Questa voce è stata curata da Claudia Schmiedt
Scheda sintetica
Con il termine demansionamento si indica l’adibizione del lavoratore a mansioni ricomprese in un livello di inquadramento inferiore rispetto a quello pattuito all’interno del contratto individuale di lavoro o a quello corrispondente alle mansioni da ultimo svolte.
Il datore di lavoro, nell’ambito dei suoi poteri direttivi, può adibire il lavoratore a mansioni inferiori solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge, ovvero dall’art. 2103 c.c., nella formulazione recentemente modificata dall’art. 3 D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) e nelle altre ipotesi previste dalla legislazione speciale.
L’art. 2103 c.c. legittima espressamente il demansionamento del lavoratore in tre ipotesi:
- nel caso in cui la modifica di assetti organizzativi aziendali incida sulla posizione del lavoratore (art. 2103 co. 2 c.c.);
- nel caso di previsione da parte del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro (art. 2103 co. 4, c.c.);
- nel caso di previsione da parte di un accordo individuale di modifica delle mansioni stipulato nelle c.d. sedi protette, che risponda all’interesse del lavoratore: alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle proprie condizioni di vita (art. 2103 co. 6 c.c.).
Si veda anche la voce Dequalificazione
Normativa
- Art. 2103 c.c.
- Art. 3 D.Lgs. 81/2015
- Art. 13 Legge 20 maggio 1970, n. 300, Statuto dei Lavoratori
- Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
A chi rivolgersi
- Ufficio vertenze sindacale
- Studio legale specializzato in diritto del Lavoro
Scheda di Approfondimento
In base al c.d. principio di contrattualità delle mansioni, “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto” (art. 2013, co. 1 c.c.), ovvero alle attività, operazioni e compiti che sono individuati nel contratto individuale di lavoro al momento dell’assunzione.
Al fine di consentire al datore di lavoro di poter gestire ed organizzare la propria struttura produttiva impiegando i lavoratori con un congruo margine di flessibilità, ovvero di adattare le risorse di cui dispone alle esigenze dell’impresa, l’ordinamento gli riconosce, entro certi limiti, il potere di modificare unilateralmente (ovvero senza il consento del lavoratore) le mansioni contrattualmente pattuite. Si parla in proposito del c.d. ius variandi.
Il potere del datore di lavoro di modificare, temporaneamente o anche definitivamente, le mansioni del lavoratore può essere esercitato:
- orizzontalmente: adibendo il lavatore a mansioni ricomprese nel medesimo livello di inquadramento delle mansioni di assunzione.
- verticalmente:
- verso l’alto: adibendo il lavoratore a mansioni ricomprese in un livello di inquadramento superiore;
- verso il basso: adibendo il lavoratore a mansioni ricomprese in un livello di inquadramento inferiore (c.d. demansionamento).
Mobilità verticale verso il basso
Come anzidetto, l’art. 2103 c.c. disciplina e legittima tre diverse ipotesi di demansionamento, ovvero di adibizione del lavoratore, in via temporanea o definitiva, a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore rispetto a quello di assunzione o a quelle da ultimo svolte.
La prima ipotesi è quella in cui sussista una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore (art. 2103 co. 2 c.c.).
Qualora la riorganizzazione aziendale produca effetti direttamente in capo al lavoratore, che non potrebbe conseguentemente essere impiegato in altre mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento, è consentito al datore di lavoro di adibire unilateralmente il dipendente a mansioni che appartengano al livello di inquadramento immediatamente inferiore rispetto a quello di partenza (es. dal 3^ al 2^ Livello del CCNL Metalmeccanici), purché questo rimanga all’interno della medesima categoria legale di appartenenza (ovvero quelle previste dall’art. 2095 c.c.: operai, impiegati, quadri, dirigenti).
Ne deriva, a titolo di esempio, l’illegittima adibizione di un dirigente a mansioni di quadro, o ancora, l’illegittima adibizione del lavoratore inquadrato nel 3^ Livello del CCNL Metalmeccanici a mansioni corrispondenti al 1^ Livello.
A fronte delle modifica degli assetti organizzativi, il mutamento, in senso peggiorativo, delle mansioni del lavoratore deve essere comunicato dal datore di lavoro per iscritto, a pena di nullità.
Il lavoratore avrà comunque diritto alla conservazione formale del livello di inquadramento precedente ed al trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per i soli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (es. indennità di cassa, indennità di trasferta, etc.) (art. 2103 co. 5 c.c.).
L’art. 2103 co. 4 c.c. prevede, inoltre, che ipotesi di demansionamento lecito possano essere previste dal contratto collettivo nazionale, territoriale o aziendale applicato al rapporto individuale di lavoro.
Anche in tal caso sussistono i limiti di categoria legale ed inquadramento previsti dal co. 2 del medesimo articolo: ovvero il contratto collettivo potrà prevedere l’adibizione del lavoratore a mansioni appartenenti al solo livello di inquadramento immediatamente inferiore e rientranti in ogni caso nella medesima categoria legale di appartenenza.
Il mutamento di mansioni deve essere sempre comunicato per iscritto, a pena di nullità ed il lavoratore ha comunque diritto alla conservazione del livello di inquadramento formale ed al trattamento retributivo in godimento, con l’eccezione dei soli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (art. 2103 co. 5 c.c.).
La terza ed ultima ipotesi di demansionamento lecito prevista dall’art. 2103 co. 6 c.c. si ha quando datore di lavoro e lavoratore decidono consensualmente di sottoscrivere presso una delle c.d. sedi protette (ovvero sindacati, commissioni di certificazione, etc.) un accordo di modifica, in senso peggiorativo, delle mansioni.
La sede protetta assicura l’esigenza di fornire al lavoratore adeguata informazione ed assistenza circa l’accordo di demansionamento, ben potendo questi in ogni caso farsi assistere anche da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, da un avvocato, da un consulente del lavoro o da altro professionista.
Le parti individuali possono pattuire sia il mutamento della categoria legale di origine (operai, impiegati, quadri, dirigenti), sia il livello di inquadramento (ovvero il Livello del CCNL, che potrà così essere collocato anche oltre il livello immediatamente inferiore), che la retribuzione percepita.
Condizione di validità di tale patto è che il mutamento di mansioni sia giustificato da un interesse del lavoratore:
- alla conservazione dell’occupazione (che si ha quando la modifica delle mansioni costituisce l’unica alternativa possibile al licenziamento),
- all’acquisizione di una diversa professionalità o
- al miglioramento delle proprie condizioni di vita.
Nel caso in cui il lavoratore non sia in possesso delle competenze necessarie per svolgere le nuove mansioni inferiori, a norma dell’art. 2103 co. 3 c.c. il datore di lavoro sarà obbligato a somministrare allo stesso la formazione necessaria.
La mancata formazione del lavoratore non rende nullo di per sé il mutamento di mansioni, ma non potrà fondare eventuali sanzioni disciplinari nel caso di mancato corretto adempimento delle prestazioni da parte del lavoratore correlato proprio all’assenza di adeguata formazione professionale.
Eccezioni
Accanto ai casi di demansionamento legittimo previste dall’art. 2103 c.c., ulteriori ipotesi sono disciplinate dalle leggi speciali.
Si tratta, in generale, di casi in cui l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori appare necessaria al fine di soddisfare un interesse qualificato dello stesso lavoratore.
Il demansionamento è ammesso ad esempio:
- nel caso di licenziamento collettivo, quando l’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori è individuata nell’accordo sindacale come mezzo per il riassorbimento degli esuberi (art. 4, co. 11, L. 223/1991);
- nel caso di lavoratrici madri, durante il periodo di gestazione e fino a sette mesi dopo il parto, se il tipo di attività o le condizioni ambientali precedenti sono pregiudizievoli alla salute (art. 7, L. 151/2001);
- in caso di sopravvenuta inabilità allo svolgimento delle mansioni di assegnazione per infortunio o malattia (artt. 1 co. 7 e 4, co. 4 L. 68/1999; art. 42 D.Lgs. 81/2008);
- nel caso in cui sia necessario sottrarre il lavoratore all’esposizione ad un agente fisico, chimico o biologico (art. 229, co. 5, D.Lgs. 81/2008).
Nullità di ogni patto contrario
Al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 2103 c.c. o dalla legislazione speciale, in base al c.d. principio di effettività delle mansioni, il lavoratore avrà sempre diritto ad essere inquadrato nella categoria legale e nel livello del contratto collettivo corrispondente alle mansioni concretamente svolte.
Ne deriva la nullità di qualsiasi condotta datoriale o accordo individuale volto ad adibire il lavoratore a mansioni ricomprese in una categoria legale o in un livello di inquadramento del contratto collettivo inferiore rispetto alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore o individuate nel contratto di lavoro (c.d. demansionamento illegittimo, art. 2103 co. 9 c.c.).
Conseguenze
In caso di demansionamento illegittimo il lavoratore avrà diritto ad essere adibito allo svolgimento delle mansioni per le quali è stato assunto o, in alternativa, a mansioni rientranti nel medesimo livello di inquadramento, oltre al risarcimento del c.d. danno alla professionalità eventualmente subito e provato in giudizio.
La disciplina previgente
La vecchia formulazione dell’art. 2103 c.c., ancora oggi applicabile alle condotte di demansionamento protrattesi sino al 25 giugno 2015, prevedeva il divieto assoluto di adibire il lavoratore, non solo a mansioni appartenenti a livelli di inquadramento inferiore, ma più in generale il divieto di assegnare allo stesso mansioni “non equivalenti” a quelle da ultimo svolte.
In caso di lamentato demansionamento, pertanto, il giudice doveva accertare che le mansioni di destinazione fossero o meno tali da consentire al lavoratore l’utilizzazione del corredo di nozioni, esperienza e perizia (il c.d. patrimonio professionale) acquisito nella pregressa fase del rapporto.
