Questa voce è stata curata da Chiara Bovenga
Scheda sintetica
Il fallimento è una procedura concorsuale con finalità liquidatoria che permette ai creditori dell’imprenditore di essere soddisfatti in misura tendenzialmente paritaria, salvi i diritti di prelazione, rivalendosi sul patrimonio dell’imprenditore stesso.
Tra i creditori dell’imprenditore vi sono anche i lavoratori. Questi rivestono una posizione particolare poiché oltre ad avere un interesse economico, ne hanno anche uno ulteriore: quello alla stabilità e alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
La procedura fallimentare, disciplinata dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267 come novellato dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal successivo D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, per poter trovare applicazione richiede che ricorrano due presupposti, uno soggettivo ed uno oggettivo.
Per quanto riguarda il primo, non sono assoggettati alle norme in tema di fallimento gli enti pubblici e gli imprenditori agricoli, nonché i “piccoli imprenditori” commerciali, cioè coloro che dimostrino il possesso congiunto di tre requisiti:
- aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di presentazione dell’istanza di fallimento (o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore) un attivo patrimoniale annuo non superiore a 300.000€;
- aver realizzato, nello stesso arco temporale, ricavi lordi annui non superiori a 200.000€;
- avere debiti, anche non scaduti, non superiori a 500.000€.
Presupposto oggettivo, invece, è lo stato di insolvenza, cioè l’incapacità dell’imprenditore di soddisfare regolarmente le obbligazioni precedentemente assunte. La soddisfazione regolare è da intendersi non solo come puntualità nel pagamento, ma anche come utilizzo di mezzi “normali” di pagamento (per esempio, è insolvente chi svende il patrimonio per ricavarne liquidità, mentre non lo è chi, per poter adempiere alle obbligazioni, fa ricorso al credito bancario).
Non si fa poi luogo alla dichiarazione di fallimento se i debiti scaduti e non pagati risultano inferiori a 30.000 €.
Normativa di riferimento
- L. 16 marzo 1942, n. 267 (Legge fallimentare) come novellata da D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma della Legge fallimentare) e successivamente modificata da D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (c.d. Decreto correttivo)
- D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 148
- Circolare del Ministero del Lavoro 26 luglio 2015, n. 24
- L. 29 dicembre 1990, n. 428
- D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80
- D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 22
A chi rivolgersi
- Ufficio vertenze sindacali
- Studio legale esperto in diritto del lavoro
- INPS
Fasi della procedura
La procedura fallimentare si articola in una pluralità di fasi:
A) Fase pre-fallimentare
L’iniziativa spetta all’imprenditore, ai creditori (tra cui quindi anche i lavoratori subordinati) e al P.M.
In particolare, i creditori possono attivare la procedura anche se non sono in possesso di un titolo esecutivo.
Dal 2006, inoltre, è venuta meno la dichiarazione di fallimento d’ufficio.
L’atto introduttivo è il ricorso e competente è il Tribunale del luogo in cui l’imprenditore ha la sede principale della sua attività, da intendersi come centro direttivo ed amministrativo degli affari. Non rileva il trasferimento della sede intervenuto nell’anno precedente l’esercizio dell’iniziativa.
Se all’esito della fase pre-fallimentare il Tribunale si convince della presenza dei presupposti necessari, dispone con sentenza (che produrrà immediatamente i propri effetti) il fallimento e nomina due degli organi della procedura: Giudice Delegato e Curatore. Contro tale sentenza è ammesso reclamo alla Corte d’Appello. Potrà, all’opposto, pronunciare decreto di rigetto qualora ritenga non vi siano i presupposti necessari per procedere alla dichiarazione. L’emanazione di questo decreto non comporta l’impossibilità di ripresentare la domanda e, contro di esso, è ammesso reclamo alla Corte d’Appello.
B) Fase di accertamento del passivo
Questa fase è volta a verificare quali creditori abbiano effettivamente diritto di insinuarsi al passivo e in quale misura.
I creditori infatti presentano domanda di ammissione al passivo, indicando l’eventuale privilegio del credito e dimostrando che il titolo è opponibile alla procedura.
Il Curatore predispone poi il progetto di stato passivo che verrà dichiarato esecutivo con decreto dal Giudice Delegato. Tale decreto produce effetti unicamente ai fini del concorso (non ha valenza esterna). Contro tale decreto è ammessa opposizione allo stato passivo, impugnazione dei crediti ammessi e revocazione.
C) Fase di liquidazione dell’attivo
I beni dell’impresa vengono trasformati in denaro da ripartire tra i creditori.
D) Fase di ripartizione dell’attivo
Il giudice, nel ripartire la somma ricavata nella fase precedente, provvede a soddisfare in via prioritaria i crediti prededucibili, cioè quelli così indicati da una norma di legge o “sorti in funzione e in occasione della procedura” (ad esempio, quelli sorti nell’ambito dell’esercizio provvisorio dell’impresa). Successivamente, vengono soddisfatti i crediti privilegiati, cioè quelli il cui privilegio discende o dalla legge o da una garanzia legale (pegno o ipoteca) e, infine, i crediti chirografari.
E) Fase di chiusura del fallimento
Il fallimento si conclude o mediante chiusura ordinaria con decreto del Tribunale o mediate concordato fallimentare. Il concordato fallimentare consiste in un accordo con la maggioranza dei creditori tramite il quale essi rinunciano ai diritti che vantano sul patrimonio del fallito a fronte dell’offerta contenuta nell’accordo stesso. Il concordato ha effetto nei confronti di tutti i creditori, compresi quelli dissenzienti e quelli che non hanno proposto domanda di ammissione al passivo.
Inizialmente, il fallimento presentava anche un contenuto di tipo afflittivo che però, dal 2006, è venuto meno tant’è che, al ricorrere di determinate condizioni, opera, a conclusione della procedura, l’istituto dell’esdebitazione.
Con l’esdebitazione l’imprenditore viene liberato dall’obbligo di ripagare la parte non soddisfatta dei crediti poiché questa diviene inesigibile. Quest’effetto opera anche nei confronti di quei creditori che non hanno proposto domanda di ammissione al passivo, limitatamente alla parte di credito eccedente la percentuale attribuita ai creditori di pari grado. In questo modo, l’imprenditore fallito non viene pregiudicato dai debiti pregressi, ma può ripartire da zero, senza essere definitivamente eliminato dal mercato.
Il fallito, per poter beneficiare dell’istituto, deve
- aver cooperato con gli organi della procedura;
- aver evitato comportamenti che abbiano ritardato o contribuito a ritardare la procedura;
- aver rispettato l’obbligo di consegnare la corrispondenza al Curatore;
- non aver subito condanne con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta e altri reati collegati all’attività d’impresa;
- aver soddisfatto almeno in minima parte i creditori;
- non aver distratto l’attivo, non aver fatto ricorso abusivo al credito e non aver esposto passività; inesistenti, non aver cagionato o aggravato il dissesto;
- non aver goduto di altra esdebitazione negli ultimi dieci anni;
- essere persona fisica.
Organi della procedura
Gli organi della procedura sono:
A) Tribunale fallimentare
Il Tribunale fallimentare è il medesimo Tribunale che ha dichiarato il fallimento e diviene organo della procedura proprio da quel momento. Quest’organo nomina, con la sentenza dichiarativa di fallimento, Giudice Delegato e Curatore. Esso provvede anche all’eventuale sostituzione o revoca degli organi della procedura.
I provvedimenti del Tribunale sono impugnabili con reclamo alla Corte d’Appello, salvo diversa previsione.
L’art. 24, L. fall., dispone che il Tribunale è competente a conoscere di tutte le azioni che derivano dal fallimento. Prima del 2006, la norma conteneva anche un inciso che espressamente riconduceva alla competenza del Tribunale fallimentare le azioni relative ai rapporti di lavoro, ma la riforma ha cancellato questa previsione. Ad oggi, dunque, se il lavoratore vuole impugnare il licenziamento disposto dal Curatore, deve rivolgersi al Giudice del lavoro, salva poi la possibilità di rivolgersi al Tribunale fallimentare per l’accertamento del credito. Esula dalla competenza del Tribunale fallimentare la domanda del lavoratore volta esclusivamente all’accertamento del proprio rapporto di lavoro; tale domanda può essere fatta valere solamente qualora sia la premessa incidentale di una domanda di credito successiva.
Per una visione completa si veda la voce Tribunale fallimentare
B) Curatore
Il curatore gestisce ed amministra il patrimonio del fallito sotto il controllo del Giudice Delegato e del Comitato dei creditori. Ai sensi dell’art. 42, L. fall., infatti, il fallito perde la possibilità di gestire ed amministrare il proprio patrimonio e tale compito passa nelle mani del Curatore. Si parla a riguardo di “spossessamento”.
Esistono una serie di requisiti positivi e negativi per poter essere nominato Curatore. Quest’ultimo assume la qualifica di Pubblico Ufficiale e può farsi assistere da un coadiutore e da un delegato (quest’ultimo anch’esso PU).
In alcuni casi il Curatore ha bisogno dell’autorizzazione del Comitato dei creditori, tendenzialmente per gli atti di straordinaria amministrazione (quelli cioè che fanno sorgere diritti in capo ai terzi). Inoltre, se questi atti superano un certo valore e, in ogni caso, per le transazioni è necessaria la comunicazione al Giudice Delegato.
Contro gli atti e contro le omissioni del Curatore è ammesso reclamo al Giudice Delegato.
