Arbitrato

Questa voce è stata curata da Stefano Miniati

 

Scheda sintetica

L’arbitrato è un mezzo (privato) di risoluzione delle controversie previsto dal nostro ordinamento in alternativa al normale ricorso all’autorità giudiziaria.
È il procedimento (privato, appunto) attraverso il quale gli “arbitri”, nominati di comune accordo dalle parti in conflitto, risolvono una controversia.
Con un primo atto, la convenzione di arbitrato, ciascuna parte manifesta la volontà di far decidere la controversia da un giudice privato che, alla fine del procedimento, emette un provvedimento che disciplina i rapporti tra le parti stesse.
Il risultato finale del procedimento arbitrale è dunque un documento, il “lodo arbitrale”, che pone termine alla lite regolando i rapporti tra le parti. In quanto basato sul consenso delle parti, che scelgono il procedimento arbitrale in alternativa alla via giurisdizionale, l’arbitrato non può mai essere ritenuto obbligatorio, fermo restando che, qualora una parte, che ha sottoscritto un accordo di arbitrato su una determinata controversia, richieda al giudice la tutela dei suoi diritti, il giudice non potrà esaminare quella domanda e dovrà rigettarla.
Per quanto riguarda l’ambito delle controversie arbitrabili, possono essere oggetto di una procedura arbitrale esclusivamente diritti disponibili (art. 806 c.p.c.). Così, ad esempio, non possono essere oggetto di arbitrato controversie in materia di filiazione, matrimonio, separazione, divorzio.
L’accordo tra le parti si può manifestare in due diverse modalità:
il “compromesso”, con il quale le parti regolano lo svolgimento dell’arbitrato per la soluzione di una controversia già in essere. Il compromesso, in altre parole, ha ad oggetto un diritto già individuato dalle parti in conflitto;
la “clausola compromissoria”, ovvero la clausola inserita in un contratto che ha come oggetto le eventuali controversie future relative a un rapporto determinato anche di natura non contrattuale (ad esempio arbitrato nelle controversie con la pubblica amministrazione che riguardano diritti soggettivi; arbitrato nell’ambito di una controversia tra eredi relativa a una successione).

Nel nostro ordinamento si distinguono due forme di arbitrato:

  • l’arbitrato rituale, disciplinato dal codice di procedura civile (artt. 806-832);
  • l’arbitrato irrituale, rimesso dall’ordinamento all’autonomia negoziale delle parti o disciplinato dal legislatore in altre norme: ad esempio nell’ambito del diritto del lavoro l’art. 7 legge 604/1966, l’art. 5 legge 533/1970, gli artt. 412 ter e quater del c.p.c.

Quanto alle controversie in materia di rapporti di lavoro, si riferisce all’arbitrato rituale gli artt. 806, II comma e 829 u.c. cpc, mentre il ricorso all’arbitrato irrituale è regolato dagli articoli 412 ter e quater del c.p.c. ed è concesso solo a fronte di rigorosi adempimenti a tutela dell’effettività della volontà delle parti.
Nel settore lavoristico non vi è, infatti, piena libertà d’uso dello strumento in questione, a tutela del lavoratore. La legge prevede, quindi, che il ricorso all’arbitrato rituale sia possibile solo quando sia prescritto da una norma di legge o sia previsto dalla contrattazione collettiva, garante degli interessi dei singoli lavoratori, non essendo sufficiente, come invece previsto per la disciplina di diritto comune, il mero accordo delle parti.
In entrambe le forme di arbitrato la funzione è unica e consiste nella decisione della controversia, ovvero le parti vogliono far valere i loro diritti, anche se in una sede diversa da quella giurisdizionale.

