Definizione
Si ha conciliazione ogni qual volta le parti, su propria iniziativa ovvero avvalendosi di apposite strutture, risolvono una controversia mediante un accordo.
La conciliazione può aver luogo in sede giudiziale o in sede stragiudiziale.
Nel primo caso, le parti raggiungono un accordo dinanzi al giudice in udienza.
Nel secondo caso, invece, l’accordo viene raggiunto al di fuori del contesto processuale e, nel contesto giuslavoristico, può essere, a sua volta, distinto a seconda che esso si raggiunga in sede amministrativa (ossia avanti alla Direzione territoriale del lavoro) o in sede sindacale (ossia avanti ad una commissione costituita da incaricati appartenenti ad organizzazioni sindacali rappresentative di tutte le parti).
In riferimento alla conciliazione stragiudiziale, si anticipa sin d’ora che la legge 183/2010 ha eliminato l’obbligo di esperire un tentativo conciliativo in sede amministrativa prima di avviare la causa innanzi al giudice del lavoro. Infatti, mentre in passato chi avesse voluto promuovere una causa di lavoro per qualunque motivo, aveva l’obbligo di esperire preventivamente il tentativo obbligatorio di conciliazione avanti all’apposita commissione della Direzione provinciale del lavoro, oggi questo obbligo non esiste più, se non nell’ipotesi in cui si intenda impugnare un contratto certificato.
Peraltro, come si dirà in modo più approfondito nel prosieguo, la legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro ha introdotto una nuova procedura preventiva che i datori di lavoro, a cui si applichi la disciplina dell’art. 18, debbono necessariamente esperire avanti alla Direzione territoriale del lavoro, nei casi in cui intendano intimare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Tuttavia, il successivo D.Lgs. 23/2015 ha escluso l’applicabilità di tale forma conciliativa in relazione ai contratti di lavoro stipulati dopo la sua entrata in vigore (7 marzo 2015).
Per ulteriori approfondimenti si veda anche la voce Processo del lavoro
Fonti normative
- Codice di procedura civile, art. 410, 410 bis, 411, 412, 412 bis, 420
- Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, artt. 65 e 66
- Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276, art. 80;
- Legge 4 novembre 2010, n. 183, art. 31;
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, artt. 3 e 6
A chi rivolgersi
- Uffici vertenze, presso strutture sindacali
- Studi legali specializzati in diritto del lavoro
Scheda di approfondimento
Il legislatore italiano ha sempre mostrato uno spiccato favore per la soluzione conciliativa delle controversie di lavoro, mutando unicamente nel tempo la configurazione del corrispondente tentativo in relazione alla domanda giudiziale.
Nel codice del ’42, emanato nella vigenza dell’ordinamento corporativo, nel quale le associazioni sindacali avevano la rappresentanza legale di tutte le categorie dei datori di lavoro e dei lavoratori, la denuncia della lite a quelle associazioni ed il tentativo di conciliazione in sede sindacale costituivano presupposti necessari per l’esercizio dell’azione relativa alle controversie di lavoro (art. 430 c.p.c.).
A seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo, la norma in questione è stata travolta e sostituita da un’interpretazione giurisprudenziale e dottrinale che ha ridotto il tentativo di conciliazione, previsto da numerosi contratti e accordi collettivi come obbligatorio, ad adempimento meramente facoltativo.
La tematica della conciliazione è stata poi ripresa da successive leggi che hanno preceduto la riforma del ’73.
L’art. 7 della Legge n. 604/1966 in materia di licenziamenti individuali ha previsto, accanto alle procedure sindacali, la possibilità di esperire il tentativo di conciliazione dinanzi all’Ufficio provinciale del lavoro.
Il nuovo art. 410 c.p.c., introdotto a seguito della riforma del processo del lavoro, ha esteso questa ipotesi alla generalità delle controversie di lavoro, fermo restando il carattere facoltativo della procedura.
Con un ritorno al passato, il legislatore ha infine riproposto come obbligatorio il tentativo di conciliazione, con riferimento dapprima alle sole cause di licenziamento nelle aziende fino a 15 dipendenti (Legge 108/1990), poi alla totalità delle controversie di lavoro (D.Lgs. 80/1998), per le quali era quindi condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Attualmente, dopo l’entrata in vigore della Legge 183/2010 (cd. “Collegato lavoro”) il tentativo di conciliazione è tornato ad essere facoltativo, con la sola eccezione dei contratti certificati per cui permane l’obbligatorietà presso la sede che ha effettuato la certificazione prima dell’azione in giudizio.
Da ultimo, la riforma del 2012 ha introdotto una nuova forma di conciliazione che deve essere attuata in tutti e nei soli casi di licenziamento intimato, per giustificato motivo oggettivo, da un datore di lavoro a cui si applichi la disciplina prevista dall’art. 18.