Per una visione completa si veda la voce Curatore fallimentare
C) Giudice Delegato
Il Giudice Delegato è l’organo con funzioni di vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura. Tra i suoi compiti più rilevanti vi sono l’autorizzazione per il Curatore a stare in giudizio, la convocazione del Curatore e del Comitato dei creditori ogni qualvolta lo ritenga opportuno e l’emanazione dei provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio.
Contro gli atti del Giudice Delegato è ammesso reclamo al Tribunale.
Per una visione completa si veda la voce Giudice delegato
D) Comitato dei creditori
Il Comitato dei creditori vigila sull’operato del Curatore, ne autorizza gli atti ed esprime pareri nei casi stabiliti dalla legge o su richiesta del Giudice Delegato o del Tribunale.
È composto da tre o cinque membri ed è nominato entro trenta giorni dal Giudice Delegato.
Il Comitato non è organo necessario, poiché qualora non si riuscisse a comporlo, le sue funzioni verrebbero esercitate dal Giudice Delegato (così come in caso di inerzia o di urgenza).
Contro gli atti del Comitato è ammesso reclamo al Giudice Delegato e questo andrà a sostituirsi al Comitato dei creditori.
Per una visione completa si veda la voce Comitato dei creditori
Effetti del fallimento
A seguito della sentenza dichiarativa di fallimento si verificano una serie di effetti per il fallito e per i creditori.
A) Effetti per il fallito
Effetti di tipo patrimoniale
Il fallito subisce lo spossessamento; non perde la proprietà dei suoi beni, ma la possibilità di gestirli ed amministrarli. Lo spossessamento riguarda tutti i beni esistenti alla data del fallimento: beni mobili ed immobili, ma anche diritti a contenuto patrimoniale ed eventuali diritti potestativi; beni che appartengono al fallito in via meramente provvisoria; quelli appartenenti a terzi i quali vantino un diritto inopponibile alla procedura e i beni che pervengono al fallito dopo la dichiarazione di fallimento, dedotte le passività per l’acquisto di quei beni o per la loro conservazione.
Gli unici beni sottratti al vincolo della dichiarazione sono i beni strettamente personali, gli alimenti, gli stipendi e le pensioni nella misura di quanto serve per il mantenimento dell’imprenditore e della sua famiglia, i fondi patrimoniali e i suoi frutti e le cose che non possono essere pignorate.
Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori; così come ugualmente inefficaci sono i pagamenti ricevuti dal fallito dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.
Effetti di tipo processuale
Il fallito non può stare personalmente in giudizio per le controversie relative a rapporti di diritto patrimoniale, al suo posto sta il Curatore. Il fallito può intervenire solamente qualora sia previsto dalla legge o per questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico.
Effetti di tipo personale
Si prevede che il fallito debba depositare i bilanci e le scritture contabili e fiscali obbligatorie, nonché l’elenco dei creditori; inoltre deve consegnare tutta la corrispondenza inerente l’attività d’impresa al Curatore. Dovrà anche comunicare ogni cambio di residenza e/o domicilio e presentarsi personalmente dinanzi agli organi della procedura ogni qualvolta gli sia richiesto.
B) Effetti per i creditori
Scadenza anticipata dei crediti
Tutti i crediti divengono esigibili e si considerano perciò scaduti alla data della sentenza dichiarativa di fallimento (purché si tratti di crediti sorti anteriormente alla stessa sentenza dichiarativa di fallimento).
Sospensione del corso degli interessi
Durante il corso della procedura non maturano gli interessi convenzionali o legali, eccezion fatta per i crediti privilegiati.
Divieto di azioni individuali
Nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per i crediti maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento.
Eventuale compensazione
Qualora i creditori fossero anche debitori del fallito, opererebbe la compensazione, a meno che il credito sia stato acquisito per atto tra vivi dopo la sentenza dichiarativa di fallimento o entro l’anno antecedente.
Effetti sui rapporti giuridici preesistenti
Successivamente alla riforma del 2006, l’art. 72, L. fall., che prima disciplinava le sorti dei soli contratti di compravendita pendenti, è divenuto, norma generale applicabile a tutti i contratti pendenti, salve le espresse previsioni della stessa sezione della Legge fallimentare (ad esempio, si stabilisce che i contratti di conto corrente, mandato e commissione si sciolgano automaticamente o che i contratti di locazione proseguano automaticamente). Per contratti pendenti devono intendersi quelli conclusi prima della sentenza dichiarativa di fallimento, ma non ancora interamente eseguiti da entrambe le parti alla data di tale sentenza. La norma stabilisce che i contratti si sospendano automaticamente, entrando in uno “stato di quiescenza”, dal momento di apertura del fallimento fino a quando il Curatore non decida se sciogliersi dal contratto oppure subentrare in luogo del fallito, dietro autorizzazione del Comitato dei creditori.
Qualora il Curatore non prendesse alcuna decisione, la controparte potrebbe chiedere al Giudice Delegato la messa in mora ai sensi del co. 2 dell’art. 72, L. fall., ma se decorsi sessanta giorni il Curatore dovesse rimanere inerte, il contratto si intenderebbe risolto.
Se il Curatore decidesse di subentrare si troverebbe nella stessa posizione in cui si trovava il fallito al momento della conclusione del contratto e, quindi, dovrebbe adempiere integralmente alle obbligazioni, nei tempi e nei modi stabiliti nel contratto precedentemente concluso.
Effetti sui contratti di lavoro
Grande assente nella normativa fallimentare è una disciplina specifica per i contratti di lavoro.
Vi erano stati dei tentativi di regolamentazione operati con l’art. 10 dello schema del D.D.L. predisposto dalla Commissione Trevisanato del 2001 e con l’art. 127 dello schema del D.D.L. della Commissione 27/02/2004. Tali norme prevedevano che per i contratti di lavoro non trovasse applicazione l’art. 72, L. fall., ma operasse la prosecuzione automatica. Questi tentativi non divennero mai legge e proprio per questo motivo sorsero vari orientamenti circa la possibilità di applicare o meno l’art. 72, L. fall. ai contratti di lavoro, considerata la vigenza di un’altra norma – seppur esterna alla Legge fallimentare – che regola i rapporti di lavoro nel fallimento. L’art. 2119, co. 2, c.c. prevede, infatti, che il fallimento, così come la liquidazione coatta amministrativa, non costituisce giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro.
Oggi, tra i vari orientamenti, quello maggiormente condiviso da dottrina e giurisprudenza (di merito e di legittimità) ritiene l’art. 72 si applichi esclusivamente agli aspetti economici del rapporto di lavoro, ma non trovi invece applicazione per quanto riguarda le modalità di recesso dal contratto. Ciò vuol dire che i contratti di lavoro si sospendono automaticamente dal momento dell’apertura del fallimento e che durante tale periodo di sospensione i lavoratori, a meno che non sia stato disposto l’esercizio provvisorio dell’impresa, non saranno tenuti a prestare la propria attività lavorativa e, di contro, non avranno diritto alla retribuzione. Poiché esiste l’art. 2119, co. 2, c.c., qualora il Curatore decidesse di non subentrare nel contratto, non potrebbe sciogliersi liberamente dallo stesso (a differenza di quanto può fare con gli altri contratti), ma potrebbe farlo solamente con un licenziamento rispettoso della sua disciplina. Il licenziamento non potrà poggiarsi su una giusta causa poiché è così vietato dalla norma del Codice Civile e nemmeno su un giustificato motivo soggettivo, in quanto non vi è nessun inadempimento del lavoratore.
Potranno essere disposti un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di diritto al preavviso e all’eventuale indennità sostitutiva del preavviso, o un licenziamento collettivo.
L’indennità sarà credito prededucibile qualora il preavviso venga lavorato; altrimenti, sarà assistita da privilegio mobiliare ai sensi dell’art. 2751-bis, c.c.
Il fallimento però non può costituire di per sé giustificato motivo oggettivo di licenziamento poiché non sempre alla sentenza dichiarativa di fallimento fa seguito la disgregazione dell’impresa, che passa da una gestione per fini produttivi ad una per finalità liquidatorie. Perciò il Curatore dovrà porre a fondamento del licenziamento motivazioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Certamente sarà più facile addurre motivazioni oggettive verosimili nelle ipotesi di procedure concorsuali, tenuto anche conto del fatto che il Curatore deve avere come obiettivo principale una gestione che riesca a soddisfare al meglio le ragioni creditorie.
Il licenziamento dovrà rispettare tutte le previsioni, anche formali e procedurali, previste per un licenziamento operato da un datore di lavoro non fallito.
Forme di tutela per i lavoratori
L’ordinamento ha predisposto una serie di garanzie per i lavoratori subordinati, al fine di mitigare le conseguenze pregiudizievoli che potrebbero loro derivare dall’attivazione della procedura fallimentare.
Tali forme di tutela sono:
Fondo di garanzia INPS
In caso di fallimento dell’imprenditore, laddove si opti per la cessazione del rapporto di lavoro, i lavoratori saranno creditori per le eventuali retribuzioni non corrisposte e per il trattamento di fine rapporto. Per tali somme i lavoratori potranno proporre domanda di ammissione al passivo.
Qualora non venissero soddisfatti integralmente o parzialmente, loro o gli aventi diritto potranno presentare domanda al Fondo di Garanzia presso l’INPS (alimentato dai datori di lavoro che versano all’INPS un contributo) per il pagamento del TFR e di massimo tre mensilità. Sarà poi l’INPS a surrogarsi nei diritti dei lavoratori.
Per una visione completa si veda la voce Fondo di garanzia Inps
Naspi
La NASPI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) iene erogata anche in caso di fallimento.