La differenza tra le due forme di arbitrato riguarda innanzitutto l’efficacia del lodo:

  • ai sensi dell’art. 824 bis c.p.c. il lodo rituale produce gli stessi effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria. In caso di inadempimento può essere depositato nella cancelleria del tribunale del luogo in cui è stato pronunciato e può essere chiesto al giudice che con proprio decreto conferisca efficacia esecutiva alla decisione arbitrale (c.d. “exequatur”), fermo restando che anche senza exequatur la decisione rimane comunque vincolante per le parti.
  • nel caso di lodo irrituale, invece, la parte vittoriosa, se vuole ottenere un titolo esecutivo, in caso di mancato spontaneo adempimento della parte soccombente, deve ricorrere all’autorità giudiziaria e procurarselo con un decreto ingiuntivo o con una sentenza, a seguito di un giudizio ordinario.

I due arbitrati divergono anche per quanto riguarda il regime del lodo.
Il lodo rituale può essere impugnato solo con i mezzi previsti dall’art. 827 cpc, e nei termini, invero brevi, stabiliti dal codice per i singoli mezzi di impugnazione ivi previsti, mentre la contestazione di un lodo irrituale può avvenire in un normale processo di primo grado nei termini di prescrizione del diritto oggetto della procedura.
Solo con riferimento all’arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi, il legislatore (art. 412 quater cpc) ha stabilito un temine breve (trenta giorni decorrenti dalla sua notificazione) per l’impugnazione davanti al Tribunale del lavoro e la sentenza che decide è inappellabile.
Per stabilire se le parti hanno inteso affidarsi a un arbitrato rituale o irrituale, il legislatore ha previsto che la scelta per quest’ultimo mezzo debba emergere espressamente dall’accordo. Nei casi dubbi l’arbitrato deve qualificarsi come rituale (art. 808 ter cpc).
Quanto alla disciplina dell’arbitrato, il codice dispone che, salva una diversa volontà delle parti, tutte le norme previste per l’arbitrato rituale si applicano anche a quello irrituale (fatto salvo ovviamente quelle incompatibili con l’istituto stesso: exequatur e mezzi di impugnazione).

 

Fonti normative

  • Codice di Procedura Civile: artt. 806 e ss. e 412 ter e quater
  • Decreto legislativo n. 40 del 2 febbraio 2006
  • Decreto legislativo n. 387 del 29 ottobre 1998
  • Decreto legislativo n. 80 del 31 marzo 1998
  • Legge n. 533 del 11 agosto 1973
  • Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), art. 7 in materia di impugnazione dei provvedimenti disciplinari.
  • Legge 183/2010 (cd. “Collegato lavoro”)

 

 

Regimi speciali

  • L’arbitrato rituale nel pubblico impiego – artt. 58 bis Decreto legge n. 29 del 3 febbraio 1993 e 409, n. 5 c.p.c.;
  • L’arbitrato irrituale nei licenziamenti – artt. 7 co. 5, Legge n. 604 del 15 luglio 1966 e 5, co. 6 Legge n. 108 dell’11 maggio 1990;
  • L’arbitrato irrituale per il licenziamento del dirigente – contrattazione collettiva;

 

 

Cosa fare

Per avere informazioni sulla disciplina relativa a arbitrati rituali e irrituali o su clausole, riguardanti le procedure arbitrali, inserite nei contratti individuali di lavoro o nei contratti collettivi nazionali di lavoro, contattare un Ufficio Vertenze Sindacale e uno studio legale specializzato in diritto del lavoro.

 