Al di là della previsione normativa, parte della giurisprudenza riteneva comunque legittimo il demansionamento nei casi in cui questo rappresentasse l’unica alternativa possibile al licenziamento del lavoratore.
La differenza sostanziale tra la disciplina precedente, incentrata sul concetto di equivalenza, e quella introdotta dal Jobs Act, incentrata prevalentemente sull’inquadramento individuato dalla contrattazione collettiva, fa sì che un demansionamento disposto illegittimamente sotto il vigore del vecchio art. 2103 c.c. potrà essere divenuto legittimo alla luce della nuova normativa.
In tale ipotesi, dovendosi valutare la legittimità del ius variandi in ragione della disciplina vigente all’epoca dei fatti, l’eventuale responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per demansionamento illegittimo dovrà essere riconosciuta solo per il periodo precedente all’entrata in vigore della disposizione riformata (Trib. Roma, 30 settembre 2015, est. Sordi).
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di dequalificazione
In genere
- In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua persona- lità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale. (Cass. 16/12/2020 n. 28810, Pres. Balestrieri Rel. Galli, in Lav. nella giur. 2021, 309)
- È legittimo l’accordo tra le parti, anche nel caso in cui il dipendente vi aderisca per fatti concludenti, con il quale si dà luogo a un demansionamento per evitare il licenziamento a seguito dello stato di crisi in cui versa la società datrice di lavoro. (Cass. 20/10/2020 n. 22790, ord., Pres. Raimondi Rel. Pagetta, in Lav. nella giur. 2021, 84)
- Il demansionamento del lavoratore, temporaneamente riammesso in servizio a seguito di pronuncia dichiarativa dell’illegittimità del licenziamento, costituisce fatto illecito suscettibile di tutela risarcitoria anche quando la pronuncia venga successivamente riformata in sede di gravame, atteso che la “fictio iuris”, per la quale la declaratoria di legittimità del licenziamento a seguito della riforma della sentenza resa in prime cure determina l’effetto della risoluzione “ex tunc” del rapporto di lavoro, non può valere a porre nel nulla la condotta illecita tenuta dal datore di lavoro nell’arco temporale coincidente con il periodo in cui il rapporto di lavoro era stato riattivato. (Cass. 18/7/2016 n. 14637, Pres. Nobile Est. De Marinis, in Lav. nella giur. 2016, 1021)
- Le somme percepite dal lavoratore a titolo di risarcimento del danno da demansionamento, senza distinzione tra danno emergente e lucro cessante, sono escluse dalla base imponibile contributiva (Fattispecie riguardante un giornalista nella sua veste di inviato speciale per mancato incremento delle proprie professionalità). (Cass. 4/7/2016 n. 13578, Pres. Napoletano Est. De Gregorio, in Lav. nella giur. 2016, con commento di S. Rossi, 1092)
- In caso di demansionamento è configurabile a carico del lavoratore un danno, costituito da un impoverimento delle sue capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, per la liquidazione del quale è ammissibile, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione (nella specie, la S.C. ha stimato equa, confermando la sentenza d’appello, l’assunzione, a parametro della liquidazione del danno, dell’importo pari alla metà delle retribuzioni dovute per il periodo di demansionamento). (Cass. 12/6/2015 n. 12253, Pres. Macioce Est. Amendola, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Umberto Gargiulo, “Se il danno da demansionamento è (quasi) in re ipsa”, 998)
- Devono considerarsi inferiori mansioni che rispetto alle precedenti comportino una sottoutilizzazione del patrimonio acquisito dal lavoratore, avendosi riguardo non solo alla qualità intrinseca delle attività esplicate dal lavoratore ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel loro esercizio, nonché alla posizione del dipendente nel contesto dell’organizzazione aziendale del lavoro. (Trib. Modena 22/9/2014, ord., Giud. Vaccari, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Pierpaolo Campobasso, 1089)
- La disposizione dell’art. 2103 c.c. sulla disciplina delle mansioni e sul divieto di declassamento va interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto; nei consegue che, nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti, tra le altre, ristrutturazioni aziendali, l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile. (Cass. 22/5/2014 n. 11395, Pres. Stile Rel. De Renzis, in Lav. nella giur. 2014, 925)
- È illegittimo il demansionamento disposto da parte del datore di lavoro, senza il consenso del dipendente, al solo fine dichiarato di evitare il licenziamento. Una volta accertato il demansionamento, onde determinare il risarcimento del danno, è possibile fare ricorso al criterio equitativo. (Cass. 18/9/2013 n. 21356, Pres. Lamorgese Rel. Bronzini, in Lav. nella giur. 2013, 1124)
- La tutela dal demansionamento di cui all’art. 2103 c.c. non si può applicare alla tipologia di lavoratore parasubordinato. (Trib. Milano 11/7/2013, Giud. Taraborrelli, in Lav. nella giur. 2013, 1048)
- In tema di demansionamento e di dequalificazione, se il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del danno medesimo, ben può, tuttavia, la sua dimostrazione in giudizio essere fornita con tutti i mezzi offerti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo la prova per presunzioni. (Cass. 19/4/2012 n. 6110, Pres. Vidiri Rel. Meliadò, in Lav. nella giur. 2012, 720)
- Il demansionamento del lavoratore, idoneo per sua natura a causare nel corso della prestazione lavorativa una serie di frustrazioni certamente destinate a protrarsi nel tempo, e comunque per tutta la durata della condotta, necessita inevitabilmente di un quid iuris per essere qualificato alla stregua di una condotta complessivamente vessatoria, reiterata, duratura tale da configurare una vera e propria violenza morale nei confront del dipendente. (Trib. Milano 30/11/2011, Giud. Lualdi, in Lav. nella giur. 2012, 311)
- In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio – dall’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva e interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale. (Cass. 23/11/2011 n. 24718, Pres. Roselli Rel. Berrino, in Lav. nella giur. 2012, 191)
- Nel rapporto di lavoro subordinato non è legittimo il rifiuto, opposto dal lavoratore, di eseguire la prestazione a causa di una ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro offra l’adempimento di tutti gli obblighi derivanti dal contratto. (Cass. 18/3/2011 n. 9351, Pres. Roselli Rel. Mancino, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Lorenzo Scarano, 797)
- L’esercizio del c.d. ius variandi da parte del datore di lavoro è legittimo purché avvenga nel rispetto di due fondamentali limiti: un limite di carattere oggettivo, essendo necessario che le nuove mansioni siano incluse nella stessa area di inquadramento del lavoratore; un limite soggettivo, nel senso che le nuove mansioni devono essere professionalmente affini a quelle svolte in precedenza e che tali nuove mansioni devono armonizzarsi con le capacità professionali già acquisite dal lavoratore durante il rapporto di lavoro, consentendone ulteriori affinamenti e sviluppi e impedendo, quindi, qualsiasi degrado e mortificazione (intese come professionalità) del lavoratore. (Corte App. Bologna 29/6/2010, Pres. Castiglione Rel. Brusati, in Lav. nella giur. 2010, 952)
- In tema di assegnazione al lavoratore di mansioni diverse da quelle di assunzione, l’equivalenza o meno delle mansioni deve essere valutata dal giudice anche nel caso in cui le mansioni di provenienza non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale evenienza può aversi demansionamento, in violazione dell’art. 2103 c.c., ove le nuove mansioni affidate al lavoratore siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. (Cass. 26/1/2010 n. 1575, Pres. De Luca Est. Curzio, in Orient. giur. lav. 2010, 77)
- La video conduzione è una mera modalità di esplicazione della mansione, che trova una specifica compensazione contrattuale, ma che non è idonea a conglobarsi nel patrimonio professionale del lavoratore, in quanto non contribuisce a caratterizzare la professionalità e le competenze, che restano quelle di preparazione dei servizi. Se la lettura in video delle notizie non è una mansione, ma solo un modo di atteggiarsi della complessa prestazione del giornalista, l’avvicendamento di video conduttori e la rimozione del video di alcuni esclusivamente non costituisce violazione dell’art. 2103 c.c. (Trib. Roma 29/1/2009, dott. Coco, in Lav. nella giur. 2009, 528)
- Non è configurabile il demansionamento del dirigente in base alla mera revoca del precedente incarico, laddove non sia data la prova – il cui onere incombe sul lavoratore – dei fatti dai quali derivi l’asserita lesione della professionalità (Trib. Milano 20/1/2009, Est. Peragallo, in Orient. Giur. Lav. 2009, 81)
- Il demansionamento si connota per sua natura nell’abbassamento del globale livello di prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle sue capacità e una consequenziale apprezzabile menomazione – non transuente – della sua professionalità, della sua collocazione in ambito aziendale nonché con perdita di chance ovvero di ulteriori potenzialità occupazionali o ulteriori possibilità di guadagno. (Trib. Milano 23/9/2008, dott. Lualdi, in Lav. nella giur. 2009, 205)
- La ridefinizione delle deleghe conferite al Direttore generale, non comportando l’assegnazione unilaterale di mansioni diverse da quelle consensualmente pattuite al momento della stipulazione del contratto di lavoro dirigenziale, bensì incidendo solo sul rapporto di immedesimazione organica, non viola il precetto ex art. 2103 c. 1 prima parte c.c. (Trib. Trento 4/2/2008, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Alberto Mattei, “Il dirigente privato tra contratto di lavoro subordinato e rapporto societario”, 41)
- La riduzione delle deleghe al Direttore generale integra una violazione dell’art. 2103 c.c., comportando un depauperamento del bagaglio professionale del lavoratore. (Trib. Trento 17/12/2007, ord., Giud. Benini, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Alberto Mattei, “Il dirigente privato tra contratto di lavoro subordinato e rapporto societario”, 41)
- Nell’ipotesi in cui l’Inps abbia fornito all’assicurato una erronea indicazione del termine per proporre impugnazione giudiziale, il pregiudizio arrecato, per l’omessa impugnazione nei termini di un atto amministrativo di reiezione nei termini previsti, presuppone l’erronea comunicazione, la natura scusabile dell’errore determinato dalla comunicazione, il rapporto di causalità fra errore e scadenza del termine, nel quale si inserisce l’idoneità dell’eventuale rettifica effettuata dall’Istituto a correggere l’iniziale erronea comunicazione. L’accertamento dei predetti elementi di fatto compete al giudice del merito e non è censurabile in cassazione, se adeguatamente e logicamente motivato. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione dei giudici di merito che aveva ritenuto che l’istituto avesse, in sede di rettifica, correttamente informato l’assicurata della possibilità di ricorrere all’autorità giudiziaria e del relativo termine, con riferimento alla relativa disposizione normativa, dovesse ritenersi adeguata in forza del principio generale ignorantia legis non excusat, e che, infine, rientrasse nella normale diligenza dell’assicurata informare il patronato, da cui era assistita, dell’avvenuto rigetto, in sede amministrativa, e delle conseguenti iniziative da assumere). (Cass. 15/5/2007 n. 11090, Pres. sciarelli Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2007, 1253)