CIGS
Prima dell’intervenuta abrogazione dell’art. 3, L. 23 luglio 1991, n. 223 ad opera dell’art. 2, co. 70, L. 28 giugno 2012, n. 92, esisteva un’ipotesi di accesso alla CIGS per le imprese in procedura concorsuale. Abrogata tale previsione, si riteneva si potessero “forzare” le causali di cui all’art. 1 della stessa L. 223/1991 in modo da farvi rientrare anche l’ipotesi in cui un’impresa, seppur insolvente, programmi una ristrutturazione tale da consentire la prosecuzione dell’attività. Anche l’art. 1 è stato abrogato, questa volta ad opera del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 148. L’art. 21 dello stesso decreto prevede al co. 1, lett. b) che l’istituto di integrazione salariale possa essere chiesto anche nelle ipotesi di crisi aziendale, ad eccezione dei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un ramo. La Circolare del Ministero del Lavoro del 26 luglio 2016, n. 24 precisa che si può accedere a tale istituto qualora vi sia:
- autorizzazione dell’esercizio provvisorio;
- indicazione nel programma di liquidazione delle ragioni che rendono probabile la cessione unitaria dell’azienda o di un suo ramo;
- approvazione del Comitato dei creditori sulla valutazione delle probabilità di cessione.
Vicende dinamiche dell’azienda e contratti di lavoro
È possibile che alla sentenza dichiarativa di fallimento facciano seguito l’esercizio provvisorio dell’impresa o l’affitto d’azienda. Tali istituti non rientrano nell’attività di liquidazione, ma sono strumentali alla più proficua vendita dell’azienda, nell’ottica della massima soddisfazione dei creditori perché risulta più vantaggiosa la conservazione dei complessi produttivi, piuttosto che la sua disgregazione. Inoltre, l’azienda può essere interessata da altre due vicende cd. dinamiche: la retrocessione dell’azienda affittata o la vendita della stessa.
A) Esercizio provvisorio dell’impresa
L’esercizio provvisorio dell’impresa può essere disposto:
- dal Tribunale con la sentenza che dichiara il fallimento qualora dall’interruzione dell’attività possa derivare un “danno grave”;
- successivamente dal Giudice Delegato (che ne fissa anche la durata), su richiesta del Curatore, in qualsiasi momento purché sia già stato nominato il Comitato dei creditori che deve esprimere parere favorevole;
- dal Curatore nel programma di liquidazione;
L’esercizio provvisorio dell’impresa è rischioso per i creditori poiché il rischio d’impresa è in capo alla procedura. Ciò vuol dire che i crediti sorti durante l’esercizio provvisorio sono prededucibili e, come tali, vanno soddisfatti per primi. Per tale motivo, se il Comitato dei creditori non ravvisa l’opportunità di continuare l’esercizio provvisorio, il Giudice Delegato ne ordina la cessazione. Anche il Tribunale può ordinarne la cessazione.
Tutti i contratti, compresi quelli di lavoro, proseguono automaticamente, a meno che il Curatore non decida di sciogliersi dal contratto o di sospenderlo.
Se il Curatore dovesse decidere di non servirsi di tutti i lavoratori, dovrebbe procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo che potrà essere disposto contestualmente alla predisposizione dell’esercizio provvisorio o successivamente. Nel primo caso, l’eventuale indennità sostitutiva del preavviso avrà natura privilegiata, nel secondo caso, invece, sarà credito prededucibile.
L’esercizio provvisorio può essere disposto anche limitatamente ad un solo ramo.
Una volta terminato l’esercizio provvisorio dell’impresa i rapporti di lavoro non si risolveranno automaticamente, ma il Curatore dovrà procedere a licenziamenti per giustificato motivo oggettivo.
B) Affitto d’azienda o di ramo d’azienda
L’affitto d’azienda (o di un suo ramo) può essere disposto:
- dal Curatore nel programma di liquidazione;
- prima della predisposizione del programma di liquidazione, purché vi sia stato parere favorevole del Comitato dei creditori e autorizzazione del Giudice Delegato.
Nella scelta dell’affittuario bisogna tenere in considerazione anche le garanzie offerte per la conservazione dei livelli occupazionali.
Se si raggiunge un accordo con le rappresentanze sindacali circa il mantenimento almeno parziale dei livelli occupazionali, per i rapporti di lavoro che proseguono con l’affittuario non trova applicazione l’art. 2112, c.c. (norma sul mantenimento dei diritti dei lavoratori nelle ipotesi di trasferimento d’azienda), poiché l’art. 47, L. 29 dicembre 1990, n. 428 ne consente la disapplicazione totale. Perciò i lavoratori non passeranno direttamente alle dipendenze del cessionario, ma mediante una riassunzione o un inquadramento diverso; non potranno invocare la responsabilità solidale e non potranno pretendere l’applicazione del contratto collettivo in vigore presso il cedente; non godranno della preesistente anzianità di servizio; non avranno diritto alla conservazione della precedente qualifica e perderanno gli eventuali trattamenti di previdenza integrativa.
C) Retrocessione dell’azienda affittata al fallimento
Successivamente alla retrocessione, il Curatore potrebbe decidere di subentrare nei rapporti di lavoro ai sensi dell’art. 72, L. fall. In tal caso, per i lavoratori trasferiti troverebbe applicazione l’art. 2112, c.c., ad eccezione del regime di solidarietà tra cedente e cessionario poiché la procedura non è responsabile per i debiti (quindi anche quelli di lavoro) maturati sino alla retrocessione, come espressamente disposto dall’ultimo comma dell’art. 104-bis, L. fall.
D) Vendita d’azienda
Anche in questo caso, come per l’affitto, qualora vi sia l’accordo sindacale di cui all’art. 47, L. 428/1990 circa il mantenimento, anche solo parziale, dei livelli occupazionali, si deroga all’art. 2112, c.c.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di fallimento
In genere
- L’accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo, oltre che delle ritenute fiscali, di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, ove il datore di lavoro non abbia tempestivamente adempiuto all’obbligo di versamento contributivo, perché in tal caso anche la quota a carico grava sul datore. (Cass. 3/9/2020 n. 18333, Pres. Doronzo, Rel. Ponterio, in Lav. nella giur. 2021, con nota di F. Buttà, Crediti retributivi, ritenute previdenziali e adempimenti datoriali, 732)
- In seguito alla dichiarazione di fallimento il rapporto di lavoro rimane sospeso ai sensi dell’art. 72 l. fall. senza che maturino a favore del lavoratore crediti retributivi e contributivi in attesa della dichiarazione del curatore, che può scegliere di proseguire nel rapporto medesimo ovvero di sciogliersi da esso. (Cass. 23/3/2018 n. 7308, Pres. Di Cerbo Est. Amendola, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di L.A. Cosattini, “Effetti del fallimento sul rapporto di lavoro e recesso del curatore: disciplina vigente e ipotesi di riforma”, e A. Giuliani, Fallimento del datore di lavoro e licenziamento inefficace: l’imputabilità al datore di lavoro del recesso illegittimo determina la maturazione dei crediti retributivi”, 490)
- Ove il curatore intenda sciogliersi dal rapporto di lavoro, dovrà farlo nel rispetto delle norme limitative dei licenziamenti individuali e collettivi e, in caso di accertata illegittimità del licenziamento, il lavoratore può impugnarlo con gli ordinari rimedi previsti dall’ordinamento. (Cass. 23/3/2018 n. 7308, Pres. Di Cerbo Est. Amendola, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di L.A. Cosattini, “Effetti del fallimento sul rapporto di lavoro e recesso del curatore: disciplina vigente e ipotesi di riforma”, e A. Giuliani, Fallimento del datore di lavoro e licenziamento inefficace: l’imputabilità al datore di lavoro del recesso illegittimo determina la maturazione dei crediti retributivi”, 490)
- Nel caso in cui il licenziamento intimato dalla curatela fallimentare venga dichiarato inefficace, il legislatore ha inteso attribuire diritti retributivi al lavoratore nonostante la mancata erogazione della prestazione lavorativa. Tale eccezione al regime generale del sinallagma trova il proprio fondamento giuridico nel fatto che, in ipotesi di illegittimità del licenziamento, l’equiparazione della mera utilizzabilità delle energie lavorative del prestatore alla loro effettiva utilizzazione discende non solo dalla ricostituzione del rapporto e dal ripristino della lex contractus, ma anche dall’accertamento in giudizio dell’illegittimità del comportamento del datore di lavoro, al quale va imputata la mancata erogazione della prestazione lavorativa. (Cass. 23/3/2018 n. 7308, Pres. Di Cerbo Est. Amendola, in Riv. It. dir. lav. 2018, con nota di L.A. Cosattini, “Effetti del fallimento sul rapporto di lavoro e recesso del curatore: disciplina vigente e ipotesi di riforma”, e A. Giuliani, Fallimento del datore di lavoro e licenziamento inefficace: l’imputabilità al datore di lavoro del recesso illegittimo determina la maturazione dei crediti retributivi”, 490)
- La dichiarazione di fallimento di una società non costituisce di per sé motivo sufficiente a giustificare la risoluzione dei rapporti di lavoro in essere e, in caso di licenziamento illegittimo, il dipendente ha diritto all’integrale risarcimento del danno, a prescindere dalla utilizzabilità, in concreto, della prestazione lavorativa. (Cass. 11/1/2018 n. 522, Pres. Amoroso Rel. Amendola, in Riv. it. dir. lav. 2018, con nota di F. Marzachì, 529)
- L’insolvenza è percepita come uno dei possibili esiti, pur se certamente negativo, riconducibile all’attività imprenditoriale svolta, esito che non può, per ciò solo, determinare la definitiva eliminazione dal mercato dell’imprenditore e l’automatica dispersione della ricchezza costituita dalle esperienze da questi acquisite omissis. La cancellazione dei debiti pregressi costituisce la premessa in punto di fatto che consente al debitore, che riprende la sua attività senza avere pendenze di sorta, di poter espandere pienamente le proprie potenzialità, senza dover subire limitazioni alle proprie iniziative, per effetto dei debiti precedenti (Cass., SS. UU., 18 novembre 2011, n. 24215, in www.iusexplorer.it)
- Il disposto dell’art. 2119, 2° co., c.c. è stato inteso nel senso che esso introduce una deroga al diritto di recedere dal contratto senza preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto con la conseguenza che se il curatore si sia avvalso della facoltà di sciogliersi ex art. 72, 2° co., legge fallimentare dal rapporto di lavoro deve riconoscersi al dipendente il diritto alla indennità sostitutiva del preavviso (Cass., sez. I civ., 7 febbraio 2003, n. 1832, in RIDL, 2003, n. 4, p. 285)
- In tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, ha portata generale ed è obbligatoria anche nell’ipotesi in cui, nell’ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell’attività aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti (Cass., sez. IV lav., 11 novembre 2011, n. 23665, in www.iusexplorer.it).