Scheda di approfondimento

Nell’ambito del diritto del lavoro sussiste dunque, analogamente a quanto accade nel contesto della disciplina di diritto comune, la distinzione fra arbitrato rituale e irrituale.
Il primo è consentito solo se previsto dalla legge o dai contratti o accordi collettivi di lavoro (art. 806 c.p.c., così come modificato dall’art. 20 D.Lgs. 40/2006), e sia espressa la volontà delle parti di devolvere la controversia ad un collegio arbitrale.
Si tratta di un “arbitrato di diritto” e dunque, a mente dell’art. 829 c.p.c., impugnabile sia per questioni di diritto che per violazione di legge, oltre che per violazione di contratti e accordi collettivi.
Vi sono due tipologie di arbitrato irrituale, invece, regolate dall’art. 5 della legge 533/1973 e dagli artt. 412 ter e quater c.p.c.: il primo tipo (legge 533/1973) dev’essere previsto dalla legge o dai contratti collettivi nazionali, e vi dev’essere il consenso delle parti interessate. Ha efficacia di contratto tra le parti e non può pertanto acquistare efficacia di titolo esecutivo, mentre può essere impugnato davanti al Tribunale competente, ai sensi dell’art. 413 cpc, nei termini ordinari di prescrizione.
Per quanto riguarda invece il secondo tipo di arbitrato irrituale (artt. 412 ter e quater cpc), dev’essere previsto dai contratti collettivi nazionali, e vi dev’essere il consenso delle parti interessate.
I contratti collettivi devono anche stabilire le regole del processo arbitrale, per consentire ai lavoratori che scelgono questo mezzo di risoluzione delle loro controversie di sapere preventivamente come si svolgerà. Ulteriore condizione è che sia stata promossa l’istanza ex art. 410 c.p.c. e che il tentativo di conciliazione non sia riuscito o sia comunque spirato il termine per il suo espletamento.
È anch’esso un arbitrato che si configura come “volontario” e “di diritto”. In quest’ultimo senso l’art. 412 quater, comma 1, prevede, infatti, che “sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale decide in unico grado il Tribunale…” senza limitazioni di sorta. Devono pertanto respingersi quelle interpretazioni della norma tendenti a configurarlo quale arbitrato di equità (nel quale cioè il giudizio degli arbitri è svincolato dal rispetto delle norme di legge o della contrattazione collettiva).
Il lodo arbitrale, in questo secondo caso, può acquistare efficacia di titolo esecutivo a seguito di istanza della parte interessata, depositata nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione si trova la sede dell’arbitrato, e del conseguente decreto emesso dal giudice.
Il termine per impugnare il lodo è stato ridotto a 30 giorni, che decorrono dalla sua notificazione.

 

Le modifiche del cd. Collegato Lavoro (Legge 183/2010)

Con riferimento all’arbitrato, il Collegato Lavoro all’art. 31 Legge 183/2010, in vigore dal giorno 24/11/2010, ha introdotto, in materia di conciliazione e arbitrato, numerose modifiche, che incidono sia sulle regole di diritto sostanziale che processuale.

 

A) Modifica all’art. 410 c.p.c.

Il tentativo di conciliazione, da obbligatorio diviene facoltativo (con la sola eccezione delle vertenze aventi ad oggetto la certificazione dei contratti di lavoro ex art. 80, comma 4, del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, per i quali, invece, rimane obbligatorio).
Oggi, quindi, chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti previsti dall’articolo 409 c.p.c. può, ma non deve, promuovere, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, il tentativo di conciliazione presso la Commissione di Conciliazione individuata secondo i criteri di cui all’articolo 413 c.p.c., ovvero, presso la Direzione Provinciale del Lavoro della provincia in cui è sorto il rapporto, oppure, della provincia in cui si trova l’azienda oppure della provincia in cui si trovava la dipendenza dell’azienda al momento della fine del rapporto.
Nel caso di rapporti di collaborazione, agenzia e rappresentanza, il tentativo di conciliazione può essere promosso unicamente presso la Commissione di Conciliazione istituita presso la Direzione Provinciale del Lavoro nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante o del titolare del rapporto di collaborazione.
Come in precedenza, la comunicazione della richiesta di tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Quanto agli oneri di forma previsti dalla normativa, l’istanza per il tentativo di conciliazione deve essere consegnato o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento.
Quanto al contenuto, l’istanza per il tentativo di conciliazione deve contenere:

  1. nome, cognome e residenza dell’istante e del convenuto; se l’istante o il convenuto sono una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, l’istanza deve indicare la denominazione o la ditta nonché la sede;
  2. il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;
  3. il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;
  4. l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.

Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deve depositare – presso la commissione di conciliazione – entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, le eventuali domande in via riconvenzionale.
Entro i dieci giorni successivi al deposito di tale memoria, la Commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni.
Dinanzi alla Commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.
In caso di mancata accettazione della procedura di conciliazione, ciascuna delle parti è libera di adire l’Autorità Giudiziaria.
Se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 410 c.p.c. Il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale.

 

B) Modifiche introdotte all’art. 411 c.p.c.

La disposizione come modificata dal Collegato Lavoro prevede che se il tentativo di conciliazione ha esito positivo, anche solo per una parte della domanda, viene redatto verbale di conciliazione sottoscritto dalle parti.
In caso, invece, di esito negativo del tentativo di conciliazione, la Commissione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia.
Se la proposta non è accettata, nel verbale di convocazione viene indicata la proposta formulata con specificazione delle indicazioni espresse dalle parti. Di quanto riportato nel verbale della Commissione e delle motivazioni della non accettazione della proposta, il Giudice successivamente adito ne tiene conto in sede di giudizio.
Qualora il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso depositato ai sensi degli articoli 414 e 415 c.p.c. dinanzi al Giudice Unico del Lavoro, devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito.

 

Le forme di arbitrato previste dal “Collegato Lavoro” (Legge 183/2010)

Il Collegato Lavoro introduce tre diverse forme di arbitrato:

  • l’arbitrato che si può instaurare durante o all’esito del tentativo di conciliazione dinanzi alle Commissione di Conciliazione (art. 412 c.p.c.);
  • l’arbitrato previsto dai contratti collettivi sottoscritti dalle Associazioni Sindacali maggiormente rappresentative (art. 412ter c.p.c.);
  • l’arbitrato presso la Camere Arbitrali costituite dagli organi di certificazione e l’arbitrato dinanzi al Collegio di Conciliazione e Arbitrato irrituale costituita a iniziativa delle parti individuali di lavoro per risolvere una controversia (art. 412quater c.p.c.).

Vediamone in dettaglio gli aspetti specifici.

 

A) Risoluzione arbitrale della controversia (art. 412 c.p.c.)

La disposizione di legge prevede che in qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla Commissione di Conciliazione, alla quale si sono rivolte per il tentativo di conciliazione, il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia.
Le parti potranno affidare la risoluzione della controversi in tali ipotesi, anche in assenza di un esplicita previsione contrattuale o di accordi collettivi.
La disposizione di legge prevede espressamente che nel conferire il mandato alla Commissione per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono indicare:

  1. il termine per l’emanazione della decisione, in ogni caso non superiore ai sessanta giorni dal conferimento del mandato;
  2. le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.

Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui all’articolo 1372 e all’articolo 2113, quarto comma, c.c.
Il lodo è quindi vincolante, ha forza di legge tra le parti.
Il lodo è impugnabile ai sensi dell’articolo 808-ter c.p.c. (disposizione in materia di arbitrato irrituale), ovvero, in tali casi:

  • se la convezione di arbitrato è invalida o qualora gli arbitri abbiano pronunciato su conclusioni che esorbitino dai propri limiti e la relativa eccezione si stata sollevata nel procedimento arbitrale;
  • in caso di nomina degli arbitri con forme e modi diversi da quelli previsti dalla convenzione arbitrale;
  • se il lodo sia stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro ex art. 812 c.p.c. (ovvero chi è privo in tutto o in parte della capacità di agire);
  • se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle convenzioni arbitrali come condizioni di validità del lodo;
  • se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio.

In merito alle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale irrituale, ai sensi dell’articolo 808-ter c.p.c., decide in unico grado il Tribunale, in funzione di Giudice del Lavoro, nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il ricorso deve essere depositato entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo.

 

B) Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva (art. 412-ter c.p.c.)

Nella nuova formulazione prevede che la conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’articolo 409 c.p.c., possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

 

C) Altre modalità di conciliazione e arbitrato (art. 412-quater c.p.c.)