L’art. 3 del D.Lgs. 23/2015, tuttavia, ha espressamente escluso l’applicabilità di tale procedura conciliativa alle controversie riguardanti i lavoratori assunti tramite un contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti. Al contrario, l’art. 6 del medesimo decreto ha previsto una nuova forma di conciliazione facoltativa che può essere promossa esclusivamente nel caso in cui la controversia riguardi il licenziamento di un lavoratore assunto in forza di questa nuova tipologia contrattuale.
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Conciliazione giudiziale
E’ la conciliazione raggiunta dalle parti dinanzi al giudice in udienza.
Secondo quanto stabilito dall’art. 420 c.p.c., infatti, in apertura dell’udienza di discussione, il giudice deve procedere all’interrogatorio libero delle parti e al tentativo di conciliazione. A tal fine, le parti hanno l’obbligo di comparire personalmente.
Se non compare personalmente, la parte può farsi rappresentare da un procuratore speciale; in tal caso, la procura deve essere conferita mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve espressamente attribuire al procuratore il potere di conciliare o di transigere la lite.
Se la conciliazione riesce, se ne redige processo verbale che ha efficacia di titolo esecutivo. Se non riesce, la controversia procede delle forme ordinarie.
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Conciliazione stragiudiziale
Con l’entrata in vigore della Legge 4 novembre 2010, n. 183, che ha modificato l’art. 410 c.p.c., a far data dal 24 novembre 2010, chi intende proporre un’azione in giudizio non è più obbligato a promuovere preliminarmente un tentativo di conciliazione.
L’obbligo permane esclusivamente qualora la controversia riguardi contratti certificati.
Quindi, in linea generale, il tentativo di conciliazione è meramente facoltativo e non costituisce più una condizione di procedibilità della domanda (la legge n. 183/2010 ha abrogato, con l’art. 31 comma 9 anche gli artt. 65 e 66 che disciplinavano il tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie individuali relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni).
Il tentativo di conciliazione può essere promosso:
- in sede amministrativa, presso le apposite commissioni di conciliazione istituite presso la DTL (art. 410 c.p.c.);
- in sede sindacale secondo le procedure previste dai contratti collettivi (art. 412ter c.p.c.);
- presso le commissioni di certificazione (art. 76, D.Lgs. 276/2003)
Conciliazione amministrativa
La richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione – che, come detto con l’entrata in vigore della Legge 183/2010 non è più obbligatorio – deve essere inoltrata all’apposita commissione istituita presso la DTL competente secondo i criteri di competenza fissati dall’art. 413 c.p.c.
La commissione è composta, oltre che dal direttore dell’ufficio o da un suo delegato in funzione di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei lavoratori e dei datori di lavoro, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale.
La commissione, ricevuta la richiesta, convoca le parti per una riunione da tenersi entro i successivi dieci giorni. La comunicazione della richiesta all’ufficio interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.
Se la conciliazione riesce, anche limitatamente a una parte della domanda, viene redatto il verbale, sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione. Il giudice, su richiesta della parte interessata, lo dichiarerà esecutivo con decreto.
In caso contrario, la commissione di conciliazione deve formulare una proposta di bonaria definizione della controversia, il cui contenuto, nel caso in cui non venga accettata, deve essere riassunto nel verbale con l’indicazione delle valutazioni espresse dalle parti affinché il giudice possa tenerne conto nel successivo ed eventuale giudizio di merito.
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Conciliazione in sede sindacale
La conciliazione in sede sindacale si presenta come alternativa a quella dinanzi alla Commissione di conciliazione istituita presso la DTL: essa viene attivata sulla base di procedure previste da contratti e accordi collettivi.
Laddove la conciliazione venga raggiunta, il relativo verbale deve essere depositato, a cura di una delle parti o per il tramite dell’associazione sindacale, presso la DTL territorialmente competente.
Il direttore dell’ufficio, accertata l’autenticità del verbale, provvede a depositarlo presso la cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato formato, dove il giudice, verificatane la regolarità formale, lo dichiara esecutivo con decreto.
Se la conciliazione non riesce, si applicano le norme dettate per la conciliazione in sede amministrativa.
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Conciliazione nel pubblico impiego
L’art. 30, 9° comma, seconda parte dell’art. 31 della Legge 183/2010 ha espressamente abrogato gli artt. 65 e 66 del D.Lgs. 165/2001 che disciplinavano il tentativo di conciliazione per le controversie relative al pubblico impiego contrattualizzato.
Anche per tali controversie (richiamate dall’art. 63, 1° comma del D.Lgs. 165 cit. ) così come per quelle relative al rapporto di lavoro privato avanti al Giudice del lavoro la disciplina è attualmente dettata dal nuovo testo dell’art. 410 c.p.c. (come modificato dalla L. 183/2010), disciplina che – come ampiamente illustrato alle voce Processo del lavoro – ripropone alcune delle formalità che contraddistinguevano il tentativo di conciliazione per le controversie individuali relative al pubblico impiego precedentemente in vigore.