- Il provvedimento ordinante la liquidazione di una persona giuridica non costituisce giusta causa (art. 2119 cod. civ., comma 2) e neppure, di per sé, giustificato motivo di risoluzione del rapporto di lavoro (Cass., SS. UU., 10 gennaio 2006, n. 141, in www.iusexplorer.it).
- Esula dalla competenza funzionale del tribunale fallimentare, ai sensi dell’art. 24 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, ed è, invece, devoluta alla cognizione del giudice del lavoro, la controversia instaurata dal lavoratore che, senza avanzare pretese creditorie, chieda solo l’accertamento del proprio rapporto di lavoro, non risolto dal fallimento, alle dipendenze della società dichiarata fallita, dovendo, per contro, essere fatta valere in sede fallimentare una siffatta domanda, quando essa costituisca solo la premessa per ottenere, nello stesso giudizio, vantaggi patrimoniali di natura retributiva o risarcitoria (Cass., sez. lav., 18 giugno 2004, n. 11439, in www.iusexplorer.it).
- L’opposizione allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa di un creditore escluso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 209 e 98 l. fall., costituisce un’azione tipica del fallimento, la quale va proposta con il rito ordinario e non già con il rito speciale del lavoro, anche se si facciano valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa assoggettata alla procedura concorsuale (Cass., 3 maggio 2005, n. 9163, in Giust. Civ., 2006, n. 1, p. 129).
- L’esperimento, da parte del singolo lavoratore, dell’esecuzione forzata per la realizzazione dei propri crediti di lavoro, previsto dall’art. 2, quinto comma, della L. n. 29 maggio 1982, n. 297, e dall’art. 2, secondo comma, del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, nei confronti del datore di lavoro inadempiente che non sia assoggettabile alle procedure concorsuali, costituisce, in linea di principio, un presupposto necessario per poter richiedere l’intervento del Fondo di Garanzia istituito presso l’Inps. Tale presupposto viene, peraltro, meno in tutti quei casi in cui l’esperimento dell’esecuzione forzata ecceda i limiti dell’ordinaria diligenza ovvero quando la mancanza o l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore debbano considerarsi provate in relazione alle particolari circostanze del caso concreto (Cass. 17 aprile 2007, n. 9108, in Lav. nella giur. 2007, p. 1247).
- La funzione previdenziale dell’intervento del fondo di garanzia dell’Inps non osta all’intervento del fondo a favore del cessionario a titolo oneroso del credito relativo al t.f.r. spettante al lavoratore, in quanto l’intervento è previsto in favore degli “aventi diritto” e, con tale termine, che non può che essere inteso nel medesimo significato attribuito all’identica espressione contenuta nell’art. 2122 c.c., si fa riferimento agli aventi causa in genere del lavoratore, a prescindere dal titolo, universale o particolare, della successione nel diritto (Cass., sez. lav., 13 ottobre 2010, n. 21143, in www.iusexplorer.it).
- In tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla l. 23 luglio 1991 n. 223 ha portata generale ed è obbligatoria anche nelle ipotesi in cui, nell’ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell’attività aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti (nella specie, la Corte di cassazione ha confermato la sentenza con la quale i Giudici di primo e secondo grado avevano dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato dal curatore del fallimento in ragione del mancato rispetto della procedura di cui all’art. 4, l. 223/91). (Cass. 2/3/2009 n. 5032, Pres. Ianniruberto Est. Napoletano, in Orient. Giur. Lav. 2009, con nota di Alessandro Corrado, “Fallimento, cessazione dell’attività dell’impresa e procedura di licenziamento collettivo: gli obblighi per il curatore fallimentare”, 157)
- Deve ritenersi rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1917, 2° comma, c.c. in riferimento agli artt. 3, 35, 24 e 111 Cost. nella parte in cui non consente in favore del dipendente danneggiato da infortunio sul lavoro, l’esercizio dell’azione diretta contro la compagnia assicuratrice del datore di lavoro e, quindi, in ipotesi di fallimento, la prededuzione del relativo credito, che invece viene proposto alla previa falcidia dei crediti della procedura. (Cass. 13/5/2008 n. 11921, ord. interlocutoria, Pres. Ciciretti Est. De Matteis, in D&L 2008, con nota di Aldo Garlatti, “Il risarcimento diretto del danno differenziale alla persona da infortunio sul lavoro nell’ipotesi di apertura del concorso sui beni del fallito: il principio di concentrazione delle tutele ex artt. 24 e 111, 2° comma, Cost. dà nuove opportunità per il riconoscimento dell’azione diretta contro la compagnia assicuratrice”, 1049)
- Sono manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale, da un lato, degli artt. 1917, commi 1 e 2, c.c., e 42, 46, comma 1, e 111 l. fall., nella parte in cui non consentono al dipendente danneggiato da infortunio sul lavoro, derivante da una violazione del dovere di sicurezza, l’esercizio dell’azione diretta contro la compagnia assicuratrice del datore di lavoro e, quindi, in ipotesi di fallimento la prededuzione del relativo credito, che viene invece posposto alla previa falcidia dei crediti della procedura e, dall’altro lato, degli artt. 2751 bis, 2767 e 2778, n. 11, c.c. e 111 l. fall., nella parte in cui non pongono in primo grado il privilegio del credito da risarcimento del danno del lavoratore, quando abbia subito un infortunio sul lavoro, e lo ammettono al privilegio generale sui mobili in concorso con crediti di lavoro retributivi, contributivi e risarcitori non da infortunio. Atteso che unico possibile oggetto del giudizio a quo è l’ammissione al passivo del credito azionato e il suo rango, non è in alcun modo rilevante la questione relativa all’azionabilità diretta, da parte del danneggiato, del suo credito risarcitorio nei confronti dell’assicuratore nè, ancor meno e a prescindere da ogni rilievo circa la sua fondatezza, una questione di assimilabilità del credito da infortunio del fallito verso l’assicuratore al suo debito verso il danneggiato. (Cost. 28/12/2006 n. 457, ord., Pres. Flick Red. Vaccarella, in Giust. Civ. 2007, 799)
- Ha privilegio generale sui mobili, ai sensi del n. 1 dell’art. 2751 bis c.c. in relazione all’art. 2749 c.c. e può essere fatto valere con tale prelazione nel fallimento, a mente dell’art. 54 RD 16/3/42 n. 267, il credito per spese, competenze e onorari attribuiti al difensore distrattario in esito al giudizio di esecuzione forzata instaurato per il soddisfacimento di credito di lavoro subordinato riconosciuto da sentenza irrevocabile nei confronti del soggetto in seguito fallito. (Cass. 10/11/2006 n. 24052, Pres. Losavio Est. Del Core, in D&L 2007, con nota di Antonio Manna, “Privilegio generale mobiliare e credito per distrazione delle spese ex art. 93 c.p.c.”, 581)
- L’opposizione allo stato passivo della liquidazione coatta amministrativa di un creditore escluso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 209 e 98 l. fall., costituisce un’azione tipica del fallimento, la quale va proposta con il rito ordinario e non già con il rito speciale del lavoro, anche se si facciano valere diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato con l’impresa assoggettata alla procedura concorsuale. (Cass. 3/5/2005 n. 9163, Pres. Lo savio Est. Celentano, in Giust. Civ. 2006, 129)
- In caso di fallimento dell’impresa datrice di lavoro successivamente al licenziamento di un lavoratore alle dipendenze della stessa, l’interesse di quest’ultimo alla reintegrazione nel posto di lavoro, previa dichiarazione giudiziale dell’illegittimità del licenziamento, non ha ad oggetto solo il concreto ripristino della prestazione lavorativa-che presuppone la ripresa dell’attività aziendale previa autorizzazione all’esercizio provvisorio dell’impresa-ma anche le utilità connesse al ripristino del rapporto in uno stato-per così dire-di quiescenza attiva dalla quale possono scaturire una serie di utilità, quali sia la ripresa del lavoro (in relazione all’eventualità di un esercizio provvisorio, di una cessione in blocco dell’azienda, o della ripresa della sua amministrazione da pare del fallito a seguito del concordato fallimentare), sia la possibilità di ammissione ad una serie di benefici previdenziali (indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità). In questi casi infatti la situazione di reintegra rimane idonea a produrre effetti, ancorchè diversi da quelli tipici del fattuale ripristino del rapporto che normalmente da esse conseguono. (Cass. 28/4/2003 n. 6612, Pres. Mileo Est. La Terza , in D&L 2003, 815)
- In caso di fallimento del datore di lavoro esula dai poteri del giudice del lavoro l’emanazione di sentenze di condanna del fallito al pagamento di somme di denaro. (Cass. 28/4/2003 n. 6612, Pres. Mileo Est. La Terza , in D&L 2003, 815)