- Quando sussiste una situazione di demansionamento, il lavoratore non può sospendere in tutto o in parte l’attività lavorativa se il datore di lavoro assolve tutti gli altri propri obblighi (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale e assicurativa, garanzia del posto di lavoro), potendo una parte rifiutare la propria prestazione contrattuale soltanto se l’altra parte è totalmente inadempiente e non anche quando vi sia contestazione e controversia soltanto su una delle obbligazioni a carico di una delle parti, obbligazione peraltro non incidente sulle immediate esigenze vitali del lavoratore. (Cass. 9/5/2007 n. 10547, Pres. De Luca Est,. Balletti, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Raimondi, “Rifiuto di svolgere mansioniinferiori e licenziamento per giusta causa: un revirement nella giurisprudenza della Cassazione?”, 597)
- La disposizione dell’art. 2103 c.c. sulla regolamentazione delle mansioni del lavoratore e sul divieto del declassamento di dette mansioni va interpretata – stante le statuizioni di cui alla sentenza delle Sezioni Unite del 26 novembre 2006 n. 25033 e in coerenza con la ratio sottesa ai numerosi interventi in materia del legislatore – alla stregua della regola del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, con la conseguenza che nei casi di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti l’esternalizzazione dei servizi o la loro riduzione a seguito di processi di riconversione o ristrutturazione aziendali, l’adibizione del lavoratore a mansioni divers, e anche inferiori, a quelle precedentemente svolte – restando immutati il livello retributivo – non si pone in contrasto con il detto costituzionale, se essa rappresenti l’unica alternativa praticabile in luogo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. (Cass. 5/4/2007 n. 8596, in Dir. e prat. lav. 2008, 1424)
- Il disposto dell’art. 2103 c.c. finisce per essere violato non solo quando il dipendente sia assegnato a mansioni inferiori ma anche quando il medesimo (ancorchè senza conseguenze sulla retribuzione) sia lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti rapportati alla propria capacità professionale acquisita, costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del soggetto. Deve ritenersi che il concetto di equivalenza delle mansioni prescinda dalla riconducibilità in astratto delle mansioni al medesimo livello contrattuale, postulando di contro che le nuove mansioni siano in concreto aderenti alla specifica competenza tecnica e professionale del dipendente al fine di salvaguardare il livello professionale raggiunto: ne consegue che, ai fini del giudizio di equivalenza, si deve verificare se le nuove mansioni sia aderenti alla specifica competenza del dipendente in modo tale da salvaguardare il livello professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto e da garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. (Trib. Camerino 2/4/2007, Dott.ssa Basilli, in Lav. nella giur. 2007, 1044)
- In tema di mansioni del lavoratore ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 c.c. sul divieto di demansionamento, non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente a integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell’ambito aziendale e, con riguardom al dirigente, altresì alla rilevanza del titolo. (Trib. Ravenna 9/3/2007, Est. Riverso, in Lav. nella giur. 2007, 631)
- Considerato sia che il rapporto di lavoro subordinato non è di puro scambio, ma coinvolge la persona del lavoratore e che costituisce altresì un contratto di organizzazione, sicché la disciplina degli aspetti patrimoniali e la collaborazione nell’impresa devono necessariamente coniugarsi con i precetti costituzionali di tutela del lavoratore, a ragione sia del principio di esecuzione di buona fede del contratto di assunzione sia dell’attuale evoluzione del mercato di lavoro che, enfatizzando la formazione continua come essenziale caratteristica dell’attuale momento storico-economico, valorizza la funzione della prestazione lavorativa in tal senso, non soltanto una riduzione qualitativa, ma anche quantitativa delle mansioni, in una misura significativa, può comportare dequalificazione professionale risarcibile. (Cass. 9/2/2007 n. 2878, in Dir. e prat. lav. 2008, 1424)
- Qualora il lavoratore reagisca all’adibizione a mansioni inferiori a seguito del provvedimento di spostamento, non presentandosi nella nuova sede e al tempo stesso non offrendo la propria prestazione nella sede di provenienza, invocando il principio inadimplenti non est adimplendum, tale comportamento deve ritenersi non proporzionato alla gravità dell’inadempimento della controparte, che consiste non già nell’assegnazione di mansioni non equivalenti – che nelle circostanze date avrebbe potuto essere ammissibile -, ma nell’assegnazione alle mansioni inferiori senza la preventiva negoziazione dello spostamento con il lavoratore. (Cass. 5/1/2007 n. 43, Pres. Mercurio Est. La Terza, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Marco Orlando, “Limiti all’esercizio dell’autotutela in caso di adibizione a mansioni inferiori e possibili ripercussioni nell’evoluzione giurisprudenziale in tema di patto di demansionamento”, 870)
- Il lavoratore – cui l’art. 2103 c.c. (nel testo sostituito dall’art. 13 della legge 20 maggio 1970, n. 300), con norma applicabile anche ai dirigenti, riconosce esplicitamente il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte – ha a fortiori il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorchè senza conseguenze sulla retribuzione; e, dunque, non solo il dovere, ma anche il diritto all’esecuzione della propria prestazione lavorativa – cui il datore di lavoro ha il correlato obbligo di adibirlo – costituendo il lavoro non solo un mezzo di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino. La violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicchè, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore. (Sulla base dell’enunciato principio, la S.C. ha ritenuto immune da censura la decisione del giudice del merito, che aveva escluso la responsabilità risarcitoria sul rilievo che il demansionamento e la privazione delle funzioni patiti nella specie dal dirigente aziendale erano dipesi da fattori oggettivi estranei alla volontà del datore di lavoro e legati alla generale contrazione delle attività imprenditoriali). (Cass. 2/8/2006 n. 17564, Pres. Proto Rel. Napoleoni, in ADL 2007, con nota di Federica Tognacci, “Non risarcibilità del demansionamento incolpevole attuato dal datore di lavoro”, 228)
- Qualora il lavoratore alleghi la dequalificazione, si applica il principio generale in tema di prova dell’inadempimento di obbligazioni secondo il quale il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, ossia dell’avvenuto adempimento; ne consegue che sul datore di lavoro-debitore incombe l’onere di provare l’esatto adempimento dell’obbligo previsto dall’art. 2103 c.c. atraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione, oppure attraverso la prova che la stessa è giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali e/o disciplinari, o dall’impossibilità derivante da causa a lui non imputabile. (Cass. 6/3/2006 n. 4766, Pres. Senese Est. Nobile, in D&L 2006, con n. Sara Huge, “Prova della dequalificazione e prova del danno da dequalificazione: quale scenario dopo gli interventi della Suprema Corte?”, 473)
- In tema di mansioni del lavoratore, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 c.c. sul divieto di demansionamento, non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e dalla sua collocazione nell’ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo. La valutazione della idoneità della condotta del datore di lavoro sotto il profilo del demansionamento a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex articolo 2119 c.c. si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato sul punto la sentenza di merito, che aveva accertato che il ricorrente, inquadrato come capo-cuoco, aveva svolto mansioni di caposervizio del settore ristorazione, dirigendo e coordinando l’attività della cucina, decidendo autonomamente l’eventuale prolungamento dell’orario del personale di cucina, gestendo le ferie e i permessi, predisponendo la lista degli acquisti giornalieri, preparando i menù e predisponendo i turni del personale, finchè, a seguito della riorganizzazione aziendale con cui si era decisa l’assunzione di due nuovi “chefs” ai quali affidare la realizzazione di una nuova linea di cucina, il ricorrente aveva dovuto sottostare alle direttive da essi impartite). (Cass. 11/11/2005 n. 14496, Pres. Mattone Rel. Di Cerbo, in Lav. e prev. oggi 2005, 1844)
- Con riguardo allo “ius variandi” del datore di lavoro, il divieto di variazioni in “peius” opera anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicchè nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto al livello di categoria ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali. A tal fine l’indagine del giudice di merito deve essere volta a verificare i contenuti concreti dei compiti precedenti e di quelli nuovi onde formulare il giudizio di equivalenza, da fondare sul complesso della contrattazione collettiva e delle determinazioni aziendali. In particolare, le nuove mansioni possono considerarsi equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anzi di arricchire, il patrimonio professionale acquisito con lo svolgimento della precedente attività lavorativa, in una prospettiva dinamica di valorizzazione della capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la sussistenza di una dequalificazione del dipendente assegnato in precedenza all’attività di manutentore specializzato e successivamente a quella di portalettere, attività che comportava necessariamente la progressiva perdita delle capacità acquisite dal dipendente nel precedente incarico). (Cass. 30/7/2004 n. 14666, Pres. Dell’Anno Rel. Vidiri, in Dir. e prat. lav. 2004, 3077)
