle prestazioni di lavoro), che pone il termine di decadenza di un anno dalla cessazione dell’appalto per l’esercizio dei diritti dei prestatori di lavoro, dipendenti da imprese appaltatrici di opere e di servizi nei confronti degli imprenditori appaltanti – pur facendo riferimento, oltre che ai diritti al trattamento economico e normativo, anche al diritto di pretendere l’adempimento degli obblighi derivanti dalle leggi previdenziali – limita l’ambito di efficacia del suddetto termine ai diritti suscettibili di essere fatti valere direttamente dal lavoratore; non potendosi estendere invece l’efficacia della disposizione legislativa a un soggetto terzo, quale l’ente previdenziale, i cui diritti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dalla legge si sottraggono, pertanto, al termine annuale decadenziale. (Cass. 17/1/2007 n. 996, Pres. Ianniruberto, Rel. Vidiri, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Enrico Barraco, 571)
- Nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono i primi tre commi dell’art. 1, l. 23 ottobre 1960, n. 1369, la nullità del contratto tra committente e appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’ultimo comma dello stesso articolo – secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni – comportano che solo sull’appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonchè gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell’appaltatore o interposto in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi che vi sono sottesi. (Cass. 26/10/2006 n. 22910, Pres. carbone Est. Vidiri, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Federica Paternò, “Interposizione illecita e titolarità della responsabilità datoriale”, 291)
- Al fine di evitare la presunzione di legge circa l’intermediazione di mere prestazioni di mano d’opera è necessario che l’utilizzazione da parte dell’appaltatore di mezzi dell’appaltante deve essere significativa e non marginale nell’ambito dell’insieme dei mezzi utilizzati, e soprattutto riferirsi al rapporto di appalto una volta che l’esecuzione di quest’ultimo sia a regime e non limitata a un momento iniziale di assestamento. (Cass. 24/2/2006 n. 4181, Pres. Mattone Rel. Monaci, in Lav. Nella giur. 2006, 811)
- Per accertare l’esistenza di un appalto di manodopera vietato è necessario, quando non ricorrano le presunzioni di cui all’art. 1 della L. n. 1369/1960, verificare se il contratto posto in essere dalle parti mascheri un intento fraudolento, utilizzando come criterio interpretativo fondamentale quello dell’esistenza del rischio economico di impresa in capo all’appaltatore e valutando se questi sia provvisto di una propria organizzazione con riferimento allo specifico lavoro, se si sia impegnato a fornire all’appaltatore un’opera o un servizio determinato, affrontando l’alea economica insita in ogni attività produttiva autonoma, se i lavoratori impiegati siano effettivamente da lui diretti e agiscano realmente alle sue dipendenze e nel suo interesse. (Trib. Roma 5/9/2005, Est. Di Sario, in Lav. Nella giur. 2006, 709)
- Nell’ipotesi di cessazione del contratto di appalto nel settore dei servizi di ristorazione e di assunzione della gestione da parte di un altro soggetto, qualora sia mutato soltanto il titolare rimanendo identica l’attività economica organizzata, non si versa nella fattispecie della successione dell’appalto ma in quella del trasferimento di ramo d’azienda.(Trib. Firenze 15/10/2005, ord., Pres ed est. Muntoni, in D&L 2006, con nota di Filippo Pirelli, “Interposizione e appalto di servizi”, 832)
- Alla previsione normativa dell’art. 1, L. n. 1369/1960 è estraneo il caso in cui sia lo stesso appaltatore ad impegnarsi ad eseguire personalmente mere prestazioni di lavoro, trattandosi in tal caso di qualificare soltanto il rapporto tra imprenditore appaltante e appaltatore come di lavoro autonomo o subordinato. (Trib. Grosseto 21/12/2004, Est. Ottati, in Lav. nella giur. 2005, 388)
- La fattispecie vietata dall’art. 1 L. 23/10/60 n. 1369 si configura in tutti i casi in cui l’impresa appaltatrice esaurisce la propria prestazione nella messa a disposizione di manodopera alle sue dipendenze ed è configurabile sia in presenza degli elementi presuntivi considerati dal 3° comma del citato art. 1 (impiego di capitale, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante), sia quando il soggetto interposto manchi di una gestione a proprio rischio e di un’organizzazione autonoma rispetto all’impresa committente; pertanto, negli appalti che richiedono uno scarso apporto di mezzi produttivi, è l’elemento della preposizione all’organizzazione del lavoro (direzione del personale, scelta delle modalità e dei tempi di lavoro) a tracciare la linea di demarcazione tra appalto genuino ed interposizione vietata. (Corte d’appello Firenze 24/9/2003, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2004, con nota di Lisa Giometti, “L’interposizione vietata secondo la L. 1369/1960: coordinate essenziali della contrapposizione tra appalti leciti ed illeciti”, 112)
- Deve escludersi la sussistenza di un’interposizione nella prestazione di lavoro a mente della L. n. 1369/1960 quando non risulta l’utilizzazione di capitali, macchine ed attrezzature fornite dalla pretesa interponente, né la sottoposizione della dipendente all’esclusivo servizio della pretesa interponente. Pacifica poi la natura imprenditoriale delle case produttrici dei prodotti, essendo dotate di una gestione di impresa a proprio rischio e di un’autonoma organizzazione, e sostenendo le stesse in ogni caso il rischio di impresa relativo al servizio fornito, sia pure all’interno dei locali dell’altra impresa. (Trib. Roma 3/9/2003, Est. Mucci, in Lav. nella giur. 2004, 85)