Per tali controversie trovano applicazione anche le disposizioni degli artt. 411, 412, 412 ter e 412 quater come sostituiti dalla L. 183/2010.
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La procedura preventiva obbligatoria introdotta dalla l. 92/2012 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La legge 92/2012 ha introdotto una nuova procedura conciliativa da attuare nelle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da un datore di lavoro cui si applichi la disciplina di cui all’art. 18 S.L.
Più precisamente, la riforma prevede che, in questo caso, il licenziamento debba essere preceduto da una comunicazione preventiva alla Direzione territoriale del lavoro ove ha sede l’unità produttiva nella quale è impiegato il lavoratore. La comunicazione deve essere inoltre trasmessa a quest’ultimo per conoscenza.
In tale comunicazione, il datore di lavoro deve indicare la propria intenzione di procedere al licenziamento e i motivi del medesimo, oltre alle eventuali misure per la ricollocazione dei lavoratori interessati. Entro sette giorni dalla ricezione della richiesta, la Dtl trasmette alle parti la convocazione per un incontro finalizzato ad esaminare eventuali soluzioni alternative al recesso.
La procedura deve comunque concludersi entro 20 giorni dalla data di invio della convocazione, salvo che le parti non chiedano una proroga per arrivare ad un accordo o che la procedura non debba essere sospesa per legittimo impedimento del lavoratore (la sospensione non può comunque essere superiore a quindici giorni).
Essa può concludersi in diversi modi:
- se il tentativo di conciliazione fallisce o il termine di 7 giorni per la convocazione delle parti decorre inutilmente, il datore di lavoro può comunicare al lavoratore il licenziamento che ha, comunque, efficacia a decorrere dalla prima comunicazione;
- se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore ha diritto di accedere all’Assicurazione sociale per l’impiego (ora Naspi).
L’art. 3 del D.Lgs. 23/2015 ha sancito espressamente che tale procedura non si applica ai lavoratori assunti in forza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Il tentativo obbligatorio di conciliazione riguardante i contratti certificati
Nel caso in cui si voglia impugnare un atto certificato da un’apposita Commissione, è necessario promuovere un preventivo tentativo di conciliazione stragiudiziale di fronte alla stessa Commissione che ha adottato l’atto. In questo caso, infatti, l’esperimento del tentativo costituisce una condizione di procedibilità dell’azione giudiziale, ossia un adempimento antecedente e necessario affinché la parte istante possa rivolgersi all’autorità giudiziaria. Il procedimento si svolgerà secondo la disciplina prevista nell’articolo 410 del codice di procedura civile per la conciliazione in sede amministrativa. Il preventivo tentativo di conciliazione deve essere promosso non solo dalle parti ma da qualsiasi terzo interessato che intenda impugnare l’atto.
L’offerta di conciliazione introdotta dal D.Lgs. 23/2015
Per i lavoratori assunti successivamente al 7 marzo 2015 cui si applica la nuova disciplina delle tutele crescenti, l’art 6 del D.Lgs. 23/2015 ha introdotto un’ulteriore procedura conciliativa volta ad evitare il giudizio. In questi casi, il datore di lavoro, entro il termine previsto per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni), può offrire, in una delle sedi protette previste dall’articolo 2113 del codice civile o innanzi a una commissione di certificazione, un importo pari a una mensilità per ogni anno di servizio. L’ammontare di tale somma deve comunque essere compreso tra due e diciotto mensilità. La corresponsione della somma così pattuita deve avvenire tramite consegna di un assegno circolare.
L’accettazione dell’offerta conciliativa estingue il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e comporta la rinuncia all’impugnazione dello stesso anche nel caso in cui fosse già stata proposta.
In un’ottica promozionale, il legislatore ha previsto espressamente che la somma così determinata non costituisce reddito imponibile e non è soggetta a contribuzione previdenziale.
Tale soluzione rende tale offerta di conciliazione molto appetibile da parte del lavoratore, soprattutto nei casi in cui, in seguito all’accoglimento dell’impugnazione, potrebbe ricevere un mero indennizzo economico. Inoltre, questa offerta ha l’ulteriore pregio di garantire al dipendente licenziato una somma certa, mentre qualora si ricorresse all’autorità giudiziaria, il ricorso del lavoratore potrebbe anche venire rigettato.
Naturalmente, nel caso in cui, alla luce della nuova disciplina dettata dal D.Lgs. 23/2015, fosse possibile rivendicare la tutela reintegratoria, i maggiori benefici connessi all’eventuale accoglimento delle richieste del lavoratore da parte del giudice potrebbe giustificare il rifiuto dell’offerta di conciliazione.
L’accettazione dell’assegno comporta l’estinzione del rapporto di lavoro e la rinuncia all’impugnazione dello stesso anche nel caso in cui fosse già stata proposta.
Tale procedura si applica esclusivamente ai lavoratori assunti con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ai sensi del D.Lgs. 23/2015.