- Il fallimento non comporta automaticamente la sospensione dei rapporti di lavoro subordinato in corso, attesa l’inapplicabilità dell’art. 72 L. Fall. che concerne il contratto di compravendita e che è incompatibile con la speciale disposizione contenuta nell’art. 2119, 2° comma, c.c.; ne consegue la continuazione di diritto dei rapporti di lavoro alle dipendenze della procedura concorsuale, fino a che non intervenga un legittimo atto di recesso da parte del curatore. (Corte d’Appello Torino 29/11/2001, Est. Rossi, in D&L 2002, 197, con nota di Maddalena Martina, “Una breve rassegna di giurisprudenza (ed un interrogativo) su licenziamento e procedure concorsuali”; in Giur. italiana 2003, 272)
- Qualora il licenziamento intimato dal curatore di un fallimento sia dichiarato illegittimo, con conseguente applicazione dell’art. 18 SL, il risarcimento dei danni deve essere commisurato alla retribuzione globale di fatto maturata dal dipendente dal momento del licenziamento fino al momento in cui possa presuntivamente considerarsi cessato lo stato di disoccupazione (nella specie il giudice ha parametrato tale periodo a un anno). (Corte d’Appello Torino 29/11/2001, Est. Rossi, in D&L 2002, 197, con nota di Maddalena Martina, “Una breve rassegna di giurisprudenza (ed un interrogativo) su licenziamento e procedure concorsuali”; in Giur. italiana 2003, 272)
- Non è manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 2751 bis n. 1 c.c., nella parte in cui non riconosce il privilegio generale mobiliare, oltre che ai crediti dei lavoratori subordinati per il risarcimento dei danni subiti per effetto di licenziamento inefficace, nullo, o annullabile, anche ai crediti dei dirigenti per indennità supplementare da ingiustificato licenziamento, non potendosi tali ultimi crediti ricondurre alla categoria dei crediti risarcitori da licenziamento annullabile per difetto di giusta causa o giustificato motivo, essendo l’ingiustificatezza del licenziamento del dirigente nozione autonoma, non coincidente né con quella della carenza di giusta causa, né con quella della carenza di giustificato motivo (Trib Milano 29 giugno 2000 (ord.), est. Macchi, in D&L 2000, 997, n. Tagliagambe)
- È costituzionalmente illegittimo, in relazione agli artt. 3 e 35 Cost., l’art. 2751 bis, n.2, c.c., laddove, nel disciplinare il privilegio generale sui mobili in relazione a talune categorie di crediti, non accorda tale privilegio ai crediti relativi ai compensi dei prestatori d’opera non intellettuale per gli ultimi due anni di prestazione (Corte Costituzionale 29/1/98 n.1, pres.Guizzi, rel.Marini, in D&L 1998, 305)
- Ove sia stata disposta la liquidazione coatta amministrativa di una società operante nel settore dell’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per la circolazione di autoveicoli e si sia quindi provveduto alla ripartizione del portafoglio dei contratti di tale società fra altre imprese autorizzate all’esercizio della detta assicurazione, ai sensi dell’art. 11 DL 23/12/76 n. 857, convertito nella L. 26/2/77 n. 39, i lavoratori già dipendenti della società in liquidazione hanno diritto a proseguire i rapporti di lavoro con la società assegnataria nel precedente inquadramento (Trib. Milano 22/6/96, pres. Ruiz, est. de Angelis, in D&L 1997, 343)
Fondo di garanzia
- Ai fini della tutela prevista dalla l. n. 297/1982 in favore del lavoratore, per il pagamento del t.f.r. in caso di insolvenza del datore di lavoro, quest’ultimo, se è assoggettabile a fallimento, ma in concreto non può essere dichiarato fallito per la esiguità del credito azionato, va considerato in concreto non soggetto a fallimento, e pertanto opera la disposizione dell’art. 2, comma 5, della predetta legge, secondo cui il lavoratore può conseguire le prestazioni del Fondo di garanzia costituito presso l’INPS alle condizioni previste dal comma stesso, essendo sufficiente, in particolare, che il lavoratore abbia esperito infruttuosamente una procedura di esecuzione, salvo che risultino in atti altre circostanze le quali dimostrino che esistono altri beni aggredibili con l’azione esecutiva. (Cass. 1/4/2011 n. 7585, Pres. Roselli Rel. Morcavallo, in Lav. nella giur. 2011, 631)
- L’uso dell’espressione “aventi diritto” – con la quale l’art. 2 della legge n. 297 del 1982 indica i soggetti legittimati a proporre domandadi intervento del fondo di garanzia – non può assumere, neppure per ipotesi, portata restrittiva. Piuttosto, per “aventi diritto” si deve intendere gli aventi causa: in altri termini, senza attribuire alla dicitura “aventi diritto” un particolare significato tecnico e una pregnanza limitativa, si deve privilegiare il senso comune delle parole e concludere che la richiesta di pagamento del T.F.R. presso il Fondo di Garanzia possa essere effettuata dal lavoratore o da un soggetto che abbia acquisito a titolo derivativo il diritto azionato. (Cass. 18/4/2008 n. 10208, Pres. Mattone Est. Di Nubila, in ADL 2008, 1254)
- Il primo e sostanziale presupposto che giustifica l’intervento del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 c.c. in caso di insolvenza del datore di lavoro è la cessazione del rapporto, quale che ne sia la causa; tale presupposto è escluso qualora il datore di lavoro, prima della dichiarazione di fallimento, abbia ceduto ad altri l’azienda, con trasferimento dei lavoratori ai sensi dell’art. 2112 c.c.; nessun rilievo può essere attribuito in materia all’eventuale accordo di ripartizione del debito per Tfr fra le società cedente e cessionaria (nella specie, delegazione di pagamento alla seconda per il Tfr maturato presso la prima). (Trib. Pistoia 12/9/2007, Est. De Marzo, in D&L 2008, con nota di Yara Serafini, “Intervendo del Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto in ipotesi di trasferimento d’azienda: il rilievo degli accordi di cessione del credito fra soggetti coinvolti”, 266)
- L’esperimento, da parte del singolo lavoratore, dell’esecuzione forzata per la realizzazione dei propri crediti di lavoro, previsto dall’art. 2, quinto comma, della L. n. 29 maggio 1982, n. 297, e dall’art. 2, secondo comma, del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, nei confronti del datore di lavoro inadempiente che non sia assoggettabile alle procedure concorsuali, costituisce, in linea di principio, un presupposto necessario per poter richiedere l’intervento del Fondo di Garanzia istituito presso l’Inps. Tale presupposto viene, peraltro, meno in tutti quei casi in cui l’esperimento dell’esecuzione forzata ecceda i limiti dell’ordinaria diligenza ovvero quando la mancanza o l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del debitore debbano considerarsi provate in relazione alle particolari circostanze del caso concreto. (Cass. 17/4/2007 n. 9108, Pres. Sciarelli Est. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2007, 1247 e in Dir. e prat. lav. 2008, 428)
- Stante la natura previdenziale della obbligazione a carico del Fondo di Garanzia dell’Inps – che, ai sensi dell’art. 2 della L. n. 297/1982, garantisce il pagamento del trattamento di fine rapporto nel caso di insolvenza del datore di lavoro – il riferimento agli “aventi diritto” del lavoratore – contenuto nel primo comma di detto art. 2 – deve essere interpretato come riferimento a quei soggetti che l’art. 2122 c.c. indica quali destinatari ex lege delle prestazioni in caso di morte del lavoratore (coniuge, figli e, se viventi a carico, parenti fino al terzo grado e affini fino al secondo). (Corte app. Milano 22/2/2007, Pres. Salmeri Rel. Sbordone, in Lav. nella giur. 2007, 1153)
- Ai fini dell’obbligo del Fondo di garanzia costituito presso l’Inps, ai sensi del D.Lgs. 27/1/92 n. 80, di pagare ai lavoratori la retribuzione delle ultime tre mensilità rientranti nei dodici mesi che precedono il provvedimento di apertura della procedura concorsuale, occorre far riferimento alle ultime tre mensilità del rapporto di lavoro “in atto”; dovendosi ritenere l’inerte protrazione della formale esistenza del soggetto datoriale fino all’apertura della procedura, del tutto irrilevante. (Cass. 29/12/2006 n. 27599, Pres. Senese Est. Cuoco, in D&L 2007, con nota di Filippo Capurro, “Profili temporali della garanzia degli utlimi tre mesi di retribuzione”, 480)
- L’obbligo del Fondo di garanzia, in caso di insolvenza del datore di lavoro, consegue al semplice accertamento dell’esistenza del diritto di credito del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e dell’insolvenza dell’obbligato (acclarata attraverso la procedura concorsuale ovvero quella esecutiva individuale) e, pertanto, non può essere subordinato alla produzione, da parte del lavoratore, di documentazione ulteriore, relativa ad altre circostanze (quale la corresponsione di acconti da parte del datore di lavoro, il reddito del lavoratore, l’anzianità di questo ai fini della determinazione dell’imposta), non essendo normativamente previsto un corrispondente onere del lavoratore, nè potendo su questi pesare l’eventuale inadempimento datoriale in relazione al suo obbligo di informazione nei confronti dell’ente previdenziale. (Cass. 10/8/2006 n. 18136, Pres. Mileo Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2007, 203 e in Dir. e prat. lav. 2007, 1008)