- Ricorre l’interposizione illecita di manodopera qualora l’organizzazione imprenditoriale dell’appaltatore si esaurisca nella mera gestione del personale, senza fornire autonomo risultato produttivo. (Cass. 30/10/2002, n. 15337, Pres. Mileo, Est. Toffoli, in Foro it. 2003 parte prima, 815; Cass. 10/10/2002, n. 15337, Pres. Mileo, Est. Toffoli, in Riv. it. dir. lav. 2003, 254, con nota di Anna Valentina D’Oronzo, Sulla distinzione tra interposizione ed appalto di servizi a carattere continuativo; Cass. 22/8/2003 n. 12363, Pres. Trezza Est. Balletti, in Foro it. 2003, parte prima, 2942)
- In base all’Art. 3 della l. n. 1369/1960, possono costituire oggetto di lecito appalto endoaziendale tutte le attività che, pur se strettamente inerenti al ciclo produttivo del committente, siano in grado di fornire un autonomo risultato produttivo e siano svolte con un’organizzazione ed una gestione autonoma dell’appaltatore, con l’assunzione dei correlativi rischi economici da parte di quest’ultimo in ordine al risultato pattuito, non essendo tuttavia consentito, ai fini della liceità dell’appalto, che l’organizzazione dell’appaltatore-sia pura con riferimento ad attività richiedenti modesti mezzi strumentali-si estrinsechi nella mera assunzione e retribuzione nonché nella connessa gestione amministrativa del personale (nella specie, la Suprema Corte ha annullato sia per violazione di principi di diritto, sia per vizio di motivazione, la sentenza impugnata, che aveva riconosciuto rilevanza decisiva alla mera organizzazione del personale) (Cass. 30/10/2002, n. 15337, Pres. Mileo, Est. Toffoli, in Riv. it. dir. lav. 2003, 536, con nota di Pasqualino Albi, Interposizione illecita ed organizzazione dei mezzi necessari, secondo la l. n. 1369/1960)
- Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (art. 1, 23 ottobre 1960, n. 1369), in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato organizzativo autonomo. (Nel caso di specie, relativo a due lavoratori che avevano svolto compiti di fattorino e di commesso, rientranti nel ciclo produttivo dell’azienda Ferrovie dello Stato, ma inseriti nella organizzazione della cooperativa di servizi della quale erano soci, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva escluso la illiceità dell’appalto, disponendo ulteriori accertamenti di merito al fine di verificare se nella fattispecie vi sia stato un lecito appalto di servizi o una ipotesi vietata di mera fornitura di manodopera). (Cass. 5/10/2002, n. 14302, Pres. Mileo, Rel. Picone, in Lav. nella giur. 2003, 660, con commento di Gianluigi Girardi)
- L’introduzione, mediante gli artt. 1 e ss. della l. 24 giugno 1997, n. 196, dell’istituto della fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo, non ha riflessi interpretativi in materia di identificazione delle ipotesi lecite ed illecite di appalti a norma della l. n. 1369/1960, che rimane dunque in vigore conservando il suo contenuto precettivo ordinario. (Cass. 5/10/2002, n. 14302, Pres. Mileo, Est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2003, 254).
- In un appalto di servizi informatici il fatto che l’appaltatore sia un imprenditore dotato di una propria struttura aziendale non esclude la configurabilità di un’ipotesi di illecita interposizione di manodopera. Tuttavia, perché tale ipotesi ricorra in concreto occorre, da un lato, che il lavoratore-sul quale incombe il relativo onere probatorio-sia strutturalmente e funzionalmente inserito nella struttura aziendale del committente e sia soggetto al suo potere direttivo-riceva cioè da questi disposizioni inerenti alle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e disciplinare; dall’altro, che il lavoratore medesimo sia dotato di quella competenza professionale necessaria e sufficiente a far conseguire al committente il risultato promessogli, posto che la particolare natura del servizio offerto dall’appaltatore impone di valutare coi criteri qualitativi e non quantitativi la rilevanza dell’apporto strumentale da parte del committente rispetto all’apporto dell’appaltatore. (Trib. Milano 19/4/2002, Est. Porcelli, in Lav. nella giur. 2003, 186)
- L’esecuzione di appalti concessi da imprese che esercitano un pubblico servizio e che abbiano ad oggetto l’installazione delle linee e reti di distribuzione non è compresa nella previsione di cui al comma secondo dell’art. 3, l. 23/10/60, n. 1369; ne consegue che le imprese appaltatrici possono applicare nei confronti dei loro dipendenti il trattamento economico e normativo proprio del settore industriale del quale fanno parte. (Cass. 1/2/01, n. 1428, pres. De Musis, est. D’Agostino, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 319)
- Non sussiste un appalto di mere prestazioni di lavoro qualora il lavoratore non provi l’esistenza di un duplice rapporto: il primo tra colui che conferisce l’incarico e usufruisce in concreto delle prestazioni del lavoratore (committente o interponente) e colui che riceve l’incarico e retribuisce il lavoratore (appaltatore o intermediario); il secondo tra il lavoratore stesso e l’intermediario, che deve presentare i caratteri della subordinazione, e non può avere ad oggetto una prestazione di lavoro autonomo (nel caso di specie è stata esclusa la configurabilità del subappalto di manodopera in una ipotesi in cui, pur essendo accertata l’esistenza di un contratto di subappalto di opere edili tra due imprese, era stata acclarata l’inesistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le stesse imprese e i ricorrenti, i quali si presentavano in cantiere come squadra di lavoro autogestita, ed erano dunque da considerarsi lavoratori autonomi) (Cass. 7/10/00, n. 13338, pres. Sciarelli, est. Mammone, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 402, con nota di Marinelli, Appalto di manodopera e lavoro autonomo)