La disposizione prevede che ferma la facoltà delle parti di proporre una causa dinanzi all’autorità giudiziaria, ovvero, di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste dalla legge, le controversia di cui all’art. 409 c.p.c. possono essere altresì proposte innanzi al Collegio di Conciliazione e arbitrato irritale costituito ad hoc secondo quanto previsto dalla disposizione, ovvero un Collegio di Conciliazione e Arbitrato è composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di Presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione.
Quanto alle forme di devoluzione in arbitri nel caso di specie, la parte che intenda ricorrere al collegio di conciliazione e arbitrato notifica all’altra parte un ricorso sottoscritto, salvo che si tratti di una pubblica amministrazione, personalmente o da un suo rappresentante al quale abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio.
Il ricorso deve contenere la nomina dell’arbitro di parte e indicare l’oggetto della domanda, le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda la domanda stessa, i mezzi di prova e il valore della controversia entro il quale si intende limitare la domanda. Il ricorso deve contenere il riferimento alle norme invocate dal ricorrente a sostegno della sua pretesa e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.
Se la parte convenuta intende accettare la procedura di conciliazione e arbitrato, deve nominare il proprio arbitro di parte.
L’arbitro nominato dalla parte convenuta provvede, entro trenta, giorni dalla notifica del ricorso procede, ove possibile, concordemente con l’altro arbitro, alla scelta del presidente e della sede del collegio.
Ove ciò non avvenga, la parte che ha presentato ricorso può chiedere che la nomina sia fatta dal presidente del Tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato.
Se le parti non hanno ancora determinato la sede, il ricorso è presentato al Presidente del Tribunale del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro o ove si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto.
In caso di scelta concorde del terzo arbitro e della sede del Collegio, la parte convenuta, entro trenta giorni da tale scelta, deve depositare presso la sede del collegio una memoria difensiva esponendo le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, le eventuali domande in via riconvenzionale e l’indicazione dei mezzi di prova.
Entro dieci giorni dal deposito della memoria difensiva della parte convenuta, il ricorrente può depositare presso la sede del collegio una memoria di replica senza modificare il contenuto del ricorso. Nei successivi dieci giorni il convenuto può depositare presso la sede del collegio una controreplica senza modificare il contenuto della memoria difensiva.
Il collegio fissa il giorno dell’udienza, da tenere entro trenta giorni dalla scadenza del termine per la controreplica del convenuto, dandone comunicazione alle parti, nel domicilio eletto, almeno dieci giorni prima.
All’udienza il Collegio esperisce il tentativo di conciliazione. Se la conciliazione riesce, si applicano le disposizioni dell’articolo 411, commi primo e terzo, c.p.c. venendo quindi redatto verbale di conciliazione.
Se la conciliazione non riesce, il Collegio provvede, ove occorra, a interrogare le parti e ad ammettere e assumere le prove, altrimenti, invita all’immediata discussione orale.
Nel caso di ammissione delle prove, il Collegio può rinviare ad altra udienza, a non più di dieci giorni di distanza, l’assunzione delle stesse e la discussione orale.
La controversia è decisa, entro venti giorni dall’udienza di discussione, mediante un lodo. Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produce tra le parti gli effetti di cui agli articoli 1372, avendo forza di legge tra le parti, e 2113, quarto comma del codice civile.
Il lodo è impugnabile ai sensi dell’articolo 808-ter c.p.c.
Quanto ai costi del presente procedimento, il compenso del Presidente del Collegio è fissato in misura pari al 2% del valore della controversia dichiarato nel ricorso ed è versato dalle parti, per metà ciascuna, presso la sede del Collegio mediante assegni circolari intestati al presidente almeno cinque giorni prima dell’udienza. Ciascuna parte provvede a compensare l’arbitro da essa nominato.
Le spese legali e quelle per il compenso del presidente e dell’arbitro di parte, queste ultime nella misura dell’1 per cento del suddetto valore della controversia, sono liquidate nel lodo ai sensi degli articoli 91, primo comma, e 92.