- Con riferimento all’obbligo del Fondo di garanzia costituito presso l’Inps, ai sensi del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, di pagare ai lavoratori la retribuzione delle ultime tre mensilità rientranti nei dodici mesi che precedono la data del provvedimento di apertura della procedura concorsuale a carico del datore di lavoro, la lettera della legge rende manifesta la ratio di stabilire un collegamento certo tra epoca di insorgenza del reddito retributivo e insolvenza del datore di lavoro, escludendo, pertanto, che i crediti inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro possano farsi rientrare nei dodici mesi precedenti il dies a quo normativamente fissato per il fatto che il termine di adempimento dell’obbligazione retributiva risulti, per qualsiasi ragione, anche per effetto di pattuizioni individuali, fissato in epoca successiva. Nè al termine di scadenza, consensualmente fissato per l’adempimento del datore di lavoro, può attribuirsi l’effetto di determinare il calcolo del periodo dei dodici mesi a ritroso, siccome, nell’interpretazione più estensiva della legge, solo un’azione giudiziaria è a tanto idonea, non rilevando la preclusione determinata dalla volontà dello stesso lavoratore-creditore. (Cass. 21/6/2006 n. 14312, Pres. Ciciretti Est. Picone, in Lav. nella giur. 2006, 1132, e in Dir. e prat. lav. 2007, 137)
- Il diritto del lavoratore di ottenere dall’INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del TFR carico dello speciale fondo di cui all’art. 2 della legge n. 297 del 1982, ha natura di diritto di credito a una prestazione previdenziale, ed è perciò distinto e autonomo rispetto al credito vantato nei confronti del datore di lavoro (restando esclusa, pertanto, la fattispecie di obbligazione solidale), diritto che si perfeziona (non con la cessazione del rapporto di lavoro ma) al verificarsi dei presupposti previsti da detta legge (insolvenza del datore di lavoro, verifica dell’esistenza e misura del credito in sede di ammissione al passivo, ovvero all’esito di procedura esecutiva), con la conseguenza che, prima che si siano verificati tali presupposti, nessuna domanda di pagamento può essere rivolta all’INPS e, pertanto, non può decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore anche nei confronti del Fondo di garanzia. (Cass. 19/12/2005 n. 27917, Pres. Mileo Est. Picone, in Orient. Giur. Lav. 2005, 964)
- Il diritto del lavoratore di ottenere dall’Inps, in caso di insolvenza del datore di lavoro, la corresponsione del Tfr a carico dello speciale Fondo di cui mall’art. 2 L. 29/5/82 n. 297, ha natura di credito a una prestazione previdenziale, diritto che si perfeziona al verificarsi dei presupposti previsti da detta legge. (Cass. 19/12/2005 n. 27917, Pres. Mileo Est. Picone, in D&L 2006, 627)
- In caso di fallimento del datore di lavoro, il Fondo di Garanzia gestito dall’Inps è tenuto a corrispondere il trattamento di fine rapporto con gli interessi nella misura legale ed il risarcimento del maggior danno – senza necessità che il lavoratore assolva l’onere di allegazione e di prova di cui all’art. 1224, comma 2, c.c. – con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto e fino al giorno dell’effettivo pagamento. (Corte d’appello Catania 29/10/2004, Pres. e Rel. Pagano, in Lav. nella giur. 2005, 594)
- Il diritto del lavoratore a ottenere dell’Inps, in caso di fallimento del datore di lavoro, la corresponsione del trattamento di fine rapporto a carico dello speciale fondo di cui all’art. 2 l. 297 del 1982 presuppone, oltre che la dichiarazione di insolvenza dello stesso datore di lavoro, la verifica dell’esistenza e della misura del credito in sede di ammissione al passivo fallimentare. Prima che si siano verificati tali presupposti, nessuna domanda di pagamento può essere rivolta all’Inps e, pertanto, non può decorrere la prescrizione del diritto del lavoratore nei confronti del Fondo di garanzia. (Cass. 26/2/2004 n. 3939, Pres. Dell’Anno Est. La Terza, in Giust. civ. 2005, 492)
- Il Fondo di garanzia istituito presso l’Inps è tenuto a corrispondere oltre alla somma capitale dovuta per Tfr ed ultime 3 mensilità, anche gli interessi e la rivalutazione monetaria, non trovando applicazione in tale ipotesi l’art. 16, 6° comma, L. 412/91. (Trib. Milano 23/10/2003, Est. Gargiulo, in D&L 2004, 206)
- Il termine di prescrizione di un anno stabilito dall’art. 2, comma 5, D.Lgs. n. 80/92 per far valere nei confronti del Fondo di Garanzia dell’Inps i crediti di lavoro diversi dal TFR, nel caso di fallimento del datore di lavoro, decorre da quando il diritto verso il Fondo è sorto e quindi poteva essere fatto valere ai sensi dell’art. 2, commi 2 e 3, L. n. 297/82 applicabile per l’espresso richiamo di cui al comma 3 dello stesso art. 2, D.Lgs. n. 80/92. Non è applicabile alla specie il principio che affonda le sue radici negli artt. 2945, comma 2, c.c. e 94 l.f. per il quale la presentazione dell’istanza di ammissione del credito al passivo fallimentare determina l’interruzione della prescrizione del credito medesimo, con effetti permanenti fino alla chiusura della procedura concorsuale. (Corte d’appello Milano 28/4/2003, Pres. Mannacio Rel. De Angelis, in Lav. nella giur. 2003, 1168)
- Il Fondo di garanzia istituito presso l’Inps è tenuto a corrispondere, oltre alla somma capitale dovuta a titolo di Tfr ed ultime tre mensilità, anche gli interessi e la rivalutazione monetaria, non trovando applicazione in tale ipotesi l’art. 22, 36° comma, L. 724/94. (Cass. 26/9/2002 n. 13991, Pres. Carbone Est. Ravagnani, in D&L 2003, 179)
- Ai sensi dell’art. 2, 5° comma, d.lgs. n. 80/92, in caso di insolvenza del datore di lavoro, le ultime tre mensilità poste a carico del Fondo di Garanzia dell’INPS conservano la loro natura retributiva e, se pagate in ritardo, vanno arricchite dagli interessi legali e dalla rivalutazione monetaria (Corte Appello Bari 31/10/2001, pres. e est. Berloco, in Lavoro giur. 2002, pag. 61, con nota di Carpagnano, Ritardato pagamento delle ultime mensilità a carico del Fondo di Garanzia dell’INPS: gli accessori vanno cumulati)
- Poiché, anche per quanto concerne l’obbligo di pagamento delle ultime tre mensilità retributive, il Fondo di garanzia subentra nell’obbligazione del datore di lavoro, sostituendosi a esso in via solidale, al termine di prescrizione del corrispondente diritto del lavoratore, previsto dall’art. 2, 5° comma, D. Lgs. 27/1/92 n. 80, deve ritenersi interrotto, fino alla chiusura della procedura fallimentare, dalla presentazione della domanda di ammissione al passivo (Trib. Milano 5 febbraio 2000, pres. ed est. Ruiz, in D&L 2000, 445)
- A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 24 L. 196/97, ai soci lavoratori di una cooperativa di produzione e lavoro, che abbia costantemente provveduto al versamento delle trattenute, spetta il trattamento di fine rapporto da parte dell’Inps, quale gestore del relativo fondo di garanzia (nella specie, la S.C. ha risolto la controversia sulla base dello ius superveniens, attribuendo efficacia retroattiva alla citata disposizione di legge) (Cass. 13/6/00, n. 8069, pres. Ravagnani, in Foro it. 2000, I, pag. 2477)
- Qualora i lavoratori vittime dell’insolvenza del datore di lavoro svolgano attività di lavoro subordinato in uno Stato membro per conto della succursale di una società costituita secondo le regole del diritto di un altro Stato membro, nel quale tale società ha la sua sede e nel quale è messa in liquidazione, l’ente competente con riguardo all’art. 3 della direttiva del consiglio 80/987/ Cee, per il pagamento delle spettanze di detti lavoratori è quello dello Stato nel cui territorio essi esercitano la loro attività subordinata (Corte Giustizia CE, 16/12/99, n. C-198/98, sezione V, in Foro it. 2000, IV, pag. 423)
- In ottemperanza al principio enunciato dalla sentenza 10/7/97 della Corte di Giustizia delle Comunità europee (causa C-272/95 – Maso e altri c. Inps) immediatamente applicabile nel nostro ordinamento interno, ai sensi dell’art. 5 Trattato Cee, l’art. 2 D. Lgs. 27/1/92 n. 80, che, in caso di fallimento del datore di lavoro, pone a carico del Fondo di garanzia i crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto, rientranti nei dodici mesi precedenti la sentenza dichiarativa di fallimento, va interpretato nel senso che il termine a quo per il calcolo a ritroso dei dodici mesi coperti dalla garanzia va individuato nella data di deposito della domanda di dichiarazione del fallimento, e non nella data di emanazione della sentenza dichiarativa del fallimento (Cass. 9/2/99 n. 1106, pres. Lanni, est. Vigolo, in D&L 1999, 368)
- In ipotesi di fallimento del datore di lavoro, si verifica, ex art. 2, L. 20/5/82 n. 297, ipotesi di accollo ex lege, da parte del Fondo di garanzia, dell’obbligazione avente a oggetto la liquidazione del Tfr maturato, sì che sono dovuti dall’Ente, oltre al capitale, anche gli interessi e la rivalutazione, a decorrere dalla data di maturazione del diritto, e cioè dal momento della cessazione del rapporto di lavoro (Trib. Busto Arsizio 26/3/98, pres. Bruni, est. Limongelli, in D&L 1998, 740)