- In caso di appalto introaziendale contemplato dall’art. 3, l. n. 1369/60, il lavoratore alle dipendenze dell’impresa appaltatrice che rivendichi il diritto allo stesso trattamento retributivo previsto per i dipendenti dell’impresa committente (nel caso di specie, le Ferrovie dello stato s.p.a.), deve fornire la prova che tra le due fasce di lavoratori sussiste piena corrispondenza di mansioni (art. 2, d.p.r. 22/11/61, n. 1192), da intendersi come identità delle attività e delle modalità di svolgimento delle stesse, sul presupposto che, come condizione per l’ammissibilità del raffronto medesimo tra il trattamento retributivo riservato ai lavoratori posti alle dipendenze della società appaltatrice e quello spettante ai dipendenti dell’impresa committente, nel contratto collettivo di quest’ultima sia prevista l’attività (quivi consistente nella pulizia delle carrozze delle Ferrovie) eventualmente anche data in appalto in toto (Cass. 22/4/00, n. 5296, pres. Grieco, est. Trione, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 33, con nota di Lazzeroni, La corrispondenza di mansioni come presupposto del diritto alla parità di trattamento nell’appalto introaziendale)
- Nel caso di appalto di servizi non ricorre l’ipotesi vietata di cui all’art. 1 L. 23/10/60 n. 1369 allorché il ricorrente non fornisca la prova della subordinazione (nel caso di specie, il Giudice ha ritenuto non sussistente il fenomeno interpositorio nel rapporto fra le FF.SS. e i soci di una cooperativa chiamata a svolgere vari servizi, fra i quali la custodia di passaggi di livello) (Trib. Pisa 2/8/1999, est. Schiavone, in D&L 2000, 421, n. Giometti, Appalto di servizi e fattispecie interpositoria)
- Il divieto di intermediazione/interposizione di manodopera di cui all’art. 1 L. 23/10/60 n. 1369 si applica anche ai lavoratori soci di cooperative (Pret. Milano 17/2/99, est. Vitali, in D&L 1999, 345)
- L’appalto concesso da un ente esercente pubblico servizio (nella specie la Sip Spa ), pur essendo svolto in connessione con l’erogazione di un servizio pubblico, provoca gli effetti (responsabilità solidale verso i dipendenti tra l’appaltante e l’appaltatore) tipici della fattispecie ex art. 3, 1° comma, L.1369/60 (Pret. Roma 26/3/97, est. Cannella, in D&L 1997, 798, n. Fiorai, Servizio pubblico e L. 1369/60)
- L’art. 1 L. 1369/60 vieta all’imprenditore di affidare in appalto o in qualsiasi altra forma l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro anche a società cooperative, mediante impiego di mano d’opera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, né consente di distinguere tra i lavoratori a seconda che gli stessi siano soci di cooperative oppure dipendenti da esse (Cass. 27/5/96 n. 4862, pres. Buccarelli, est. Vigolo, in D&L 1996, 988, nota MUGGIA, Società cooperative e appalto di mere prestazioni di lavoro. In senso conforme, v. Pret. Milano 8/4/98, est. Peragallo, in D&L 1998, 706)
Sopravvenienza del D.Lgs. 276/2003
- Non è applicabile anche agli appalti conferiti dalle pubbliche amministrazioni la norma di cui all’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276 in materia di responsabilità solidale tra l’appaltante e l’appaltatore per i crediti retributivi e contributivi relativi ai lavoratori impiegati nell’appalto. (Trib. Brescia 15/10/2010, Est. Azzollini, in D&L 2010, 1138)
- Il contratto con il quale un imprenditore si obbliga nei confronti di altro imprenditore alla fornitura di stoviglie e posate per il servizio di ristorazione e all’attività di consegna, ritiro, detersione, sanificazione e riconsegna, collegate alla fornitura stessa, integra un contratto di appalto di servizi e non un contratto di noleggio, in quanto risulta prevalente l’obbligazione di facere rispetto a quella di dare; ne segue l’applicazione dell’art. 29, c. 2, D.Lgs. 10/9/03 n. 276 in materia di responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore per le obbligazioni retributive afferenti al rapporto di lavoro dei soggetti impiegati nell’appalto. (Trib. Milano 23/11/2007, Est. Di Leo, in D&L 2008, 262)
- La fattispecie di appalto di mere prestazioni di lavoro prevista dall’art. 1, L. n. 1369/1960 è solo parzialmente abrogata a opera dell’art. 18, D.Lgs. n. 276/2003, in quanto continua a essere punita come reato l’attuale fattispecie di somministrazione di lavoro da parte di agenzie non abilitate e si applica anche la legge speciale n. 67/1993 che prevedeva un’eccezione al divieto di cui alla L. n. 1369/1960 in caso di esercizio di mera fornitura da parte di senza senza scopo di lucro che svolgono attività socio assistenziali. (Cass. sez. pen. 16/6/2006 n. 20758, Pres. Vitalone, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Alessandra Miscione, 33)
- È applicabile anche agli appalti conferiti alle pubbliche amministrazioni la norma di cui all’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276, secondo la quale, salvo diverse previsioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti. (Trib. Pavia 29/4/2006, est. Balba, in D&L 2006, con n. Filippo Capurro, “Garanzie relative ai trattamenti economici spettanti ai lavoratori impiegati in appalti conferiti alla pubblica amministrazione”, 539)
- La somministrazione di manodopera, sempre illecita sotto il vigore della legge 23 ottobre 1960 n. 1369, con il D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276 è illecita solo se compiuta da soggetti non autorizzati, e, quindi, dalla comparazione tra le fattispecie costituenti contravvenzioni sia in base alla legge n. 1369 del 1960 che in base al D.Lgs. 276 del 2003, emerge che l’attività di fornitura o somministrazione di manodopera effettuata da soggetti non autorizzati, già prevista come reato dalla legge n. 1369 del 1960, continua ad essere penalmente rilevante anche in base al decreto legislativo citato, con la conseguenza che ad essa è applicabile il principio della legge più favorevole di cui al comma 3 dell’art. 2, c.p. Come trova conferma nell’intervento correttivo attuato con il D.Lgs. del 6 ottobre 2004 n. 251, con cui tra l’altro si è inserito nell’art. 18 D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276 il comma 5-bis in forza del quale “nei casi di appalto privi dei requisiti di cui all’art. 29 comma 1, e di distacco privo dei requisiti di cui all’art. 30 comma 1, l’utilizzatore ed il somministratore sono puniti con la pena dell’ammenda…”, la prestazione di fornitura di manodopera da parte di un soggetto che non organizza il lavoro e non assume il rischio d’impresa non è appalto, ma somministrazione, che diventa illecita penalmente se attuata da soggetti non autorizzati. (Cass. sez. III pen. 18/1/2005 n. 861, Pres. Postiglione Est. Petti, in Dir. e prat. lav. 2005, 896)