- Il diritto del lavoratore a svolgere mansioni corrispondenti al suo livello professionale, sancito dall’art. 2103 c.c., non trova nell’ordinamento strumenti specifici di tutela provvisoria, pertanto di deve affermare l’ammissibilità del ricorso alla procedura d’urgenza. L’ordine giudiziale di adibizione del prestatore di lavoro alle mansioni precedentemente svolte, richiedendo il concorso della volontà del datore di lavoro ed essendo privo dell’efficacia reale propria dell’ordine di reintegrazione di cui all’art. 18 SL, è incoercibile. La violazione del diritto del lavoratore ad essere assegnato alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti alle ultime svolte è idoneo a provocare un danno irreparabile alla professionalità o sanabile solo attraverso lunghi processi di riqualificazione. (Trib. Perugia 10/6/2004, ord., Est. Angeleri, in Lav. nella giur. 2006, 85)
- In tema di mansioni del lavoratore, ai fini dell’applicabilità dell’art. 2103 c.c. sul divieto di demansionamento, non ogni modificazione quantitativa delle mansioni affidate al lavoratore è sufficiente ad integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all’incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente, sulla sua collocazione nell’ambito aziendale e, con riguardo al dirigente, altresì la rilevanza del ruolo. La valutazione dell’idoneità della condotta del datore di lavoro sotto il profilo del demansionamento a costituire giusta causa di dimissioni del lavoratore ex art. 2119 c.c. si risolve in un accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato. (Nella specie, la Suprema Corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la dequalificazione di un dirigente bancario che, dopo aver ricoperto le funzioni di direttore centrale capo area e direttore di sede, aveva avuto attribuite quelle di vicario di altro direttore di area, pur restando direttore di sede, con riduzione di importanza dei propri compiti e l’ampiezza dei propri poteri decisionali, ed aveva pertanto ritenuto determinate da giusta causa le dimissioni rese dallo stesso). (Cass. 5/5/2004 n. 8589, Pres. Mileo Rel. Lamorgese, in Lav. e prev. oggi 2004, 1295)
- Il divieto di assegnazione del lavoratore a mansioni non equivalenti e la nullità dei patti contrari non operano quando una siffatta assegnazione corrisponda ad un apprezzabile interesse del lavoratore, quale quello della conservazione del posto di lavoro ovvero quello ad evitare il collocamento in C.I.G. (Trib. Roma 1/4/2004, Pres. Cortesani, in Lav. nella giur. 2004, 706)
- Il giudizio di equivalenza richiesto dall’art. 2103 c.c. deve essere formulato tenendo conto di due parametri, uno oggettivo, in virtù del quale le mansioni di destinazione devono essere collocate nel medesimo livello contrattuale nel quale è inquadrato il dipendente; l’altro soggettivo, in virtù del quale le nuove mansioni, pur se identiche a quelle precedentemente espletate, devono essere a queste professionalmente affini, nel senso che devono armonizzarsi con le capacità professionali già acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo, consentendone ulteriori affinamenti e sviluppi e salvaguardando la complessiva posizione professionale del lavoratore. (Trib. Roma 12/2/2004, ord., Pres. Cortesani Rel. Pascarella, in Lav. nella giur. 2005, 65, con commento di Giorgio Treglia)
- Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro deve essere valutata dal giudice di merito –con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato- la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta. (Cass. 11/2/2004 n. 2649, Pres. Sciarelli Rel. Balletti, in Lav. nella giur. 2004, 697)
- Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c. ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale e la dignità personale del lavoratore. La valutazione di siffatto pregiudizio, per sua natura privo delle caratteristiche della patrimonialità, non può che essere effettuata dal giudice alla stregua di un parametro equitativo, essendo difficilmente utilizzabili parametri economici o reddituali. (Cass. 26/2004 n. 10157, Pres. Senese Rel. D’Agostino, in Lav. nella giur. 2004, con commento di Gianluigi Girardi, 1265)
- Con riguardo allo “ius variandi” del datore di lavoro, per ritenere che vi sia equivalenza delle mansioni il giudice di merito, oltre a verificare la loro inclusione nella stessa area professionale e salariale, dovrà considerare la loro affinità professionale, intesa quale nucleo di professionalità comune o almeno analogo, tale da rendere possibile l’armonizzazione delle nuove mansioni con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo e consentirne ulteriori affinamenti e sviluppi, non assumendo invece rilievo, di per sé, i comuni caratteri di elementarità o semplicità delle precedenti e delle nuove mansioni. (Nella specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto necessariamente equivalenti, per il solo fatto di avere i medesimi caratteri di sostanziale semplicità, le mansioni di profilo impiegatizio di addetto alla segreteria del servizio tecnico e di contabilità e quelle nuove assegnate al dipendente, di tipo operaio, di addetto al set up di stampa e al reparto taglio, rientranti contrattualmente nella medesima categoria). (Cass. 11/12/2003 n. 18984, Pres. Sciarelli Rel. Curcurutu, in Lav. e prev. oggi 2005, 361)
- Il dettato di cui all’art. 2103 c.c. contiene l’affermazione secondo cui la legittimità dello ius variandi è condizionata non solo al pari valore professionale delle posizioni di lavoro pregresse ed attuali, ma anche all’idoneità della posizione nuova alla piena utilizzazione del patrimonio professionale acquisito, il che è riscontrabile quando le due mansioni siano affini e cioè quando le nuove mansioni si armonizzano con le capacità professionali già acquisite. (Trib. Roma 11/11/2003, ord., Est. Cocchia, in Lav. nella giur. 2005, 63, con commento di Giorgio Treglia)
- L’equivalenza delle mansioni prevista dall’art. 2103 c.c. deve essere accertata attraverso il controllo del relativo sostanziale contenuto professionale. Infatti oggetto della tutela normativa non è solo il livello formale di inquadramento ma anche la professionalità, come diritto alla conservazione ed all’accrescimento del corredo di nozioni ed esperienze acquisite dal lavoratore nella pregressa fase del rapporto; la conservazione ed il miglioramento della professionalità, tuttavia, non si identificano con l’interesse del lavoratore ad esprimere il massimo delle sue capacità lavorative, interesse che rimane estraneo alla lettera ed alle ragioni normative dell’art. 2103 c.c. (Cass. 11/6/2003 n. 9408, Pres. Mileo, Rel. Cuoco, in Lav. nella giur. 2004, 129, con commento di Gianluigi Girardi)
- Una volta che l’attività prevalente ed assorbente del lavoratore rientri tra le mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza, non viola i limiti esterni dello ius variandi del datore di lavoro – né frustra la funzione di tutela della professionalità – l’adibizione del lavoratore stesso a mansioni inferiori, purchè si tratti di mansioni che, oltre ad essere marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, non rientrino nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto ingiustificato il rifiuto del lavoratore, adibito in maniera prevalente ed assorbente a mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza, di svolgere in via del tutto marginale la inferiore mansione di dattiloscrittura). (Cass. 2/5/2003 n. 6714, Pres. Sciarelli Rel. De Luca, in Lav. nella giur. 2004, 55, con commento di Fabio Massimo Gallo)
- L’art. 2103 c.c. è norma inderogabile nel tutelare la conservazione della professionalità del lavoratore; pertanto si ha illegittima dequalificazione ove le nuove mansioni non consentano l’utilizzo delle conoscenze tecniche e capacità acquisite, senza che in contrario rilevi l’esistenza di esigenze organizzative aziendali o il giudizio di equivalenza tra le vecchie e nuove attività espresso dalla contrattazione collettiva tramite il sistema di inquadramento. Il risarcimento del danno alla professionalità spettante al lavoratore può essere commisurato in una quota della retribuzione mensile. (Corte d’Appello Milano 31/1/2003, Pres. De Angelis Est. Accardo, in D&L 2003, 334)
- Il giudizio di equivalenza delle mansioni, ex art. 13 SL, deve essere effettuato, nel settore del lavoro giornalistico televisivo, tenendo conto sia della possibilità di utilizzare nelle nuove mansioni l’esperienza e la professionalità maturate nello svolgimento delle mansioni precedenti, sia della visibilità connessa all’espletamento di tali mansioni. (Trib. Roma 9/12/2002, ord., Est. Paglierini, in D&L 2003, 99, con nota di Maurizio Borali, “Il caso Santoro e la tutela della dignità professionale del giornalista”)
- Ai sensi e per gli effetti dell’art. 2103 c.c. le nuove mansioni possono giudicarsi equivalenti a quelle originariamente svolte allorché consentano e richiedano, per il loro espletamento, la piena utilizzazione e l’arricchimento del patrimonio professionale acquisito nella pregressa fase del rapporto. (Trib. Bari 3/12/2002, Est. Rubino, in Lav. nella giur. 2003, 490)
- In tema di jus variandi del datore di lavoro, il divieto di variazioni in peius opera quando al lavoratore, pur restando inalterata la sua collocazione nella organizzazione gerarchica dell’impresa e la sua retribuzione, siano assegnate di fatto mansioni sostanzialmente inferiori, sicché nell’indagine circa tale equivalenza non è sufficiente il riferimento in astratto all’inquadramento formale, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito e garantendo lo svolgimento e l’accrescimento delle sue capacità professionali, con le conseguenti prospettive di miglioramento professionale (Cass. 17 marzo 1999, n. 2428; Cass. 10 agosto 1999, n. 8577; Cass. 3 novembre 1997, n. 10775; Cass. 11 gennaio 1995, n. 276). In conclusione, è consentito affermare che nuove mansioni siano equivalenti alle ultime effettivamente svolte soltanto ove risulti tutelato il patrimonio professionale del lavoratore, anche nel senso che la nuova collocazione gli consenta di utilizzare, ed anche di arricchire, il patrimonio professionale precedentemente acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del proprio bagaglio di conoscenze ed esperienze (Cass. 28 marzo 1995, n. 3623; Cass. 26 gennaio 1993, n. 9319). (Sulla base di tale principio di diritto è stata cassata la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto che la lavoratrice addetta a compiti di segreteria poteva essere assegnata a quelli di portalettere, in quanto formalmente inquadrati nello stesso livello contrattuale e pattiziamente dichiarati dagli agenti contrattuali equivalenti) (Cass. 2/10/2002, n. 14150, Pres. Ciciretti, Rel. Picone, in Lav. e prev. oggi 2003, 343)
- In presenza di serie e ragionevoli esigenze aziendali si affievolisce il diritto del lavoratore all’esercizio di mansioni di stretta attinenza alla propria fascia professionale: in simili ipotesi il rifiuto del lavoratore di esercitare diverse mansioni si pone come contrario a buona fede, con conseguente esclusione della legittimità del ricorso all’autotutela ex. art. 1460 c.c. da parte del lavoratore stesso. (Cass. 12/7/2002, n. 10187, Pres. Ciciretti, Est. Guglielmucci, in Riv. it. dir. lav. 2003, 53, con nota di Maria Valentina Casciano, Una ipotesi di “affievolimento” del diritto del lavoratore alla equivalenza delle mansioni ex. art. 2103 c.c.).