 

Le clausole compromissorie

Quanto alle clausole compromissorie, con le quali le parti si accordano per devolvere ad arbitri le controversie aventi ad oggetto le materie di cui all’articolo 409 c.p.c., le parti contrattuali possono pattuire clausole compromissorie di cui all’articolo 808 c.p.c. che rinviano alle modalità di espletamento dell’arbitrato di cui agli articoli 412 e 412-quater del codice di procedura civile, solo ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
La clausola compromissoria, a pena di nullità, deve essere certificata in base alle disposizioni di cui al titolo VIII del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, dagli organi di certificazione di cui all’articolo 76 del medesimo decreto legislativo, e successive modificazioni;
La clausola compromissoria non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi;
La clausola compromissoria non può riguardare controversie relative alla “risoluzione del contratto di lavoro”. Si deduce, quindi, che la materia del licenziamento è sottratta alla decisione arbitrale.
Dalla formulazione utilizzata pare di poter affermare che siano da ritenere escluse dalle decisioni arbitrali anche le controversie aventi ad oggetto dimissioni, risoluzione consensuale. Si rileva poi che anche le controversie inerenti il pagamento del TFR e le spettanze di fine rapporto trovano origine nella risoluzione del contratto di lavoro.
Davanti alle Commissioni di certificazione le parti possono farsi assistere da un legale di loro fiducia o da un rappresentante dell’organizzazione sindacale o professionale a cui abbiano conferito mandato.
La disposizione in punto di clausole compromissorie non è ancora operativa. La norma prevede infatti che entro 12 mesi dall’entrata in vigore del Collegato Lavoro (e quindi entro il 21/11/2011), in mancanza del raggiungimento degli accordi collettivi di cui sopra, il Ministero del Lavoro convocherà le parti sociali per promuovere le intese, ovvero in caso di esito negativo, darà attuazione alla disposizione in via sperimentale.
Le disposizioni degli articoli 410, 411, 412, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile si applicano anche alle controversie di cui all’articolo 63, comma 1, del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ovvero, in materia di rapporti di lavoro nel settore pubblico.

Per informazioni o approfondimenti, si consiglia di rivolgersi all’ufficio vertenze sindacale o a uno studio legale specializzato in diritto del lavoro.

 

Il giudizio di equità e i limiti

Con sentenza n. 206/2004, la Corte Costituzionale ha sancito un principio fondamentale in materia di giudizio di equità: se inteso come fonte autonoma e alternativa alla legge, si porrebbe in contrasto con il principio di legalità su cui si fonda tanto la garanzia di tutela giurisdizionale dei diritti ex art. 24 Cost., quanto la soggezione del Giudice alle legge ex art. 101 Cost.
Come precisato dalla Corte Costituzione il giudizio d’equità (…) deve trovare i suoi limiti in quel medesimo ordinamento nel quale trovano il loro significato la nozione di diritto soggettivo e la relativa garanzia di tutela giurisdizionale.
L’obbligo di osservanza dei principi regolatori della materia consente di introdurre un limite al giudizio di equità che in questo modo non diventa un giudizio extra – giuridico, ovvero, un’alternativa alla legge.
In questo quadro, la Legge 183/2010 non fa altro che recepire gli insegnamenti della Corte Costituzionale.
Dubbi interpretativi permangono, invece, in relazione alla individuazione dei principi regolatori della materia. Il richiamo non può essere fatto tout court alle norme imperative poiché non sempre si ha chiarezza in merito al fatto che la singola norma imperativa assurga anche a principio generale o sia “solo” inderogabile.