- In forza del D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276, contenente l’attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 febbraio 2003 n. 30, non è più previsto dalla legge come reato l’appalto di mere prestazioni di lavoro risultante solo dall’utilizzazione di macchinari ed attrezzature del committente. (Cass. 24/2/2004 n. 7762, Pres. Savignano Est. Novarese, in Dir. e prat. lav. 2004, 1308)
- La fattispecie di illecita mediazione nella fornitura di manodopera punita dall’art. 27 della legge 29 aprile 1949 n. 264 è solo parzialmente abrogata dalla fattispecie di esercizio abusivo della intermediazione di cui all’art. 18, comma 1, secondo e terzo periodo, D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276, in quanto i fatti di intermediazione commessi da soggetti privati non formalmente autorizzati, che erano punibili secondo la legge precedente, restano punibili anche nella nuova legge, con la conseguenza che si applicherà ad essi il principio della legge più favorevole di cui al comma 3 dell’art. 2 c.p., mentre altri fatti di intermediazione, che sono diventati legittimi con il D.Lgs. N. 276/2003, restano fuori della nuova fattispecie incriminatrice e non possono essere puniti neppure se commessi sotto il vigore della vecchia norma abrogata. (Cass. 26/1/2004 n. 2583, Pres. Raimondi Est. Onorato, in Dir. e prat. lav. 2004, 713)
- La fattispecie di appalto di mere prestazioni di lavoro punita dall’art. 1, comma 3, legge 23 ottobre 1960 n. 1369 è solo parzialmente abrogata dalla fattispecie di somministrazione di lavoro esercitata da soggetti non abilitati o fuori dei casi previsti punita dall’art. 18, comma 1, primo periodo, e comma 2 primo periodo, D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276, in quanto solo alcuni fatti puniti dalla legge abrogata non costituiscono più reato secondo la legge sopravvenuta (le somministrazioni di lavoro da parte di agenzie private abilitate e nei casi consentiti), mentre altri fatti continuano ad essere puniti come reato (le somministrazioni di lavoro da parte di soggetti non abilitati o fuori dei casi consentiti, che la legge abrogata puniva come appalti di mere prestazioni di lavoro). (Cass. 26/1/2004 n. 2583, Pres. Raimondi Est. Onorato, in Dir. e prat. lav. 2004, 713)
Attività di facchinaggio e pulizia
- Ai sensi dell’art. 4 Ccnl Imprese di pulizia, in caso di subingresso in un appalto, l’impresa subentrante deve comunque procedere all’assunzione del personale già addetto all’appalto ceduto, e ciò a prescindere dal fatto che si sia verificata oppure no una modifica nelle modalità di esecuzione delle prestazioni contrattuali dell’appalto (l’unica differenza essendo, in caso positivo, l’insorgere dell’ulteriore obbligo, in capo all’impresa subentrante, di esperire un esame congiunto con le OO.SS. e le Rsa) e senza che possa assumere rilevanza la circostanza che sia stato modificato il soggetto appaltatore (giacché questa è proprio la condizione cui la norma contrattuale subordina l’obbligo dell’assunzione). (Trib. Milano 31/7/2007, ord., Pres. Vitali, in D&L 2007, con nota di Eleonora Pini, “La tutela del lavoratore addetto a un appalto”, 1084)
- Ove il contratto collettivo applicabile preveda, per l’ipotesi di licenziamento dei dipendenti di un’impresa di pulizie in seguito alla cessazione di un appalto, una procedura per il passaggio diretto dei lavoratori licenziati alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto, la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro degli stessi soggetti con tale impresa non implica di per sé rinuncia al diritto di impugnare il licenziamento intimato dall’originario datore di lavoro. (Cass. 24/2/2006 n. 4166, Pres. Mercurio Est. Miani Canevari, in D&L 2006, con n. Matteo Palli, “Clausola di garanzia occupazionale e impugnazione del licenziamento”, 577)
- L’attività di facchinaggio non ricade nei divieti e nelle limitazioni previste dalla L. 23/10/60 n. 1369 quando essa sia svolta da facchini liberi esercenti; l’ipotesi prevista dall’art. 5 lett. g) della L. 1369/60 presuppone un appalto vero e proprio e, pertanto, non ricorre in presenza di uno pseudoappalto, vietato ai sensi dell’art. 1 della medesima legge (Pret. Milano 17/2/99, est. Vitali, in D&L 1999, 345)
- L’art. 4 del Ccnl per i dipendenti delle imprese di pulizie 24/10/97 – applicabile per espresso riferimento testuale anche ai dipendenti di società cooperative – prevede, in caso di cessazione di appalto, un vero e proprio obbligo giuridico da parte dell’impresa subentrante di assumere il personale dell’impresa cedente impiegato nell’appalto cessato, cui è correlato un diritto soggettivo di detto personale all’assunzione (Pret. Milano 20/4/98 (ord.), est. Cincotti, in D&L 1998, 994)
- Nell’art. 4 del Ccnl per i dipendenti delle imprese di pulizie 24/10/97, la previsione della durata minima di 4 mesi di impiego nell’appalto cessato come condizione del passaggio diretto del personale dall’impresa cedente all’impresa subentrante ha il fine di evitare assunzioni “dell’ultim’ora”, effettuate al solo scopo di consentire il detto passaggio; pertanto, qualora il mancato raggiungimento del periodo minimo di occupazione sia stato causato dalla cessazione anticipata dell’appalto per fatto colpevole dell’impresa, non può essere negato al personale dell’impresa cedente il diritto all’assunzione presso l’impresa subentrante (Pret. Milano 20/4/98 (ord.), est. Cincotti, in D&L 1998, 994)
