Danno patrimoniale

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Le componenti del danno patrimoniale

Il danno patrimoniale consiste nella lesione di un interesse patrimoniale, sia in termini di diminuzione del patrimonio (c.d. “danno emergente” ), sia in termini di mancato guadagno determinato dal fatto dannoso (c.d. “lucro cessante” ).

 

Il nesso di causalità

I danni – ai sensi dell’art. 1223 c. c. – sono risarcibili se costituiscono la conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento verificatosi.
Il rapporto tra il comportamento illecito e l’evento lesivo, e tra quest’ultimo ed il danno, varia a seconda che il danno sia un elemento della fattispecie o un suo effetto.
Conseguentemente, è possibile distinguere:

  1. il nesso che deve sussistere tra comportamento ed evento, affinché possa configurarsi a monte una responsabilità, in termini di causalità materiale;
  2. il nesso che, collegando l’evento al danno, consente l’imputazione delle singole conseguenze dannose, in termini di causalità giuridica.
    La limitazione del rapporto causale tra inadempimento e danno alle sole conseguenze immediate e dirette è fondata sulla necessità di contenere l’estensione temporale e spaziale degli effetti e degli eventi illeciti ed è orientata a escludere, dalla connessione giuridicamente rilevante, ogni conseguenza dell’inadempimento che non sia propriamente diretta ed immediata.
    Il nesso di causalità consiste, quindi, nella relazione probabilistica concreta tra il comportamento e l’evento dannoso, secondo il criterio – ispirato alla regola della normalità causale – del “più probabile che non” .

 

 

Il danno emergente

Il danno emergente è il danno che comporta un’immediata diminuzione patrimoniale.
In generale, costituisce un’alterazione, in senso negativo, della situazione del soggetto che lo subisce rispetto a quella che aveva prima dell’accadimento del fatto in questione.
Esistono due tipologie di risarcimento del danno emergente:

  1. il risarcimento per equivalente, che consiste nell’attribuzione al danneggiato di una somma di danaro, il cui scopo è quello di compensare il valore del bene distrutto, senza, però, ripristinare la situazione antecedente all’accadimento;
  2. il risarcimento in forma specifica, mezzo attraverso il quale il danneggiato ottiene la reintegra del bene della vita distrutto o della situazione giuridica lesa, in modo tale che venga ripristinata la situazione preesistente all’atto illecito.

In particolare, deve trattarsi della perdita di un’utilità già presente nel patrimonio del danneggiato, come, ad esempio, il disvalore economico provocato dalla mancata, inesatta o ritardata prestazione del debitore, le spese sostenute per rimuovere inesattezze della prestazione, la temporanea impossibilità di godere del bene, i danni provocati alla persona o ai beni del creditore.
La giurisprudenza oramai include la perdita di chance quale ipotesi di danno, parallela e congiunta a quella del danno emergente.
E, infatti, la perdita di chance, intesa quale forma di danno patrimoniale autonoma e giuridicamente rilevante, ricomprende le legittime aspettative di natura patrimoniale, purché si tratti di legittime aspettative e non di aspettative semplici.
Essa va intesa, quindi, non come la mera perdita del risultato utile, ma come l’effettiva perdita della possibilità di conseguire tale risultato, una concreta occasione favorevole di acquisire un determinato vantaggio economico.
Pertanto, a differenza del danno futuro derivante dalla perdita del bene riconducibile al danno da lucro cessante, il danno da perdita di chance si configura come danno emergente, inteso come la lesione della possibilità di raggiungere il risultato sperato.

 

Il lucro cessante

Il lucro cessante è il guadagno che il soggetto colpito dall’illecito avrebbe potuto conseguire e che, invece, a causa dell’evento dannoso sofferto, non ha potuto realizzare. Ai sensi dell’art. 2056 secondo comma c.c., il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.
La quantificazione del mancato guadagno, infatti, non può essere accertata, differentemente da quella relativa al danno emergente. Per questo motivo, il legislatore ha previsto che il giudice possa, solo dopo che la vittima abbia provato l’esistenza quantomeno del danno emergente, valutare con equo apprezzamento l’entità del lucro cessante, ossia del così definito mancato guadagno e, quindi, conferirgli un valore economico.
Il danno patrimoniale da mancato guadagno si concretizza nell’accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall’inadempimento dell’obbligazione contrattuale; esso presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell’utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l’obbligazione fosse stata adempiuta, esclusi solo i mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte.
La prova dell’effettiva consistenza del danno da risarcire richiede un giudizio di adeguatezza della causa a generare il danno lamentato; la parte che deduce un danno da mancato guadagno è, pertanto, onerata di provare la sussistenza di un nesso causale diretto e immediato, in termini di causalità adeguata, tra il comportamento lesivo ed il danno.
La liquidazione del danno da mancato guadagno, quindi, richiede un rigoroso giudizio di probabilità – e non di mera possibilità – che può essere equitativamente svolto in presenza di elementi certi offerti dalla parte non inadempiente, dai quali il giudice possa sillogisticamente desumere l’entità del danno subito.
Il lucro cessante, nel campo del diritto del lavoro, può essere identificato con il danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa, ricorrente nei casi in cui – ad esempio – a causa della degenza in ospedale, o perché il danneggiato non può più svolgere l’attività lavorativa svolta prima dell’incidente o la può svolgere in forma limitata, vi è una deminutio dell’introito, che dovrà essere risarcita.

Il criterio utilizzato per il risarcimento di tale tipologia di danno è quello del reddito effettivo (o in mancanza quello del triplo della pensione sociale).
La Corte di Cassazione, Sez. III Civile, con la sentenza 19 maggio – 28 giugno 2011 n. 14278, ha precisato che, quando, per varie cause, il soggetto leso non sia nelle condizioni di provare il reddito ovvero di produrlo a causa dell’età, della disoccupazione, della cassa integrazione o degli studi intrapresi e ancora in corso di perfezionamento, è adottabile il parametro equitativo del triplo della pensione sociale.

Ancora, la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con la sentenza 14novembre 2011 n. 23761, ha negato il lucro cessante per un libero professionista, in quanto l’invalidità temporanea dedotta poteva comportare solo un mero differimento temporale dell’esecuzione delle prestazioni. In tale pronuncia, è stato altresì precisato che tra la lesione della salute e la diminuzione della capacità di guadagno non sussiste alcun rigido automatismo, per cui, in presenza di una lesione della salute, anche di non modesta entità, non può ritenersi ridotta in egual misura la capacità di produrre reddito, ma il soggetto leso ha sempre l’onere di allegare e provare, anche mediante presunzioni, che l’invalidità permanente abbia inciso sulla capacità di guadagno.
In altri termini, “mentre l’invalidità permanente (totale o parziale) concorre di per sé a dar luogo a danno biologico, la stessa non comporta necessariamente anche un danno patrimoniale, a tal fine occorrendo che il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di guadagno, accerti se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l’infortunio subito, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. Solo se dall’esame di detti elementi risulti una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo è risarcibile sotto il profilo del lucro cessante. La relativa prova incombe al danneggiato e può essere anche presuntiva, purché sia certa la riduzione della capacità di lavoro specifica (Cass. 29 gennaio 2010 n. 2062; 23 gennaio 2006 n. 1230)”.