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di arbitrato

 

In genere

  1. Nelle procedure di arbitrato irrituale in materia di lavoro privato, il lodo non è impugnabile nelle forme e nei modi ordinari ma, ai sensi dell’art. 412-quater c.p.c., in unico grado innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro, la cui sentenza è ricorribile in cassazione; ne consegue l’inammissibilità dell’eventuale impugnazione in appello e, trattandosi di incompetenza per grado, la non operatività del principio in forza del quale la decadenza dalla impugnazione è impedita dalla proposizione del gravame ad un giudice incompetente. (Cass. 9/6/2020 n. 10988, Pres. Berrino Rel. Amendola, in Lav. nella giur. 2020, 1097)
  2. Poiché il lodo arbitrale irrituale previsto dal CCNQ 23 gennaio 2001 per il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche ha natura negoziale, esso non è impugnabile per errori di diritto, ma solo per i vizi che possono vulnerare le manifestazioni della volontà negoziale. (Trib. Bologna 5/11/2008 n. 551, in Lav. nelle P.A. 2009, 139)
  3. La richiesta di impugnazione, dinanzi all’arbitro unico, in base al CCNQ 23 gennaio 2001, di sanzione disciplinare non risolutiva del rapporto di lavoro, formulata oltre il termine di 20 giorni dalla applicazione della sanzione stessa, non vincola l’amministrazione, la quale, tuttavia, pur non avendone l’obbligo, può aderirvi, esercitando la capacità e i poteri del privato datore di lavoro conferitile dall’art. 5 del d.lgs. 165/2001; pertanto, se a fronte di siffatta richiesta l’amministrazione accetta che venga avviato e si concluda il procedimento di nomina dell’arbitro a norma dell’art. 3 del menzionato contratto quadro essa non può successivamente sollevare in alcun momento della procedura arbitrale l’eccezione di tardività per mancato rispetto da parte del lavoratore del menzionato termine di 20 giorni perchè ciò equivarrebbe a una non più ammissibile (v. art. 3, commi 2 e 3, del cit. CCNQ) revoca del consenso già prestato. (Cass. 26/2/2008 n. 5045, Pres. Ianniruberto Est. Curcuruto, in Lav. nelle P.A. 2008, 873)
  4. Nell’art. 32 D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 non è ravvisabile alcun profilo di illegittimità costituzionale, in quanto esso non prevede un arbitrato cosiddetto obbligatorio e risulta per questo aspetto rispettoso dei principi affermati dalla Corte Costituzionale circa il fondamento dell’arbitrato sull’accordo delle parti. L’art. 32 D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 attribuisce all’arbitrato il carattere di “amministrato”, e questo non appare in contrasto con la Costituzione. L ’art. 32 D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554 dispone un’ampia delegificazione, in coerenza con la filosofia cui è improntata tutta la L. 11 febbraio 1994, n. 109, con l’indicazione dei criteri (rispetto dei principi del codice di procedura civile per il procedimento arbitrale; principi di trasparenza, imparzialità e correttezza per la camera arbitrale), cui l’esercizio della potestà regolamentare deve attenersi. L’art. 150, terzo comma, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 è illegittimo in quanto esorbita dai limiti fissati dalla normativa primaria che non contiene alcuna previsione, che comunque sarebbe dovuta essere espressa, circa l’attribuzione della potestà regolamentare del Governo della fissazione dei criteri per la composizione dei collegi arbitrali e, tanto meno, della sottrazione alle parti del potere di scegliere d’accordo tra di loro il terzo arbitro, che sovente costituisce l’ago della bilancia del giudizio arbitrale. Quand’anche volesse ammettersi la sussistenza della potestà regolamentare, l’art. 150, 3° comma, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 sarebbe illegittimo perché in contrasto con i principi sanciti dagli artt. 809 e segg. c.p.c. ritenuti fondamentali dall’art. 32, 2° comma, L. 11 febbraio 1994, n. 109. L’arbitrato non può che essere facoltativo e volontario, sia per la scelta di esso compiuta dalle parti in luogo dei rimedi ordinari, che per la scelta degli