- Ai sensi della L. 3/5/55 n. 407 e della L. 23/10/60 n. 1369, l’appalto lecito di lavori di facchinaggio consiste nel mero asporto e trasporto di beni da un posto fisico a un altro, con impiego della semplice forza fisica e/o di appositi macchinari; ne segue che esorbita dal mero facchinaggio e dalla relativa disciplina – la quale si è modellata sui termini incompatibili con l’intraneità di tale attività all’impresa appaltante – quel complesso di mansioni che, per la molteplicità e la diversa caratterizzazione delle stesse, risulta non solo funzionale all’attività d’impresa dell’appaltante, ma inserito nel ciclo produttivo in modo tale da risultare costantemente rispondente ai differenti bisogni via via espressi dall’impresa (Trib. Roma 4/3/96, pres. Zecca, est. Leone, in D&L 1996, 975)
Art. 1 c. 3 L. 1369/60
- Nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono i primi tre commi dell’art. 1 l. 23 ottobre 1960, n. 1369, la nullità del contratto tra committente e appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’ultimo comma dello stesso articolo – secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni – comportano che solo sull’appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonchè gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell’appaltatore o interposto in virtù dell’appartenenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi che vi sono sottesi. (Cass. Sez. Un. 26/10/2006 n. 22910, Pres. Carbone Est. Vidiri, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Federica Paternò, “Interposizione illecita e titolarità della responsabilità datoriale”, 291 e in Lav. nella giur. 2007, con commento di Luca Ratti, 271)
- Il terzo comma dell’art. 1, L. 1369/60, prevede una presunzione legale (che non ammette prova contraria) di appalto illecito ogni volta che si accerti la fornitura dei mezzi di organizzazione e di produzione (anche di uno solo di quelli indicati dalla legge) da parte del committente. Nel caso in cui uno solo dei tre elementi previsti dal terzo comma sia fornito dall’appaltante – anche se dietro compenso versato dall’appaltatore – occorre effettuare un’indagine sulla preponderanza dell’apporto dato dall’appaltatore su quello eventualmente fornito dall’appaltante, concludendosi per l’esistenza di un appalto vietato tutte le volte in cui il primo sia accessorio rispetto al secondo, come a esempio, nel caso di attrezzature e capitali di modesta entità economica rispetto al valore del contratto, oppure nell’ipotesi in cui l’appaltatore conferisca solo attrezzi minuti, di sua proprietà, ovvero di proprietà dei suoi stessi dipendenti. (Cass. 19/7/2005, n. 15166, Pres. Senese Est. Filadoro, in Orient. Giur. Lav. 2005, con nota di Ilario Alvino, “La presunzione di cui all’art. 1, terzo comma, legge 23 ottobre 1960, n. 1369, e le conseguenze della sua abrogazione”, 581)
- La conseguenza prevista dall’art. 1, comma 3, L. 1369/1960, vale a dire l’instaurazione del rapporto di lavoro con l’imprenditore che abbia effettivamente utilizzato l’attività dei prestatori, non deve conseguire ad alcun accordo fraudolento tra interponente ed interposto, essendo sufficiente per realizzare la fattispecie legale una situazione effettiva di lavoro prestato a favore e sotto il potere direttivo del datore interponente, destinata a prevalere sulla situazione formale. (Trib. Treviso 9/12/2004, Est. De Luca, in Lav. nella giur. 2005, 388)
- A norma dell’art. 1, 3° comma, L.23/10/60 n. 1369 si configura un’ipotesi di violazione del divieto di interposizione nelle prestazioni lavorative di cui al 1° comma del medesimo articolo, qualora il committente fornisca all’appaltatore le attrezzature essenziali per l’espletamento delle attività che formano oggetto dell’appalto e dell’organizzazione tipica dell’impresa (Pret. Milano 16/4/97, est. Atanasio, in D&L 1997, 804)
- A norma dell’art.1, 3° comma, L. 23/10/60 n. 1369 si configura un’ipotesi di violazione del divieto di interposizione nelle prestazioni lavorative di cui al 1° comma del medesimo articolo, qualora il personale dell’impresa appaltatrice utilizzi strumenti e mezzi di proprietà dell’impresa committente; sono inoltre indici rivelatori di un appalto di mere prestazioni di lavoro: la sottoposizione del detto personale alla direzione gerarchica dell’appaltante; l’autorizzazione e il coordinamento di quest’ultimo in materia di ferie, permessi e assenze; l’omogeneità dell’orario lavorativo e l’intercambiabilità di ruoli con altri dipendenti dell’appaltante (Pret. Milano 8/4/98, est. Peragallo, in D&L 1998, 706)
Altre ipotesi di intermediazione illecita
- Deve ritenersi mera interposta in rapporti di lavoro la cooperativa che lasci il governo complessivo dell’attività aziendale e la direzione del lavoro dei singoli addetti affidati a una relazione informatizzata con l’apparente committente, tenendo per sé una funzione residuale di controllo e di intervento paradisciplinare. (Trib. Padova 16/7/2019, n. 550, Est. Dellacasa, in Riv. It. Dir. Lav. 2020, con nota di A. Ingrao, “Marchandage du travail tra appalto e distacco illeciti. Quando il datore di lavoro è un software nella logistica 4.0”, 98)
- Il divieto di cui all’art. 1, comma 5, della l. n. 1369/1960 si applica senza limiti agli enti pubblici economici e alle imprese gestite da altri enti pubblici, mentre gli enti pubblici non economici che non svolgono attività imprenditoriale sono assoggettati al divieto in questione limitatamente alla attività contenutisticamente imprenditoriali o comunque latu sensu imprenditoriali. (Trib. Grosseto 9/5/2006, Est. Ottati, in Lav. nella giur. 2006, 1135)
- Incorre nel divieto di interposizione di manodopera il contratto di appalto endoaziendale che determini lo sdoppiamento delle funzioni datoriali, affidano la gestione amministrativa del rapporto all’appaltatore e la direzione tecnica al committente. (Corte d’appello Napoli 26/9/2003, Pres. Bonajuto Est. Musella, in Foro it. 2003, parte prima, 2942)
- Si configura un’ipotesi dell’interposizione illecita di manodopera ex L. 23/10/60 n. 1369 quando il committente, oltre a determinare le linee organizzative dell’attività dei lavoratori addetti all’appalto, si incarichi direttamente della gestione di tale attività, fornendo gli strumenti di lavoro necessari, assegnando i vari compiti e imponendo modi e tempi operativi da rispettare, sotto il suo diretto controllo (Trib. Milano 10 luglio 2000, est. Ianniello, in D&L 2000, 965, n. Villamira)