- In ipotesi di fallimento del datore di lavoro, si verifica ex art. 2 L. 20/5/82 n. 297, un accollo cumulativo ex lege, in forza del quale il credito verso il Fondo di garanzia, avente a oggetto la liquidazione del Tfr maturato, costituisce credito di lavoro, sottoposto alla disciplina di cui all’art. 429 c.p.c. sul quale pertanto maturano cumulativamente sia la rivalutazione monetaria che gli interessi legali sugli importi via via rivalutati, indipendentemente dalle previsioni dell’art. 22, 36° comma, L. 23/12/94 n. 724, a ritenersi applicabile ai soli rapporti di lavoro, sia di natura pubblica che di natura privatistica, intercorrenti con enti pubblici (Pret. Monza 6/11/98, est. Dani, in D&L 1999, 370)
- Ai sensi dell’art. 2, 5° comma, L.29/5/82 n. 297, compete il pagamento del Tfr a carico del Fondo di garanzia agli ex dipendenti della Federazione di Milano del Partito Socialista Italiano, cui il trattamento di fine rapporto non sia stato corrisposto, neppure a seguito di infruttuoso esperimento di esecuzione forzata, a carico del Partito datore di lavoro (Pret. Milano 25/5/98, est. Curcio, in D&L 1998, 1017, nota Tagliagambe, L’insolvenza nelle associazioni di fatto)
- Allorché il datore di lavoro è stabilito in uno Stato membro diverso da quello nel cui territorio il lavoratore risiede e svolge la sua attività lavorativa e subordinata, l’ente di garanzia competente, ai sensi dell’art. 3 della direttiva 80/987/Cee, per il pagamento delle spettanze di detto lavoratore in caso di insolvenza del suo datore di lavoro è l’ente dello Stato nel cui territorio, ai sensi dell’art. 2, n. 1, della direttiva, viene decisa l’apertura del procedimento concorsuale o viene dichiarata la chiusura dell’impresa o dello stabilimento del datore di lavoro (Corte Giustizia CE, 17/9/97, n. C-117/96, sezione V, in Foro it. 2000, IV, pag. 423)
- Gli interessi dovuti dal Fondo di garanzia sul credito del lavoratore per trattamento di fine rapporto decorrono dalla data di maturazione di tale credito, e non dalla data di esigibilità del medesimo dal Fondo di garanzia, coincidente con la scadenza del termine di 60 giorni dalla data della domanda, ex art. 2 L. 29/5/82 n. 297 (Pret. Busto Arsizio 14/5/97, est. Perfetti, in D&L 1998, 153)
- In ipotesi di fallimento del datore di lavoro, il credito dei lavoratori verso il Fondo di garanzia avente a oggetto il trattamento di fine rapporto, conservando la propria natura retributiva e privatistica, è produttivo di interessi e rivalutazione monetaria, indipendentemente dal disposto degli artt. 16 L. 30/12/91 n. 412 e 22, 36° comma, L. 23/12/94 n. 724, applicabili ai soli crediti previdenziali (Pret. Busto Arsizio 14/5/97, est. Perfetti, in D&L 1998, 153)
- In relazione alla domanda di liquidazione del Tfr a carico del Fondo di garanzia, in caso di insolvenza del datore di lavoro, il termine di prescrizione quinquennale non inizia a decorrere dal sedicesimo giorno successivo al deposito dello stato passivo reso esecutivo, bensì dalla data del decreto di chiusura della procedura fallimentare, posto che, ai sensi dell’art. 94 legge fallimentare, la domanda di ammissione al passivo produce gli stessi effetti della domanda giudiziale che, ex art. 2945 c. 2 c.c., interrompe il corso della prescrizione sino alla definizione del giudizio (Pret. Milano 7/4/95, est. Ianniello, in D&L 1995, 1019)
Questioni di procedura
- Qualora risulti, come nel caso di specie, l’interesse del lavoratore all’accertamento del diritto di credito risarcitorio in via non meramente strumentale alla partecipazione al concorso nella procedura di amministrazione straordinaria, bensì effettivo alla tutela della propria posizione all’interno dell’impresa, spetta al giudice del lavoro la cognizione delle domande di impugnazione del licenziamento, di reintegrazione nel posto di lavoro e di accertamento, nel vigore del testo dell’art. 18, l. n. 300/1970 come novellato dall’art. 1, co. 42, l. n. 92/2012, della misura dell’indennità risarcitoria dovutagli. (Cass. 21/6/2018 n. 16443, Pres. Patti Est. Lorito, in Riv. It. Dir. lav. 2019, con nota di A. Nicolussi Principe, “Giudice del lavoro o giudice fallimentare? La Suprema Corte estende la cognizione del giudice del lavoro”, 118)
- La norma dell’art. 95, 3° comma, RD 16/3/42 n. 267 – la quale, in tema di formazione dello stato passivo nel procedimento fallimentare, stabilisce che, se il credito risulta da sentenza non passata in giudicato, è necessaria l’impugnazione per escludere l’ammissione al passivo – va interpretata estensivamente e trova perciò applicazione (oltre che nel caso di pronuncia affermativa del credito) anche nel caso di sentenza non ancora passata in giudicato, che abbia rigettato (anche solo in parte) la domanda del creditore, con la conseguenza che, intervenuto il fallimento del debitore successivamente a tale decisione, il creditore, per evitare gli effetti preclusivi derivanti dal passaggio in giudicato della medesima, deve proporre impugnazione in via ordinaria nei confronti del curatore del fallimento, che è legittimato non solo a proporre l’impugnazione ma anche (passivamente) a subirla. (Cass. 27/8/2007 n. 18088, Pres. Ianniruberto Est. Vidiri, in D&L 2007, con nota di Alessandro Corrado, “Giudizio del lavoro e vis attractiva del tribunale fallimentare: le conferme della Suprema Corte e i cambiamenti successivi alla riforma del RD 267/42”, 1289)
- La ritenuta alla fonte sui redditi di lavoro dipendente (da versare all’Erario nei termini e con le modalità previste dall’art. 23 d.P.R. n. 600 del 1973) è strettamente connessa al pagamento di corrispettivi di lavoro, alla cui qualifica è connaturata, costituendo parte integrante dei corrispettivi stessi. Ne deriva, pertanto, che ove il datore di lavoro, assoggettato alla procedura di concordato preventivo, non abbia materialmente effettuato il pagamento ai propri dipendenti delle retribuzioni maturate anteriormente all’inizio della procedura essendo stati i pagamenti stessi posti in essere da un terzo (che poi ha notificato al datore di lavoro un atto di surroga nei crediti dei dipendenti stessi), esclusivamente detto terzo ha assunto l’obbligo di operare la ritenuta in questione, connesso al pagamento dei corrispettivi, e l’amministrazione delle finanze, quindi, non ha titolo per l’iscrizione a ruolo, a carico del datore di lavoro, delle ritenute alla fonte sulle retribuzioni da questi non corrisposte. (Cass. 1/9/2004 n. 17626, Pres. Riggio Est. Sotgiu, in Giust. civ. 2005, 360)
- Con specifico riferimento ai crediti da lavoro è opportuno distinguere tra domande del lavoratore che mirano a pronunce di mero accertamento (per esempio in ordine alla pregressa esistenza del rapporto di lavoro ovvero del diritto ad una qualifica) e domande dirette alla condanna al pagamento di somme di denaro (anche se accompagnate da domande di accertamento aventi funzione strumentale). Per le prime va affermata la perdurante competenza del giudice del lavoro mentre per le seconde si verifica una situazione di improponibilità della domanda. Le questioni concernenti la sede dinanzi alla quale deve essere introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore assoggettato al fallimento ovvero a liquidazione coatta amministrativa, sono innanzitutto questioni al rito e, pertanto, la dichiarazione di inammissibilità, improcedibilità o improponibilità della domanda va fatta prima ed indipendentemente dal rilievo dell’eventuale incompetenza del tribunale adito. (Trib. Grosseto 29/10/2002, Est. Ottati, in Lav. nella giur. 2003, 586)
- In caso di fallimento del datore di lavoro permane la competenza del giudice del lavoro in ordina alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 SL – anche domande aventi contenuto non economico, come l’accertamento del diritto alla qualifica, le sanzioni disciplinari, le visite di controllo, la tutela della lavoratrice madre. (Cass. 15/5/2002 n. 7075, Pres. Prestipino Est. Cuoco, in D&L 2002, 779, con nota di Roberto Muggia, “Fallimento e competenza funzionale del giudice del lavoro”)
- In caso di fallimento del datore di lavoro il dipendente licenziato ha interesse ad agire per ottenere una sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro, indipendentemente dalla circostanza che l’attività produttiva sia proseguita o meno dopo il fallimento. (Cass. 15/5/2002 n. 7075, Pres. Prestipino Est. Cuoco, in D&L 2002, 779, con nota di Roberto Muggia, “Fallimento e competenza funzionale del giudice del lavoro”)
- In caso di fallimento del datore di lavoro il decreto con il quale il giudice fallimentare rigetta la domanda d’ammissione di crediti connessi con il licenziamento, ha efficacia solo endofallimentare e non preclude la decisione del Giudice del lavoro in ordine alla richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro. (Cass. 15/5/2002 n. 7075, Pres. Prestipino Est. Cuoco, in D&L 2002, 779, con nota di Roberto Muggia, “Fallimento e competenza funzionale del giudice del lavoro”)
- Il fallimento non comporta la sospensione dei rapporti di lavoro subordinato in corso, attesa l’incompatibilità dell’art. 72 L. Fall. con la speciale disposizione contenuta nell’art. 2119 c.c. Ne consegue la continuazione di diritto dei rapporti di lavoro-come rapporti di massa-nell’ambito della procedura concorsuale, in cui risulta privilegiata la tutela del posto di lavoro e dei crediti dei lavoratori finché non intervenga un legittimo recesso da parte del curatore. (Appello di Torino 29/11/2001, Pres. Gamba, Est. Rossi Fulvio, in Giur. italiana 2003, 272)