- L’esercizio dello ius variandi è affidato alla discrezionalità del datore di lavoro, nel rispetto dell’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedentemente svolte e con la garanzia di irriducibilità della retribuzione; non occorre che esso venga in alcun modo motivato, non essendo tale obbligo previsto dalla legge né da altra fonte. Inoltre, il datore di lavoro, nell’esercizio dello ius variandi non è di per sé sottratto, in linea generale, all’osservanza delle clausole generali di correttezza e buona fede, le quali però non inducono nei rapporti giuridici diritti ed obblighi diversi da quelli legislativamente o contrattualmente previsti, ma sono destinate ad operare all’interno dei rapporti medesimi in funzione integrativa di altre fonti (nella specie è stato escluso il carattere discriminatorio o vessatorio o arbitrario del mutamento di mansioni). (Cass. 10/5/2002, n. 6763, Pres. Mileo, Est. De Luca, in Riv. it. dir. lav. 2003, 46, con nota di Roberto Restelli, Motivazione dell’esercizio dello ius variandi e clausole generali di correttezza e buona fede).
- L’assegnazione al dipendente di mansioni di minor spessore sia concettuale sia d’autonomia e d’iniziativa, nonché del tutto eterogenee rispetto alle precedenti – ossia tali da non consentire in alcun modo l’utilizzo della professionalità maturata – è illegittima, difettando l’equivalenza al riguardo prescritta dalla art. 2103 c.c.; la misura del conseguente danno professionale è determinabile in via equitativa (nella fattispecie è stata determinata nel 40% della retribuzione spettante durante il periodo di dequalificazione). (Trib. Milano 6/5/2002, Est. Frattin. In D&L 2002, 635)
- Nel settore dell’informazione televisiva la professionalità acquisita dal dipendente, se lesa da un demansionamento, non trova forme di ristoro in provvedimenti successivi a contenuto patrimoniale, in quanto questi non assicurano al dipendente il ripristino di quelle condizioni di credibilità professionale, di integrità dell’immagine di tecnico-specialistico dell’informazione, che trovano fondamento anche nel rapporto diretto con i fruitori dell’informazione (Trib. Roma 20/3/01, est. Torrice, in Lavoro giur. 2001, pag. 776, con nota di Menegatti, I provvedimenti d’urgenza nel processo del lavoro: limiti, contenuto e presupposti)
- La prolungata inattività forzata, specie in presenza di una elevata professionalità, comporta il fondato rischio di pregiudicare irreparabilmente, durante il tempo occorrente per la conclusione del giudizio di merito, il diritto del lavoratore a realizzare la propria personalità nell’ambiente di lavoro, attraverso lo svolgimento di mansioni corrispondenti alla qualifica di appartenenza (Trib. Roma 11/1/01 ordinanza, est. Mastroberardino, in Lavoro giur. 2001, pag. 773, con nota di Menegatti, I provvedimenti d’urgenza nel processo del lavoro: limiti, contenuto e presupposti)
- Ai fini della valutazione della equivalenza delle mansioni alle “ultime effettivamente svolte” è insufficiente la mera comparazione in relazione al livello contrattuale in cui le stesse risultano inquadrabili, costituendo essa solo il primo momento di analisi (con valenza fortemente presuntiva della non equivalenza laddove ne risulti un diverso inquadramento operato dalle stesse parti sociali) dovendosi altresì avere riguardo, per la sussistenza della equivalenza in concreto, a diversi elementi quali il contenuto delle mansioni, che identifica la professionalità acquisita, il grado di autonomia e discrezionalità nell’esercizio delle mansioni, nonché la posizione del dipendente nel contesto organizzativo del lavoro (Trib. Milano 9/11/00, est. Cincotti, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 943)
- Costituisce illegittima dequalificazione la sottrazione di tutte le mansioni attribuite al dipendente, tale da determinarne la totale inoperosità; tale demansionamento lede la professionalità del lavoratore, intesa sia come insieme delle competenze professionali acquisite, sia come identità professionale del lavoratore percepita all’esterno nella società civile, e cagiona un danno che può essere accertato anche sulla base di presunzioni semplici (Trib. Milano 26 aprile 2000, est. Atanasio, in D&L 2000, 750, n. PAVONE)
- La sottrazione della parte più qualificante delle mansioni, con conservazione delle attività più semplici e ripetitive, è illegittima e determina un danno al bagaglio professionale e alla carriera del lavoratore, determinabile in via equitativa in una quota della retribuzione mensile (Trib. Milano 8 aprile 2000, pres. Ruiz, est. Accardo, in D&L 2000, 983)
- Ai sensi dell’art. 2103 c.c., il concetto di equivalenza di mansioni non va valutato in astratto ma in concreto, tenendo conto della reale natura e delle concrete modalità di svolgimento delle mansioni con la conseguenza che, nel caso di classificazione del personale per aree, è configurabile una dequalificazione del lavoratore qualora a questi venga assegnata, nell’ambito della stessa area, una posizione professionale meno elevata che comporti l’inutilizzabilità del bagaglio professionale acquisito (Pret. Agrigento 5/3/99, est. Occhipinti, in D&L 1999, 872)
- Il giudizio di equivalenza di cui all’art. 2103 c.c. deve riferirsi alla professionalità del lavoratore, da intendersi come bagaglio professionale di esperienza e nozioni da questi acquisito nel corso del rapporto, che deve assumersi quale base da migliorare e arricchire con le nuove mansioni (Pret. Genova 15/5/98 (ord.), est. Ravera, in D&L 1998, 987, nota Bottani, Sul giudizio di equivalenza ex art. 2103 c.c.. In senso conforme, v. Trib. Campobasso 12/6/99 (ord.), est. Valle, in D&L 1999, 870)
- L’assegnazione a mansioni non corrispondenti all’inquadramento contrattuale del lavoratore e non aderenti alla sua specifica competenza, che non gli consentano pertanto la piena utilizzazione o l’arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, comporta una dequalificazione professionale. (Nella specie il lavoratore con mansione di provagomme, su pista e strada, è stato adibito al controllo del reclamato pneumatici, che consiste in una attività meramente manuale, totalmente priva di responsabilità e autonomia nell’esecuzione del lavoro) (Pret. Milano 1/4/98, est. Vitali, in D&L 1998, 992)
- Ai sensi dell’art. 2103 c.c., qualora il datore di lavoro alleghi che l’assegnazione di mansioni inferiori si è resa necessaria in considerazione della sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore che avrebbe potuto condurre anche al licenziamento, grava sullo stesso datore di lavoro l’onere di provare tale inidoneità e l’inesistenza di altre mansioni professionalmente equivalenti, con la conseguenza che, in caso di mancato assolvimento a tale onere probatorio, l’assegnazione a mansioni inferiori deve ritenersi illegittima (Pret. Milano 28 marzo 1997, est. Ianniello, in D&L 1997, 791)
- Ai sensi dell’art. 2103 c.c., è illegittima l’assegnazione di nuove mansioni che non consentano la conservazione del bagaglio professionale acquisito e la valorizzazione delle capacità del lavoratore, dovendosi al riguardo ritenere irrilevante che il mutamento di mansioni sia stato disposto in considerazione della sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore che può condurre al licenziamento ma non può mai giustificare il declassamento, in mancanza di un consenso espresso o tacito del lavoratore medesimo (Pret. Milano 8/1/97, est. Porcelli, in D&L 1997, 597)
- Lo jus variandi del datore di lavoro deve essere esercitato tutelando l’utilizzazione, il perfezionamento e l’accrescimento della posizione professionale del lavoratore (Pretura Nocera Inferiore 5/12/96, est. Viva, in D&L 1997, 348)
- L’assegnazione di nuove mansioni che riducano quantitativamente le attribuzioni e i campi di intervento del lavoratore, svuotandone qualitativamente la posizione professionale complessiva, oltre a non consentirne uno sviluppo professionale, comporta una dequalificazione professionale (nella fattispecie con riferimento a lavoratori inquadrati come “operatori di vendita senior”, posizione polivalente caratterizzata da un ampio spettro di capacità professionali e di attitudine operative, è stata ritenuta dequalificante la riduzione delle attribuzioni originarie alle soli attività di transfer order o di marchandiser, il passaggio da un campo operativo merceologicamente indeterminato a uno determinato e in zone prestabilite alle dipendenze di un capo di zona, nonché l’attribuzione di compiti jolly per sostituire colleghi assenti) (Trib. Milano 6/7/96, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 121)
- L’art. 2103 c.c., nel regolare l’esercizio dello ius variandi del datore di lavoro, prevede la possibilità di attribuire nuove mansioni al lavoratore in relazione alle esigenze organizzative dell’azienda nel rispetto, oltre che dell’equivalenza delle nuove mansioni alle precedenti, della tutela del patrimonio professionale del lavoratore, con la conseguenza che deve ritenersi illegittima l’assegnazione al lavoratore di nuove mansioni che non siano aderenti alla sua specifica competenza tecnico – professionale e che non gli consentano la piena utilizzazione o, addirittura, l’arricchimento del patrimonio professionale acquisito nella fase pregressa del rapporto (Pret. Roma 20/2/95, est. Perra, in D&L 1995, 963. In senso conforme, v. Pret. Milano 26/8/96, est, Martello, in D&L 1997, 140; Pret. Nocera Inferiore 20/1/98, est.Viva, in D&L 1998, 718)