arbitri fatta liberamente dalle parti stesse, tanto che, se i componenti di un collegio siano designati con criteri diversi da quelli della libera scelta delle parti, si tratterebbe di un vero e proprio organo di giurisdizione speciale, come tale, illegittimo. L’individuazione delle norme che devono essere osservate nel procedimento arbitrale appartiene alla disponibilità delle parti (art. 816, 2° comma c.p.c.) salva la facoltà degli arbitri, in caso di mancanza di tali norme, di regolare lo svolgimento del giudizio nel modo che ritengono più opportuno (art. 816, 3° comma c.p.c.), fatti salvi il diritto di difesa delle parti o il principio del contraddittorio. I principi di diritto processuale generale che costituiscono l’intelaiatura fondamentale dell’intero codice di procedura civile sono applicabili anche al procedimento arbitrale. Le disposizioni che sono frutto di scelta legislativa per il solo processo ordinario non possono assurgere al rango di capisaldi del diritto processuale e, come tali, sono derogabili attraverso una scelta legislativa di pari rango qual è quella effettuata dall’art. 32 L. 11 febbraio 1994, n. 109. Gli arbitri amministrati altro non sono che forme assistite da un’istituzione a ciò preposta, che provvede ad una serie di incombenze pratiche, svolgendo sostanzialmente una funzione di controllo dell’intero processo arbitrale, al fine di rendere meno litigioso lo svolgimento della procedura arbitrale, senza che ciò comporti alcun rapporto tra gli arbitri e la istituzione, arbitri che nel momento in cui accettano, si impegnano esclusivamente nei confronti delle parti. (Consiglio di Stato 17/10/2003 n. 6335, Pres. Salvatore Rel. Leoni, in Giur. It. 2004, 61, con nota di Massimiliano Nisati e Giuseppe Cassano, “La composizione dei collegi arbitrali dopo la dichiarazione di illegittimità dell’art. 150. 3° comma, D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554”)
  5. Nell’arbitrato irrituale – tale è ai sensi dell’art. 412 ter c.p.c., l’arbitrato previsto dai contratti o accordi collettivi in base al quale le parti concordano di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia – il termine prefissato dalle parti per la pronunzia del lodo è per natura e struttura “essenziale” e pertanto alla sua osservanza sono subordinate la regolarità della decisione arbitrale e la riferibilità della stessa ai compromettenti, salvo che questi abbiano manifestato una diversa volontà, dovendosi considerare estinto alla scadenza del termine prefissato dalle parti il mandato, secondo la disciplina del mandato applicabile all’arbitrato irrituale. (Trib. Milano 14/4/2003 n. 1145, Est. Porcelli, in Lav. nella giur. 2003, 1168)
  6. Poichè il lodo emesso nel dicembre del 1998 (in controversia instaurata mediante impugnazione di licenziamento disciplinare intimato da un comune) dal collegio arbitrale previsto dall’art. 59, 7° comma, d. lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, costituito presso lo stesso comune, ha natura rituale, deve cassarsi la sentenza del tribunale, che, investito dall’impugnazione avverso il medesimo lodo, la ritiene devoluta alla cognizione del pretore in funzione di giudice del lavoro, con rinvio della causa alla Corte d’Appello stante l’intervenuta istituzione, nelle more, del giudice unico di primo grado. (Cass. 7/1/2003, n.44, Pres. Ianniruberto, Est. Amoroso, in Foro it. 2003, parte prima, 437)
  7. Le censure nei confronti dei lodi irrituali sono costituite dalla nullità per violazione di norme inderogabili di legge ex art. 1418 c.c., nonché dall’annullabilità per errore, violenza o dolo a norma degli artt. 1427 c.c. e ss. Non è possibile ricondurre all’errore essenziale o sostanziale ex art. 1429 c.c. un diverso apprezzamento di fatto e di diritto rispetto a quello compiuto dagli arbitri con la loro decisione. Non è quindi rilevante, ai fini dell’impugnazione, l’errore di giudizio di fatto e in diritto. (Cass. 10/7/2002, n. 10035, Pres. Dell’Anno, Est. Filadoro, in Riv. it. dir. lav. 2003, 644, con nota di Chiara Ceccarelli, A piccoli passi verso un giudizio arbitrale unitario)