- In caso di impiego di manodopera negli appalti concessi dall’azienda autonoma delle Ferrovie dello Stato per il periodo successivo al 5/2/88 (data di introduzione del regime privatistico del rapporto di lavoro dei ferrovieri) in seguito alla successione all’azienda autonoma dello Stato prima dell’ente pubblico economico Ferrovie dello Stato e, quindi, della s.p.a. Ferrovie dello Stato, non potendo considerarsi più in vigore il D.P.R. n. 1192/1961 (che prevedeva un’apposita disciplina in favore dei dipendenti delle imprese appaltatrici de quibus) è divenuto operante l’art. 1, 5° comma, l. n. 1369/60 (secondo cui l’interpositore, effettivo utilizzatore delle prestazioni, si sostituisce all’interposto nel rapporto di lavoro) per i casi in cui i lavoratori risultassero formalmente dipendenti di imprese appaltatrici di mere prestazioni di lavoro, rendendo, però, effettivamente la loro attività direttamente a vantaggio delle Ferrovie (Cass. 29/5/00, n. 7089, pres. De Musis, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 247, con nota di Russo, Il divieto di interposizione nel sistema ferroviario)
- L’illegittimo appalto di manodopera, vietato dall’art. 1 L. 23/10/60 n. 1369 ricorre, oltre che nell’ipotesi prevista al 3° comma di tale articolo, ogniqualvolta risulti carente l’autonomia gestionale dell’appaltatore, che trova espressione nella conduzione aziendale, nella direzione del personale, nella scelta delle modalità e dei tempi di lavoro (Pret. Milano 17/2/99, est. Vitali, in D&L 1999, 345)
- Ai sensi dell’art. 1, 1° comma, L. 23/10/60 n. 1369, si configura un’ipotesi di violazione del divieto di interposizione nelle prestazioni lavorative, qualora il committente fornisca all’appaltatore le attrezzature essenziali per l’espletamento dell’attività che forma oggetto dell’appalto e l’apparente subappaltatore non possieda alcuna reale autonomia organizzativa e imprenditoriale, rimanendo assoggettato all’effettiva direzione della ditta appaltante (Pret. Milano 23/9/97, est. Porcelli, in D&L 1998, 431)
- Ove sia accertato, in relazione a subappalto di lavori edili, che l’impresa subappaltatrice sia priva di qualsivoglia autonomia organizzativa o imprenditoriale, e operi con macchinari e attrezzature di proprietà della subappaltante, senza poter intervenire nella gestione del cantiere, va ritenuta l’illecita intermediazione di mano d’opera di cui all’art. 1 L. 23/10/60 n. 1369, con la conseguenza che i lavoratori formalmente assunti dalla subappaltatrice vanno considerati alle dipendenze della subappaltante a tutti gli effetti (Pret. Milano 5/7/97, est. Cecconi, in D&L 1998, 155)
- Sono indici rivelatori di un appalto di mere prestazioni di lavoro, vietato dall’art. 1 L. 1369/60, lo svolgimento delle mansioni secondo modalità rivelatrici di un vincolo di subordinazione diretta tra prestatore e appaltante, nonché l’eccedenza delle prestazioni lavorative rispetto a quelle dedotte nel contratto di appalto e l’intraneità delle prime al ciclo produttivo dell’impresa appaltante, nell’ambito di un rapporto di intromissione stretta e necessaria (Trib. Roma 4/3/96, pres. Zecca, est. Leone, in D&L 1996, 975)
Altre intermediazioni lecite
- Non sussiste interposizione di manodopera, né ai sensi del primo né ai sensi del terzo comma dell’art. 1, l. n. 1369/60, laddove da una dettagliata analisi degli elementi che caratterizzano il rapporto concreto tra preponente e appaltatore emerga una reale autonomia organizzativa e gestionale di quest’ultimo, e in particolare l’elemento della gestione a proprio rischio e altresì che il preponente – nella fattispecie una compagnia di assicurazione – si sia limitato a contribuire alle spese di affitto e retributive dei dipendenti dell’appaltatore. Per lo stesso motivo, è legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, dovuto a una drastica riduzione del volume d’affari dell’appaltatore, al quale solo possono essere imputati i rapporti di lavoro (Cass. 11/9/00, n. 11957, pres. Ianniruberto, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 253, con nota di Grandi, Interposizione, appalto di manodopera e licenziamento per giustificato motivo oggettivo: il caso delle agenzie assicurative)
- Gli artt. 17 e 21, l. 28/1/94, n. 84, sul riordino della legislazione in materia portuale, confliggono con la normativa comunitaria sulla libertà di concorrenza e di prestazione di servizi nella parte in cui vietano all’impresa autorizzata all’esercizio delle operazioni portuali di avvalersi di personale di imprese, operanti nell’ambito portuale, diverse da quelle costituite dalle compagnie portuali trasformate; ne consegue l’inapplicabilità, nell’ambito del lavoro portuale, del divieto di intermediazione nelle prestazioni di lavoro previsto dall’art. 1, l. 23/10/60, n. 1369) ( Trib. La Spezia 18/7/00, pres. e est. Panico, in Foro it. 2000, pag. 3631)
- Non può considerarsi interposta, con la conseguente applicazione della legge n.1369/60, la società controllata che vanta nei confronti della controllante un precipuo scopo sociale, propri organi sociali, propri beni, propri dipendenti, proprie strategie e marchi (Trib. Ravenna 8/6/00, est. Riverso, in Lavoro giur. 2000, pag. 949, con nota di Menegatti, Divieto di interposizione, esternalizzazione e trasferimento d’azienda)
- Non si configura la fattispecie dell’appalto interno, di cui all’art. 3, l. n. 1369/60, nel caso del grande centro commerciale che, all’interno del proprio spazio di vendita al pubblico, consente all’impresa fornitrice di prodotti ortofrutticoli il compito di curare con personale proprio la migliore esposizione dei prodotti stessi sui banconi, la loro pesatura, confezione e prezzatura, nonostante che i prodotti stessi siano stati acquistati dal centro commerciale e da questo rivenduti alla clientela (Trib. Milano 15/5/00, est. Curcio, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 26, con nota di Luzzana, Divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro e merchandising ” improprio”)