- È illegittima la sanzione disciplinare comminata nei confronti del lavoratore che, assunto con mansioni di commesso venditore, si rifiuti di svolgere attività di pulizia generale dei locali (Pret. Milano 7/11/96, est. Muntoni, in D&L 1997, 272, n. Scorbatti, Rifiuto di svolgere mansioni dequalificanti e sanzione antisindacale)
- Lo svolgimento dapprima in via esclusiva e successivamente con altra persona delle medesime mansioni dà luogo a una dequalificazione, in violazione dell’art. 2103 c.c., ove si tratti di mansioni di alto livello, quali, nella fattispecie, la direzione tecnica della produzione con responsabilità diretta; in simile caso la <> dei compiti non comporta infatti una riduzione solo quantitativa delle mansioni, ma anche qualitativa, che abbassa il livello professionale dell’attività svolta (Cass. 11/1/95 n. 276, pres. Buccarelli, est. Aliberti, in D&L 1995, 961)
Conseguenze
- In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale ma, al contrario, non può prescindere da una specifica allegazione circa la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito dal dipendente. (Cass. 18/3/2014 n. 6230, Pres. Miani Canevari Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2014, 711)
- In tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e caratteristiche del pregiudizio medesimo; tale danno va quindi dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo la prova per presunzioni. (Cass. 16/10/2013 n. 23530, Pres. Vidiri Rel. Bandini, in Lav. nella giur. 2014, 184)
- In caso di demansionamento, la liquidazione dei danni può essere determinata in misura pari a una percentuale della retribuzione percepita dal lavoratore per tutto il periodo di demansionamento. (Trib. Milano 3/6/2013, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2013, 961)
- Il danno da demansionamento, nella sua accezione patrimoniale, non ponendosi quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo del datore di lavoro, comporta l’onere probatorio del lavoratore di dimostrare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., anche in via presuntiva, non solo la potenzialità lesiva della condotta datoriale bensì anche la sussistenza del danno richiesto e il nesso di causa tra questo e la condotta dedotta; tale accertamento va svolto, ex art. 2103 c.c., attraverso la comparazione tra le mansioni in concreto affidate al lavoratore, quelle astrattamente previste dalla normativa di riferimento per la categoria e per il profilo professionale di riferimento e quelle svolte dallo stesso nel periodo precedente. La liquidazione di tale danno è determinabile, nell’ambito di un giudizio necessariamente equitativo, attraverso il ricorso al parametro della retribuzione quale elemento di massimo rilievo per la valutazione del contenuto professionale ed economico delle mansioni svolte dal singolo lavoratore. (Trib. Milano 8/2/2013, Giud. Scarzella, in Lav. nella giur. 2013, 528)
- Il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del lamentato pregiudizio, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombe sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (confermata, nella specie, la decisione dei giudici di merito, che avevano rigettato la domanda di risarcimento del danno per demansionamento avanzata da un medico direttore del reparto di psichiatria, atteso che il ricorrente aveva omesso di allegare circostanze concrete, dalle quali poter desumere che la riduzione strutturale del servizio di psichiatria territoriale e l’annessa riduzione qualitativa dell’incarico direttivo avesse deteriorato la specifica professionalità del lavoratore e ne avessero compromesso l’evoluzione di carriera). (Cass. 15/6/2012 n. 9860, Pres. Roselli Est. Berrino, in Orient. Giur. Lav. 2012, 276)
- In ipotesi di mobbing, concretizzatosi nel protratto demansionamento del lavoratore ed in comportamenti lesivi della sua persona, il datore di lavoro risponde dei danni per violazione dell’art. 2087 c.c. (Trib. Campobasso 16/1/2004, Est. Valle, in D&L 2004, 107)
- Il demansionamento ridonda in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato. Tale lesione produce automaticamente un danno rilevante sul piano patrimoniale, anche se determinabile necessariamente solo in via equitativa. L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, supera l’affermazione per cui la mortificazione della professionalità possa dar luogo a risarcimento solo ove venga fornita la prova dell’effettiva esistenza di un danno patrimoniale. La prova, viceversa, rimane necessaria per quanto riguarda l’eventuale danno materiale. (Cass. 2/1/2002, n. 10, Pres. Mercurio, Est. Coletti, in Riv. it dir. lav. 2003, 58, con nota di Carlo Quaranta, La dimensione equitativa della valutazione del danno da demansionamento).
- Il demansionamento professionale dà luogo ad un pluralità di pregiudizi, solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del lavoratore, violando non solo lo specifico divieto di cui all’art. 2103 c.c., ma costituendo anche offesa alla dignità professionale del prestatore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità nel contesto lavorativo (in cui si sostanzia il danno alla dignità del lavoratore, bene immateriale per eccellenza) e quindi di lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio che ne deriva incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione equitativa (Cass. 18/10/99, n. 11727). L’affermazione di un valore superiore della professionalità, direttamente collegato ad un diritto fondamentale del lavoratore e costituente sostanzialmente un bene a carattere immateriale, in qualche modo supera ed integra la precedente affermazione che la mortificazione della professionalità del lavoratore possa dar luogo a risarcimento solo ove venga fornita la prova dell’effettiva sussistenza di un danno patrimoniale (cfr. sentenze 11/8/98, n. 7905; 4/2/97, n. 1026 e 13/8/91, n. 8835).Va invece dimostrato il concreto pregiudizio qualora si adduca addizionalmente una lesione della professionalità in senso obiettivo, sciolta da ogni riferimento alla dignità del lavoratore ed intesa nel senso di perdita di occasioni concrete di progressione lavorativa (Cass. 6/11/00, n. 14443, pres. Trezza, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2287)
- La revoca dell’incarico dirigenziale con assegnazione, dietro ordine giudiziale, a mansioni di posizione professionale non equivalente, occasiona per il lavoratore rimosso sia il diritto al risarcimento del danno – per violazione degli artt. 2 e 41 Cost. e 2087 c.c. – alla libera esplicazione della personalità nel luogo di lavoro, la cui lesione si verifica per il riflesso che la dequalificazione professionale ha, sia nell’ambiente di lavoro sia all’esterno, sulla dignità dell’uomo e del lavoratore, sulla aspettativa di carriera, sull’immagine e sulla vita di relazione con riferimento anche allo status sociale (cosiddetto danno alla personalità morale), sia il diritto al risarcimento del danno alla professionalità (tutelata dall’art. 2103 c.c.) che consiste nel mancato incremento delle conoscenze professionali e nel mancato utilizzo delle conoscenze e capacità acquisite, nonché – quando sussistente – del danno biologico (per lesione anatomo-funzionale del soggetto cioè a dire dell’integrità dello stato di salute) e del danno morale (ove la condotta lesiva costituisca anche reato). Entrambe le prime due voci di danno (alla personalità morale e alla professionalità) sono intrinseche e conseguenziali al demansionamento secondo l’id quod plerumque accidit ed hanno una dimensione patrimoniale che le rende suscettibili di risarcimento e di valutazione anche equitativa (cfr. Cass. n. 11727/99) (Trib. Treviso 13/10/00, pres. e est. Ferretti, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2324)
- Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che il pregiudizio correlato a siffatta lesione, spiegandosi nella vita professionale e di relazione dell’interessato, ha un’indubbia dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, secondo quanto previsto dall’art. 1226 c.c. (nel caso di specie la sentenza impugnata – cassata dalla S.C.- aveva respinto la domanda di risarcimento del danno proposta dal lavoratore demansionato sull’assunto del mancato assolvimento, da parte dello stesso, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di un danno patrimoniale in qualche modo risarcibile) (Cass. 18/10/99, n. 11727, in Lavoro giur. 2000, pag. 244, con nota di Mannaccio)
- L’assegnazione di mansioni non equivalenti alle precedenti, in quanto appartenenti a un tipo di professionalità diversa, è illegittima per violazione dell’art. 2103 c.c. e deve pertanto ritenersi ammissibile l’ordine di reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte (Pret. Genova 15/5/98 (ord.), est. Ravera, in D&L 1998, 987, nota Bottani, Sul giudizio di equivalenza ex art. 2103 c.c.)