- In sede di procedimento, avente ad oggetto l’accertamento di un credito (nella specie, di lavoro) nei confronti del liquidatore giudiziale dei beni ceduti di un ente societario ammesso alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, non è ammissibile la richiesta di misure cautelari dirette ad ottenere la pronuncia di un ordine di accantonamento delle somme contestate o, in alternativa, il sequestro di queste, ai sensi degli artt. 671 e ss. c.p.c., prevedendo l’art. 181 3° comma della legge fallimentare, un rimedio cautelare specifico (Trib. Roma 19/7/99, pres. Zecca, est. Staglianò, in Mass. giur. lav. 2000, pag. 420 con nota di Caiafa, Concordato preventivo con cessione dei beni: tutela del creditore concorrente e misure cautelari)
Normativa comunitaria
- Gli artt. 3 e 4 della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, non ostano a una normativa nazionale che consenta la qualificazione di “prestazioni previdenziali” per i crediti insoluti dei lavoratori allorché tali crediti sono pagati da un organismo di garanzia. (Corte di Giustizia 16/7/2009 C.69/08, Pres. Timmermans Rel. Kuris, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Marco Mocella, “La Corte di Giustizia e i limiti di applicabilità del Fondo di Garanzia per le retribuzioni diverse dal TFR”, 493)
- La direttiva 80/987 non osta a una normativa nazionale che utilizzi il credito retributivo iniziale del lavoratore subordinato come mero termine di paragone per determinare la prestazione da garantire con l’intervento di un fondo di garanzia. (Corte di Giustizia 16/7/2009 C.69/08, Pres. Timmermans Rel. Kuris, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Marco Mocella, “La Corte di Giustizia e i limiti di applicabilità del Fondo di Garanzia per le retribuzioni diverse dal TFR”, 493)
- Nell’ambito di una domanda di un lavoratore subordinato intesa a ottenere da un fondo di garanzia il pagamento di crediti retribuivi insoluti, la direttiva 80/987 non osta all’applicazione di un termine di prescrizione di un anno (principio d’equivalenza). Spetta, tuttavia, al giudice nazionale accertare se, per come è strutturato, tale termine non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti riconosciuti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività). (Corte di Giustizia 16/7/2009 C.69/08, Pres. Timmermans Rel. Kuris, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Marco Mocella, “La Corte di Giustizia e i limiti di applicabilità del Fondo di Garanzia per le retribuzioni diverse dal TFR”, 493)
- Quando uno Stato membro riconosce nel suo diritto interno, prima dell’entrata in vigore della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/74/CE, che modifica la direttiva 80/987/CE, il diritto del lavoratore a ottenere la copertura dell’organismo di garanzia in caso di insolvenza del datore di lavoro con riferimento a un’indennità per scioglimento del contratto, l’applicazione di tale normativa, nel caso in cui l’insolvenza del datore di lavoro sia intervenuta successivamente all’entrata in vigore di detta direttiva, rientra nell’ambito di applicazione della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concrenente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, quale modificata dalla direttiva 2002/74/CE. (Corte di Giustizia CE 7/9/2006, n. C-81/2005, Pres. Jann Rel. Colneric, in Lav. nella giur. 2006, con commento di Davide Casale, 1089)
- Nell’ambito di applicazione della direttiva 80/987/CEE, quale modificata dalla direttiva 2002/74/CE, il principio generale di uguaglianza, quale riconosciuto dall’ordinamento giuridico comunitario, esige che allorchè, secondo una normativa nazionale quale quella controversa nella causa principale, indennità legali dovute in seguito allo scioglimento del contratto di lavoro, riconosciute da una decisione giudiziaria, sono a carico dell’organismo di garanzia in caso di insolvenza del datore di lavoro, indennità della stessa natura, riconosciute in un accordo tra lavoratore e datore di lavoro concluso in presenza del giudice e approvato dall’organo giurisdizionale, devono essere considerate nella stessa maniera. (Corte di Giustizia CE 7/9/2006, n. C-81/2005, Pres. Jann Rel. Colneric, in Lav. nella giur. 2006, con commento di Davide Casale, 1089)
- Il giudice nazionale deve disapplicare una normativa interna che, in violazione del principio di uguaglianza quale riconosciuto dall’ordinamento giuridico comunitario, escluda la presa in carico, da parte dell’organismo di garanzia competente, delle indennità per scioglimento del contratto riconosciute in un accordo tra lavoratori e datori di lavoro concluso in presenza del giudice e approvato dall’organo giurisdizionale. (Corte di Giustizia CE 7/9/2006, n. C-81/2005, Pres. Jann Rel. Colneric, in Lav. nella giur. 2006, con commento di Davide Casale, 1089)
- La Direttiva n. 80/987/Cee (concernente la legislazione in materia di tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro), cui è stata data attuazione in Italia attraverso il D. Lgs. 27/1/92 n. 80, non autorizza gli stati membri a ridurre il massimale complessivo stabilito dalla legge dello stato membro, in misura corrispondente agli acconti eventualmente versati dal datore di lavoro per il periodo coperto dalla garanzia. (Corte di Giustizia CE 4/3/2004, cause riunite C-19/01, C-50/01 e C-84/01, Pres. Skouris, Rel. Colneric, in D&L 2004, 273, con nota di Silvia Balestro, “Fondo di garanzia e massimale”)
- La direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980 n. 80/987/Cee, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, come modificata dall’atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia ed agli adattamenti dei trattati sui quali si fonda l’Unione europea, osta a che un lavoratore subordinato, che disponga di una partecipazione significativa nella società a responsabilità limitata in cui lavora, ma non eserciti un’influenza dominante su questa, perda in applicazione della giurisprudenza austriaca relativa ai prestiti di soci equiparabili ad un conferimento in capitale, il diritto alla garanzia dei crediti da lavoro, non pagati per insolvenza del datore di lavoro e riconducibili all’art. 4, n. 2, di tale direttiva quando, una volta resosi conto del venir meno del credito di tale azienda, abbia omesso per più di sessanta giorni di far seriamente valere il diritto alla retribuzione periodica che avrebbe dovuto essergli corrisposta. (Corte di Giustizia CE 11/9/2003 n. C-201/01, Pres. Puissochet, in Foro it. 2003, parte quarta, 493)
- Uno Stato membro è, in linea di principio, autorizzato ad adottare, onde evitare abusi, misure che neghino ad un lavoratore subordinato, che disponga di una partecipazione significativa nella società a responsabilità limitata in cui lavora, ma non eserciti un’influenza dominante su questa, il diritto alla garanzia dei crediti da lavoro sorti dopo la data in cui il lavoratore che non abbia lo status di socio avrebbe lasciato le sue funzioni per mancato pagamento della retribuzione, a meno che venga provata la mancanza di pagamento dei crediti rientranti nell’art. 4, n. 2, della direttiva 80/987/Cee, lo Stato membro non è legittimato a presumere che, di regola, un lavoratore che non abbia lo status di socio avrebbe lasciato le sue funzioni per tale motivo fintantochè la retribuzione non pagata non riguardi un periodo di tre mesi. (Corte di Giustizia CE 11/9/2003 n. C-201/01, Pres. Puissochet, in Foro it. 2003, parte quarta, 493)
- Il punto G della sezione I dell’allegato della direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980 n. 80/987/Cee, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, come modificata dall’atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia ed agli adattamenti dei trattati su cui si fonda l’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che non autorizza il Regno di Svezia ad escludere dalla categoria dei beneficiari della garanzia del pagamento dei salari prevista da tale direttiva i lavoratori subordinati nel caso in cui un parente stretto deteneva almeno un quinto delle quote della società di cui erano dipendenti, meno di sei mesi prima della domanda di fallimento di quest’ultima, qualora i lavoratori interessati non detenessero essi stessi nessuna quota del capitale di tale società. (Corte di Giustizia CE 18/10/2001 n. C-441/99, Pres. Jann, in Foro it. 2003, parte quarta, 494)
- Qualora uno Stato membro designi se stesso come debitore dell’obbligo di pagamento dei crediti salariali garantiti in forza della direttiva 80/987/Cee, un lavoratore subordinato, il cui congiunto era proprietario della società di cui tale lavoratore era dipendente, può far valere il diritto al pagamento dei suoi crediti salariali nei confronti dello Stato membro interessato dinanzi ad un giudice nazionale, benchè, in violazione di detta direttiva, la normativa di tale Stato membro escluda espressamente dalla categoria dei beneficiari della garanzia i lavoratori subordinati nel caso in cui un parente stretto detenga almeno un quinto delle quote della società ma essi stessi non detenevano nessuna quota del capitale della stessa. (Corte di Giustizia CE 18/10/2001 n. C-441/99, Pres. Jann, in Foro it. 2003, parte quarta, 494)