- Non ricorre l’ipotesi di intermediazione/interposizione vietata, di cui all’art. 1 L. 23/10/60 n. 1369, ove un’attività di carico-scarico e di trasporto di merci sia svolta da lavoratori organizzati e gestiti direttamente dall’appaltatore, ancorché questi utilizzi locali, automezzi e attrezzature affittati dall’appaltante; sussiste in tal caso la responsabilità solidale dell’appaltante, prevista dall’art. 3 della detta legge (Pret. Milano 12/2/99, est. Curcio, in D&L 1999, 351)
Conseguenze dell’intermediazione illecita
- In ipotesi di sussistenza di appalto illecito di manodopera, il lavoratore che ha ottenuto il ripristino del rapporto di lavoro ha diritto alla retribuzione e non al risarcimento del danno da parte del datore di lavoro, costituito in mora, che non ottempera all’ordine giudiziale di riammissione in servizio. (Cass. SU 7/2/2018 n. 2990, Pres. Rordorf Est. D’Antonio, in Riv. it. dir. lav. 2018, con nota di G. Sottile, “Sulla natura retributiva delle somme spettanti al lavoratore riammesso in servizio al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 18, l. n. 300/1970: il cambio di rotta delle Sezioni Unite in attesa della Corte Costituzionale”, 599)
- Il requisito della stabilità reale, che consente il decorso della prescrizione quinquennale dei diritti del lavoratore in costanza di rapporto di lavoro, va verificato alla stregua del concreto atteggiarsi del rapporto stesso. Ne consegue che, con riferimento a rapporti di lavoro costituiti in violazione del divieto di intermediazione ed interposizione di cui all’art. 1 della l. 23 ottobre 1960, n. 1369 (applicabile “ratione temporis”), la suddetta verifica deve essere effettuata sulla base delle concrete modalità, anche soggettive, di svolgimento del rapporto, senza che assumano rilievo la disciplina che l’avrebbe regolato ove fosse sorto “ab initio” con il datore di lavoro effettivo ovvero la qualificazione attribuita in sede giudiziale (nella specie con sentenza mai eseguita dal datore di lavoro ideale). (Cass. 4/6/2014 n. 12553, Pres. Stile Est. Tria, in Lav. nella giur. 2014, 924)
- Nel caso di dipendente di un appaltatore prestino attività lavorativa a favore di unico appaltatore-utilizzatore; siano integralmente inseriti nel ciclo produttivo di quest’ultimo e da costui risultino indirizzati e diretti quanto alle modalità del lavoro da svolgere, il contratto tra appaltante e appaltatore deve definirsi come contratto di mere prestazioni di manodopera, come tale vietato dalla legge n. 1369/1960, e il relativo rapporto di lavoro deve ritenersi costituito ope legis con l’appaltante utilizzatore. (Fattispecie verificatasi nel vigore della L. 23 ottobre 1960, n. 1369, prima dell’abrogazione di essa a opera dell’art. 85, comma 1, lettera c) del D.Lgs. n. 276/2003). (Corte app. Venezia 9/6/2007 n. 154, Pres. Santoro Rel. Menegazzo, in Lav. nella giur. 2008, 397)
- Qualora risulti che un imprenditore abbia affidato in appalto a una società cooperativa l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante l’impiego di un lavoratore della stessa, l’accertamento dell’esistenza dei presupposti previsti dall’art. 1 L. 1369/60 comporta, di per sé, la costituzione, ex lege, del rapporto di lavoro in capo all’imprenditore che abbia effettivamente utilizzato le prestazioni del lavoratore, essendo a tal fine irrilevante ogni indagine diretta ad accertare il carattere vero o fittizio della costituzione e funzione della cooperativa (Pret. Roma 2/9/94, est. Salato, in D&L 1995, 363. In senso conforme, v. Pret. Milano 30/4/96, est. Atanasio, in D&L 1996, 978)
Solidarietà tra committente e appaltatore
- La responsabilità solidale del committente opera a favore di tutti i lavoratori utilizzati dall’appaltatore, inclusi i somministrati.
Il lavoratore somministrato, impiegato dall’utilizzatore nell’ambito di un servizio in appalto, è coinvolto in una duplice operazione di decentramento e divaricazione tra datore di lavoro e beneficiario della prestazione: pertanto, affiancare alla responsabilità solidale dell’utilizzatore quella del committente non determina una duplicazione indebita delle tutele. L’assenza di una relazione negoziale diretta tra somministratore e committente non esclude la responsabilità solidale di quest’ultimo, che sorge dalla relazione tra il committente e l’appaltatore che utilizza il lavoratore somministrato nell’ambito dell’appalto. (Trib. Gorizia 12/4/2023, Giud. Allieri, in Wikilabour, Newsletter n. 10/23) - Tra sanzione civile ed omissione contributiva sussiste un legame di automaticità funzionale che permane anche dopo l’irrogazione della sanzione. Pertanto, la responsabilità solidale tra committente ed appaltatore ex art. 29, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 – nella previgente formulazione – si estende anche alle sanzioni civili. (Cass. 15/10/2020 n. 22395, ord., Pres. Manna – Rel. Mancino, in Lav. nella giur. 2021, 88)
- I consorzi, contrattando con i terzi, operano quali mandatari dei consorziati e pertanto le obbligazioni assunte sorgono direttamente in capo a questi ultimi, senza alcuna necessità della relativa spendita del nome, comportando ciò, in relazione ai crediti dei lavoratori della consorziata, la sussistenza della responsabilità solidale tra quest’utima e il committente, anche per le ipotesi in cui tale responsabilità non si estende ai subappaltatori (e quindi nei casi di applicabilità della previgente versione dell’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276 e dell’art. 1676 c.c.). (Corte app. Milano 21/6/2012, Pres. Curcio Est. Togni, in D&L 2012, 545)