- La privazione del lavoratore di ogni mansione viola l’art. 2103 c.c. e comporta la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente nelle mansioni precedentemente svolte o in altre equivalenti (Pret. Milano 7/4/98, est. Curcio, in D&L 1998, 702)
- L’assegnazione di nuove mansioni che riducano le attribuzioni del lavoratore, e ne svuotino qualitativamente la posizione professionale complessiva, comporta un danno alla dignità e personalità del dipendente, che sono beni protetti a livello costituzionale, e un danno da perdita di chances nel mercato del lavoro, in conseguenza del diminuito livello professionale; conseguentemente, il datore di lavoro deve essere condannato alla reintegrazione del dipendente nelle precedenti mansioni, o in altre equivalenti, nonché al risarcimento dei danni conseguenti alla dequalificazione (nella fattispecie, si è ritenuto che per la determinazione di tali danni, da compiersi in via equitativa, si possa fare riferimento a una quota della retribuzione mensile, crescente con il perdurare nel tempo della lesione alla professionalità, fino a raggiungere il 100% della retribuzione stessa) (Pret. Milano 9/12/97, est. Ianniello, in D&L 1998, 421, n. BOTTANI, Sulla nozione di danno alla professionalità)
- L’assegnazione del lavoratore a mansioni non corrispondenti alla categoria di appartenenza, che non consentano alcun arricchimento del patrimonio professionale, né avanzamenti di carriera, e che al contrario determinino uno stato di inoperosità ed emarginazione, viola l’art. 2103 c.c. e comporta la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nelle mansioni precedenti ovvero in altre a esse equivalenti e altresì al risarcimento del danno alla professionalità così cagionato; per la determinazione in via equitativa di tale danno può farsi riferimento a una quota della retribuzione mensile commisurata alla durata della dequalificazione (Trib. Milano 30/5/97, pres. Gargiulo, est. Ruiz, in D&L 1997, 789)
- Il mutamento di mansioni disposto dal datore di lavoro contrasta con il complessivo modello di tutela previsto dall’art. 13 S.L. qualora la mansione di destinazione risulti di minore rilievo professionale rispetto a quella di provenienza – avuto conto, delle responsabilità, dell’attività di coordinamento di altro personale e dell’inquadramento caratterizzanti la prima mansione – e altresì risulti il mancato rispetto della professionalità acquisita, attesa la diversità di competenze necessarie per lo svolgimento delle nuove mansioni; il contrasto con il modello di tutela legale giustifica l’ordine di reintegrazione nelle mansioni di provenienza (Trib. Milano 25/10/95, pres. ed est. Siniscalchi, in D&L 1996, 152)
- Ove il datore di lavoro, non avendo più bisogno dell’attività inizialmente affidata al dipendente, lo lasci totalmente inoperoso, pone in essere un inadempimento contrattuale, in violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c.; conseguentemente, il datore di lavoro deve essere condannato ad adibire il dipendente a mansioni corrispondenti alla qualifica rivestita (Pret. Milano 11/3/96, est. Curcio, in D&L 1996, 677)
- Ove il lavoratore sia rimasto vittima di una dequalificazione, deve ritenersi ammissibile l’ordine di reintegrazione nelle mansioni precedentemente svolte o in altre effettivamente equivalenti; l’eventuale incoercibilità di un simile ordine, infatti, non priva lo stesso di un’autonoma utilità, ravvisabile, oltre che nella possibilità della decisione di produrre i suoi effetti normali mediante esecuzione volontaria, anche nel fatto che la stessa può costituire il presupposto di ulteriori conseguenze giuridiche, derivanti dall’inosservanza dell’ordine contenuto nella sentenza, eventualmente anche di rilievo penale (Trib. Roma 3/1/96, pres. Cecere. Est. Pagetta, in D&L 1997, 117)
Questioni di procedura
- Nella controversia avente a oggetto il demansionamento o la dequalificazione del lavoratore, si applica il principio generale in tema di prova dell’inadempimento delle obbligazioni secondo cui il creditore deve provare la fonte negoziale o legale del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fattoe estintivo, ossia dell’avvenuto adempimento; ne consegue che, allorquando il lavoratore alleghi una dequalificazione o un demansionamento o comunque un inesatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento dell’obbligo del datore di lavoro ex art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo o attraverso la prova della mancanza in concreto di una qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero mediante la prova che l’uno e l’altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. (Trib. Milano 20/3/2007, ord., Est. Di Leo, in D&L 2007, 842)
- Anche in ipotesi di lavoro pubblico privatizzato è applicabile il principio del divieto di mutatio in peius, quando da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili a un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’una o l’altro siano giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari e, comunque, in base al principio generale risultante dall’art. 1218 c.c., da un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. (App. Ancona 6/7/2006 Pres e Rel. Taglienti, in Lav. nella giur. 2007, 633)
- In tema di dequalificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, è sindacabile in cassazione la sola individuazione dei criteri generali e astratti che presiedono alla differenziazione delle contrapposte figure, mentre è questione di fatto, come tale rimessa al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici, l’accertamento in concreto dell’effettiva natura del rapporto. (Cass. 5/12/2005 n. 26349, Pres. Mileo Est. D’Agostino, in Orient. Giur. Lav. 2005, 786)
- In caso di assegnazione a mansioni diverse, ma astrattamente equivalenti in quanto ricomprese in uno stesso livello di categoria, è onere del lavoratore che contesti l’esistenza in concreto dell’equivalenza di allegare e dimostrare che le nuove mansioni determinano, in relazione al particolare tipo di specializzazione conseguito, l’impossibilità di utilizzare la professionalità acquisita. (Trib. Roma 7/7/2004, Est. Leo, in Lav. nella giur. 2005, 87)
- Alla transazione con la quale il lavoratore rinuncia ad ogni domanda di diverso inquadramento in relazione a determinate mansioni, non può attribuirsi-ai sensi dell’art. 1965 c.c.-un effetto ricognitivo tale da precludere al giudice l’accertamento della qualifica spettante al lavoratore in forza delle medesime mansioni, purchè svolte nel periodo successivo alla transazione. (Cass. 26/9/2003 n. 14386, Pres. Mattone Est. Stile, in D&L 2003, 963, con nota di Roberto Muggia-Marco Orlando, “Transazione e diritto alla qualifica superiore”)
- La professionalità acquisita dal dipendente, specie nel settore del giornalismo televisivo, una volta lesa dal demansionamento non trova forme di ristoro adeguate in provvedimenti successivi a contenuto patrimoniale; per prevenire tale lesione è pertanto ammissibile il ricorso alla procedura di urgenza. (Trib. Roma 9/12/2002, ord., Est. Paglierini, in D&L 2003, 99, con nota di Maurizio Borali, “Il caso Santoro e la tutela della dignità professionale del giornalista”)
- L’ordine di reintegrazione nelle precedenti mansioni emesso in sede cautelare è incoercibile e quindi non sono determinabili attraverso la procedura prevista dall’art. 669-duodecies c.p.c. le modalità attuative del provvedimento d’urgenza emanato, non potendo essere attuato coattivamente un facere infungibile, con la conseguente inammissibilità sia della nomina di un commissario ad acta – che, tra l’altro, è istituto tipico ed esclusivo della giurisdizione amministrativa – sia della nomina di un ufficiale giudiziario che assista e verbalizzi le operazioni di reintegra (Trib. Benevento 22/3/01 ordinanza, pres. e est. Piccone, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 383, con nota di Pisani, Azione cautelare e dequalificazione nel rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione)
- È ammissibile e fondata la richiesta di provvedimento d’urgenza, volta a ripristinare lo status quo ante, avanzata dal lavoratore che assuma e dimostri di essere stato adibito a mansioni non equivalenti alle precedenti, bensì rispetto a queste ultime inferiori (Trib. Pordenone 21/10/00 (ord.), est. Costa, in Lavoro giur. 2001, pag. 363, con nota di Piovesana, Demansionamento e trasferimento con tutela d’urgenza)
- In caso di demansionamento o, comunque, di mancata adibizione alle mansioni corrispondenti al bagaglio professionale acquisito dal lavoratore ex art. 2103 c.c., il pregiudizio irreparabile che legittima un provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. è ravvisabile ove sia presente una lesione di diritti di natura strettamente personale, come quello all’elevazione e alla formazione professionale (art. 35 Cost.) o quelli attinenti alla personalità dell’individuo (art. 2 Cost.) di cui siano dal ricorrente forniti sufficienti e concreti elementi di valutazione; con la doverosa precisazione che il danno alla professionalità può assurgere al requisito di ammissibilità allorché la situazione cautelanda ne comprometta lo sviluppo ovvero ne pregiudichi i risultati acquisiti, ad esempio per la rapida obsolescenza derivante dall’inattività o dall’adibizione illegittima a mansioni affatto differenti ovvero per il rapido evolversi delle tecnologie necessario allo svolgimento dell’attività lavorativa (Trib. Pordenone 21/10/00 (ord.), est. Costa, in Lavoro giur. 2001, pag. 363, con nota di Piovesana, Demansionamento e trasferimento con tutela d’urgenza)
- E’ configurabile il pericolo del pregiudizio grave ed irreparabile nel ritardo, a prescindere dalla durata di espletamento delle mansioni proprie del profilo professionale di appartenenza, in quanto la perdita di quelle mansioni priva il soggetto che la subisce di quella quotidiana crescita professionale, che costituisce un patrimonio non risarcibile patrimonialmente e, in quanto tale, meritevole di tutela cautelare. Tuttavia, in materia di controversie individuali di lavoro alle dipendenze della P.A., il provvedimento di accoglimento della domanda cautelare comporta la disapplicazione dell’atto amministrativo presupposto che si assume illegittimo, con riferimento alla sola posizione del soggetto interessato, ma non la ricostituzione del modulo organizzativo che quell’atto ha eliminato (Trib. Roma 24/11/99, pres. Zecca, est. Cecere, in Dir. lav. 2001, pag. 83, con nota di Ranaldi, Lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tutela cautelare della professionalità acquisita e disapplicazione dell’atto amministrativo presupposto)