- Il termine biennale ex art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276 per far valere la responsabilità solidale nei confronti del committente ha natura decadenziale; per la sua interruzione non è sufficiente una mera diffida ma è necessaria la proposizione dell’azione giudiziale nei confronti del committente. Al riguardo rileva il deposito del ricorso non già la sua notifica, non ravvisandosi alcuna ragione per ritenere il suddetto termine biennale legato all’effettiva conoscenza della pretesa fatta valere dal lavoratore da parte del destinatario. (Trib. Milano 25/1/2012, Est. Casella, in D&L 2012, con nota di Alessandro Premoli, “Responsabilità solidale negli appalti: osservazioni sul termine biennale e sull’ambito applicativo”, 529)
- La responsabilità solidale tra appaltatore e stazione appaltante, per crediti di lavoro vantati dai dipendenti che hanno prestato la propria opera nell’espletamento dell’appalto, sussiste anche se la stazione appaltante è una P.A. ai sensi dell’art. 29, comma 2, d.lgs. n. 276/2003. (Trib. Varese 19/1/2012, Giud. Fumagalli, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Raffaele Squeglia, 1203)
- La disciplina vigente in materia di responsabilità solidale non è applicabile solo ai contratti di appalto di opere e servizi, ma anche a tutte quelle ipotesi in cui il rischio di impresa viene traslato, pur in presenza di una genuina segmentazione del tessuto produttivo, dall’imprenditore economicamente più solido a quello più fragile, a garanzia delle obbligazioni retributive e contributive dei lavoratori e dell’Inps. (Trib. Bolzano 13/5/2011, Est. Puccetti, in D&L 2012, con nota di Alessandro Premoli, “Responsabilità solidale negli appalti: osservazioni sul termine biennale e sull’ambito applicativo”, 530)
- In relazione al rapporto, per un verso, fra committente/imprenditore e, per altro verso, tra appaltatore/datore di lavoro e i dipendenti presi in carico da quest’ultimo, non sembra corretto affermare che sussista un’obbligazione solidale in senso tecnico sin dall’atto della costituzione dei contratti di lavoro. La solidarietà, invero, si atteggia con evidenza alla stregua di una mera garanzia che il legislatore ha voluto prevedere ex lege in favore dei lavoratori. (Trib. Torino 5/2/2011, Giud. Denaro, in Lav. nella giur. 2011, 527)
- La solidarietà tra il committente o datore di lavoro e l’appaltatore, ex art. 29 d.lgs. n. 276/2003, è prevista, a tutela esclusiva del lavoratore-creditore, il quale per l’ottenimento dell’intero suo credito può rivolgersi indifferentemente all’uno o all’altro, non essendo prevista la possibilità di ripartizione del credito tra i due debitori solidali. (Trib. Milano 25/11/2010, Est. Cuomo, in Lav. nella giur. 2011, 229)
- È applicabile anche agli appalti conferiti dalle pubbliche amministrazioni la norma di cui all’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276, secondo la quale, in caso di appalti di opere o di servizi, il committente è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e ad adempiere agli obblighi contributivi previdenziali. (Trib. Milano 22/1/2010, Est. Mennuni, in D&L 2010, con nota di Filippo Capurro, “E’ ormai ius receptum la sussistenza della responsabilità solidale tra appaltatore e Pubblica Amministrazione committente, in relazione ai crediti dei lavoratori impiegati nell’appalto”, 534)
- È applicabile anche agli appalti conferiti dalle pubbliche amministrazioni la norma di cui all’art. 29, 2° comma, D.Lgs. 10/9/03 n. 276, in quanto la deroga contenuta nell’art. 6, 1° comma, L. 14/2/03 n. 30 è limitata esclusivamente al personale delle stesse e non si estende invece ai lavoratori dipendenti dall’appaltatore. (Trib. Milano 22/1/2010, Est. Mennuni, in D&L 2010, con nota di Filippo Capurro, “È ormai ius receptum la sussistenza della responsabilità solidale tra appaltatore e Pubblica Amministrazione committente, in relazione ai crediti dei lavoratori impiegati nell’appalto”, 534)
- L’art. 3, legge n. 1369 del 1960, che prevede la responsabilità solidale dell’appaltante e dell’appaltatore, costituisce una norma di garanzia, diretta a salvaguardare i diritti dei lavoratori anche in regime di libera fornitura di mano d’opera, e trova applicazione anche nel settore portuale. (Cass. 18/1/2007 n. 1104, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in ADL 2008, con commento di Stefano Costantini, “L’applicabilità dei divieti di intermediazione e di interposizione di manodopera nel settore portuale: vecchi e nuovi problemi”, 137)
- Anche nel caso di violazione del divieto di interposizione di manodopera, ai sensi dell’art. 1, comma 5, L. 23 ottobre 1960, n. 1369, ferma restando la sussistenza, tra il committente e il datore di lavoro interposto, di un’obbligazione solidale per il pagamento delle retribuzioni, il lavoratore ha diritto alla percezione di un’unica retribuzione, sicchè dal credito retributivo azionato nei confronti del datore di lavoro interposto deve essere detratto quanto percepito dall’interponente datore di lavoro effettivo. (Cass. 27/3/2004 n. 6144, Pres. Senese Rel. Lamorgese, in Lav. nella giur. 2004, 897)
- Il termine di decadenza previsto dall’art. 4 L. 23/10/60 n. 1369, si riferisce non solo ai diritti al trattamento economico e normativo, ma anche a quelli concernenti l’adempimento degli obblighi derivanti dalle leggi previdenziali; tuttavia la notifica del verbale di accertamento da parte dell’Ispettorato del lavoro è strumento idoneo a interrompere un termine prescrizionale, ma non svolge alcun effetto di fronte a diritti il cui esercizio è posto sotto termine decadenziale (Pret. Pisa 16 marzo 1999, est. Schiavone, in D&L 2000, 258, n. Pirelli, Appalto di manodopera, contributi previdenziali e decadenza)
- L’impresa appaltante del servizio di pulizia al suo interno è solidalmente responsabile, per la corresponsione di quanto previsto dall’art. 3 L. 1369/60, con l’impresa appaltatrice, laddove l’impresa appaltante non abbia richiesto e ottenuto prima dell’inizio dell’esecuzione dei lavori l’autorizzazione prevista dall’art. 5, lett. g) legge citata, rilasciata dall’Ispettorato provinciale competente per territorio con riferimento al luogo di esecuzione dell’appalto (Pret. Milano 11/4/95, est. Sala, in D&L 1995, 986. In senso conforme, v. Trib. Milano 6/7/96, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 124)