- La domanda, volta ad ottenere tutela in via cautelare del diritto a svolgere le mansioni di assunzione, non può essere accolta per difetto del pericolo del pregiudizio nel ritardo, quando l’espletamento di quelle mansioni abbia avuto una durata tale da non consentire, per la sua brevità, la completa e definitiva acquisizione della professionalità ad esse connessa, poiché in tal caso non può neppure sussistere il pericolo che quella professionalità venga definitivamente dispersa durante il periodo di tempo necessario per la definizione del giudizio di merito (Trib. Roma 24/9/99, est. Fiorioli, in Dir. lav. 2001, pag. 83, con nota di Ranaldi, Lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, tutela cautelare della professionalità acquisita e disapplicazione dell’atto amministrativo presupposto)
- L’assegnazione al lavoratore, in violazione al disposto dell’art. 2103 c.c., di mansioni inferiori a quelle da ultimo svolte può dar luogo a un pregiudizio grave e irreparabile che, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., legittima la concessione del provvedimento di urgenza, qualora, per effetto della dequalificazione, si realizzi una perdita delle possibilità di crescita professionale del lavoratore (Trib. Campobasso 12/6/99 (ord.), est. Valle, in D&L 1999, 870)
- Sussiste il periculum in mora nel caso di asserita dequalificazione, con conseguente paventata lesione della professionalità (Pret. Milano 26/5/98 (ord.), est. Marasco, in D&L 1998, 977, nota Chiusolo, La dequalificazione del redattore ordinario)
- In ipotesi di dequalificazione sussiste il periculum in mora, che legittima un provvedimento d’urgenza di reintegrazione nelle precedenti mansioni, qualora si tratti di mansione altamente specializzate, che necessitano per la loro natura di un continuo aggiornamento, con applicazione pratica a casi concreti, e il cui mancato esercizio dia quindi luogo a una perdita di professionalità (Trib. Roma 12/3/97, pres. Lanzellotto, est. Garri, in D&L 1997, 794)
Pubblico impiego
- E’ da ritenersi escluso il demansionamnto (quale fatto duraturo e foriero di perdita di professionalità) in caso di carattere meramente provvisorio e temporaneo (oltre che generalizzato per tutti i dipendenti di fascia dirigenziale) dell’attività lavorativa svolta nell’immediato avvio di una nuova struttura operativa, seguito dalla pronta assegnazione di mansioni equivalenti. (Cass. 7/10/2008 n. 24738, Pres. Celentano Rel. Curcuruto, in Lav. nelle P.A. 2008, 885, e in in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Monica Ferretti, “Trasferimenti di attività tra soggetti pubblici: passaggio personale e natura degli atti. Quando a trasferirsi è il dirigente”, 1093)
- Nella disciplina del pubblico impiego il demansionamento del lavoratore deve essere valutato in base alla astratta coerenza formale tra inquadramento e nuove mansioni, ma l’interscambiabilità di incarichi all’interno della medesima categoria professionale non può divenire il mezzo per incidere negativamente sulla professionalità del lavoratore, come pattiziamente tipizzata. Ogni tipo di lesione di cui si chiede il ristoro, in conseguenza del demansionamento, deve essere oggetto di prova, nonché determinata nella specie in base al bene della vita effettivamente leso. (Trib. Roma 21/4/2008, d.ssa Marocco, in Lav. nella giur. 2008, 1169)
- Essendo il Comandante della Polizia Municipale l’unica figura professionale nell’ambito del Comune che gode di una disciplina ad hoc, non è consentita la sua sostituzione con un altro soggetto, essendogli riservata per espressa previsione normativa una disciplina diversa da quella degli altri dipendenti: la revoca delle funzioni di Comandante della Polizia Municipale determina una dequalificazione professionale del dipendente. (Trib. Camerino 1/3/2007, Est. Basilli, in Lav. nelle P.A. 2007, con nota di Mario Maria Nanni, 725)
- Va escluso che l’attribuzione al lavoratore, da parte del datore di lavoro pubblico, di mansioni proprie di dipendenti con qualifica inferiore, quando queste siano aggiuntive e non prevalenti rispetto alle mansioni della qualifica di appartenenza, concreti demansionamento illegittimo. (Cass. 7/8/2006 n. 17774, Pres. Mileo Est. Curcuruto, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Sabrina Bellumat, “Inquadramento, attività esigibili e demansionamento nella pubblica amministrazione”, 797)
- Non sussiste alcun diritto dei dipendenti ad essere preposti ad una posizione organizzativa anche qualora l’abbiano già ricoperta in virtù di un precedente incarico, posta la natura temporanea e fiduciaria dell’incarico stesso e gli indubbi margini di discrezionalità valutativa riconosciuti al titolare del potere di conferimento, rinnovo e revoca di tali funzioni. La mancata conferma di un incarico di posizione organizzativa non dà origine a demansionamento, considerato che tali incarichi vengono conferiti a tempo determinato, possono essere revocati anticipatamente, e alla scadenza dell’incarico il dipendente – che comunque resta inquadrato nella categoria di appartenenza – viene restituito alle funzioni del relativo profilo di appartenenza. (Corte d’appello Firenze 28/1/2005 n. 90, Pres. e Est. Bartolomei, in Lav. nelle P.A. 2005, con commento di Monica Navilli, “Incarichi di posizioni organizzative: diritto alla conferma dell’incarico, retribuzione e demansionamento negli enti locali”, 178)
- La fonte regolatrice dell’ipotesi di cambiamento di mansioni di un dipendente pubblico, non è l’art. 2103 c.c., bensì l’art. 152, D.Lgs n. 165/2001 che al primo comma prevede un evidente mutamento di prospettiva rispetto all’art. 2103 c.c., che il prestatore di lavoro debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi. (Trib. Milano 27/3/2002, Est. Negri della Torre, in Lav. nella giur. 2003, 90)
- La contrattazione collettiva del comparto Regione ed Autonomie Locali non prevede la qualifica di quadro, ma la posizione di quadro collegata all’attribuzione temporanea di un incarico ai dipendenti di categoria D che abbiano superato apposita selezione; pertanto il dipendente cui detto incarico sia stato legittimamente revocato (nella specie, a seguito d’annullamento della relativa selezione da parte del Tar) non può lamentare un demansionamento rispetto alla predetta (non esistente qualifica). (Trib. Milano 19/12/2001, Est. Curcio, in D&L 2002, 374)
- Il dipendente pubblico del comparto Enti Locali inquadrato nella categoria D cui vengano affidati incarichi inconsistenti e non corrispondenti alla categoria, ha diritto al risarcimento del danno professionale da perdita di chances, poiché detta dequalificazione rende più difficoltosa la successiva assegnazione di incarichi quadro; tale danno deve essere quantificato in via equitativa in un terzo della retribuzione. (Trib. Milano 19/12/2001, Est. Curcio, in D&L 2002, 374)
- Qualora l’Amministrazione abbia illegittimamente attribuito ad un dipendente un inquadramento superiore e ne abbia mantenuto gli effetti per molto tempo (nella specie quasi un decennio), è tenuta a risarcire al lavoratore il danno biologico, il danno alla persona ed il danno alla professionalità -sotto il profilo della perdita di chances – derivanti dalla sopravvenuta revoca di tale atto di inquadramento. (Trib. Milano 30/11/2001, Est. Chiavassa, in D&L 2002, 109, con nota di Alberto Guariso, “Nomina illegittima, autotutela della PA e risarcimento del danno”)
- L’esercizio dello jus variandi del datore di lavoro pubblico può essere esercitato nell’ambito di mansioni equivalenti, cioè che salvaguardino il bagaglio professionale acquisito dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto di lavoro. Lo spostamento del lavoratore a mansioni inserite in un’area classificatoria inferiore prevista dal contratto collettivo costituisce un demansionamento da cui consegue il diritto al risarcimento del danno professionale. (Trib. Trieste 8/2/2002, Est. Multari, in Lav. nella giur. 2003, 465, con commento di Domenico Carlomagno)
- Nel procedimento d’urgenza ex art. 700 riguardante il mutamento delle mansioni del dipendente pubblico, il danno grave e irreparabile, che si configura come requisito preliminare per l’adozione del provvedimento, deve essere valutato in concreto e non già astrattamente in quanto, altrimenti, il periculum ricorrerebbe indiscriminatamente in tutti i casi di spostamento ad altro incarico con mutamento delle mansioni; per quanto riguarda la professionalità, tale periculum sussiste solo qualora si tratti di mansioni altamente specializzate, che necessitino per loro natura di un continuo aggiornamento, con applicazione pratica a casi concreti, e il cui mancato esercizio dia luogo quindi ad una perdita di professionalità; anche per quanto concerne l’eventuale lesione all’immagine, è necessario individuare in concreto il periculum poiché, di per sé, lo spostamento da un incarico ad un altro non implica in alcun modo lesione della dignità del lavoratore, non potendosi ritenere detto spostamento necessariamente punitivo e significativo di comportamenti riprovevoli (Trib. Benevento 23/1/01 ordinanza, pres. e est. Chiariotti, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 382, con nota di Pisani, Azione cautelare e dequalificazione nel rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione)
- L’eventuale danno alla professionalità del dipendente pubblico derivante dall’adibizione a mansioni inferiori non è suscettibile di essere eliminato con il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., stante la preclusione di una pronuncia ripristinatoria, con conseguente inutilità-inidoneità, rispetto al pericolo di pregiudizio prospettato dal ricorrente, del provvedimento stesso (Trib. Gorizia 2/8/00 ordinanza, pres. e est. Masiello, in Lavoro nelle p.a. 2001, pag. 382, con nota di Pisani, Azione cautelare e dequalificazione nel rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione)
- Al dipendente pubblico privatizzato che lamenti un’illegittima dequalificazione professionale non si applica l’art. 2103 c.c. bensì l’art. 56 del D. Lgs. 3/2/93 n. 29, norma che, pur ricalcando apparentemente quella codicistica, se ne differenzia profondamente: in particolare l’indicata norma del D. Lgs. citato utilizza il principio di equivalenza con riferimento alle mansioni di assunzione (e non alle mansioni da ultimo svolte), e consente al datore di lavoro pubblico l’esercizio dello ius variandi nell’ambito delle mansioni da considerarsi “equivalenti” in base alla classificazione fornitane dalla contrattazione collettiva, limitando pertanto l’ambito sul successivo controllo giudiziale (Trib. Milano 5 maggio 2000, est. Peragallo, in D&L 2000, 758)
- Al dirigente di ente locale che lamenti un’illegittima dequalificazione professionale non si applica l’art. 2103 c.c. in quanto l’art. 19 del D. Lgs. 3/2/93 n. 29 – che ribadisce i principi di temporaneità e mobilità negli incarichi dirigenziali già introdotti dal D. Lgs. 17/5/97 n. 127 – esclude espressamente l’applicabilità della norma codicistica in ipotesi di conferimento o mutamento di incarichi dirigenziali; il criterio della “capacità professionale” richiamato dal 1° comma di tale articolo non è pertanto riferibile alla professionalità acquisita, tutelata dall’art. 2103 c.c., bensì a un giudizio prognostico sulle potenzialità del dirigente, ed è quindi criterio derogabile e non vincolante (Trib. Milano 5 maggio 2000, est. Peragallo, in D&L 2000, 758)