Questa voce è stata curata da Angela Cavallo e aggiornata da Alexander Bell
L’evoluzione normativa della tutela delle lavoratrici madri
La tutela delle lavoratrici madri nasce da una finalità protezionistica accolta dalle norme costituzionali in tema di eguaglianza e di tutela della salute.
In particolare, la norma contenuta nell’art. 37, comma 1, della Costituzione ha riaffermato gli obiettivi protettivi tradizionali della tutela differenziata del lavoro femminile, tipici dell’epoca fascista, statuendo che alla donna devono essere garantite le condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale funzione familiare e alla protezione della maternità.
Sulla base del disposto costituzionale, si giustifica l’emanazione di normative di tutela differenziata al fine del raggiungimento di tali obiettivi, nell’ambito della più ampia normativa antidiscriminatoria (vedi voce Discriminazioni di genere).
La tutela delle lavoratrici madri è stata così attuata con l’emanazione della Legge 1204/1971, integrata successivamente dalla Legge n. 903 del 1977 e dalla Legge 53/2000.
La materia della tutela delle lavoratrici madri, tuttavia, è stata ridisegnata in una logica paritaria (vedi voce Discriminazioni di genere) dal D.Lgs. 151/2001, contenente il T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, modificato e integrato con il D.Lgs. 115/2003.
Il Testo Unico raccoglie e riordina il complesso delle disposizioni vigenti in materia, nonché alcune norme della Legge n. 903 del 1977 in tema di parità di trattamento tra uomo e donna.
Con l’entrata in vigore del suddetto decreto si è superata la precedente disciplina contenuta nella Legge 653/1934, che ammetteva i lavori pericolosi e insalubri a determinate condizioni, vietava il lavoro notturno e stabiliva limiti massimi per l’orario di lavoro e l’obbligo di riposi intermedi.
A ulteriore rafforzamento delle tutele sin qui accennate, è poi intervenuta la legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, che ha toccato due aspetti:
- in primo luogo, si è occupata della tutela applicabile in caso di licenziamento comminato in violazione delle norme di protezione della maternità;
- secondariamente ha introdotto nuovi strumenti di sostegno alla genitorialità.
Il primo aspetto citato è disciplinato dal nuovo testo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. In particolare, tale norma stabilisce che il licenziamento comminato in violazione delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e paternità debba essere dichiarato nullo dal giudice, che dovrà, pertanto, applicare la cd. tutela reintegratoria piena.
Conseguentemente, la lavoratrice illegittimamente licenziata per questo motivo avrà diritto a:
- essere reintegrata nel posto di lavoro;
- ottenere il risarcimento del danno per il periodo successivo al licenziamento e fino all’effettiva reintegra, dedotto quanto percepito da altra occupazione (il risarcimento non può comunque essere inferiore nel minimo di cinque mensilità di retribuzione);
- ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra;
- esercitare il cd. diritto di opzione, ossia scegliere fra la reintegra e l’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, la riforma del 2012 ha introdotto un regime sperimentale per gli anni 2013-2015 (esteso al 2016 dalla legge 208/2015), finalizzato al sostegno della genitorialità e alla promozione di una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia e per favorire la conciliazione di tempi di vita e di lavoro.
In particolare, come si dirà meglio in seguito, la riforma ha previsto, per il padre lavoratore, un peculiare regime per il congedo di paternità e, per la madre lavoratrice, la possibilità di sostituire il periodo di astensione facoltativa con un voucher che consenta alla madre di far fronte alle spese per l’accudimento della prole.
La normativa a protezione delle lavoratrici madri è stata ulteriormente ritoccata nel 2015, a seguito dell’entrata in vigore dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act (legge delega n. 183 del 2014).
Viene in rilievo, anzitutto, il decreto legislativo n. 23/2015, con il quale il legislatore ha introdotto un nuovo regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi, destinato ad applicarsi a tutti i lavoratori assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in avanti.
Tale decreto, all’art. 2, disciplina, tra gli altri, gli effetti del licenziamento comminato in violazione delle garanzie previste in materia di maternità o paternità, riconoscendo, peraltro, tutele sostanzialmente identiche a quelle già introdotte con la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori da parte della riforma del 2012 (ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro; condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno; versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento e la reintegrazione; diritto di opzione a favore della lavoratrice).
Ancora in tema di congedi parentali, il decreto legislativo n. 81/2015 (in materia di disciplina organica dei contratti di lavoro) ha infine attribuito ai lavoratori e alle lavoratrici la facoltà di chiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (part-time) , con il solo limite che la riduzione di orario non potrà essere superiore al 50%. Diversamente dalle modifiche introdotte dal decreto n. 80/2015, quest’ultima novità non ha carattere provvisorio, ma definitivo.
Normativa di riferimento
- Costituzione, art. 37, c. 1
- Legge 1204/1971
- Legge n. 903 del 1977 – Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro
- Legge 53/2000
- D.Lgs. 151/2001, T.U. in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità
- D.Lgs. 115/2003
- Legge 653/1934
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Decreto legislativo 23/2015, recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183
- Decreto legislativo n. 80/2015, recante misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’art. 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183
- Decreto legislativo n. 81/2015, recante disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183
Cosa fare – A chi rivolgersi
- Ufficio vertenze sindacale
- Centro donna del sindacato
- Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Tutela della salute e della sicurezza della lavoratrice madre
La tutela delle lavoratrici madri si estrinseca innanzitutto in alcune norme di protezione della salute e della sicurezza delle stesse.
In particolare, il Capo Secondo del D.Lgs. 151/2001 prescrive una serie di misure finalizzate alla tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio, a condizione che le stesse abbiano informato il datore di lavoro del proprio stato.
La tutela si applica, allo stesso modo, alle lavoratrici che abbiano ricevuto bambini in adozione o in affidamento, fino al compimento dei sette mesi di età.
Infine, salva l’ordinaria assistenza sanitaria e ospedaliera a carico del Servizio sanitario nazionale, le lavoratrici, durante la gravidanza, possono fruire presso le strutture sanitarie pubbliche o private accreditate, con esclusione del costo delle prestazioni erogate, oltre che delle periodiche visite ostetrico-ginecologiche, delle prestazioni specialistiche per la tutela della maternità, in funzione preconcezionale e di prevenzione del rischio fetale, previste dal decreto ministeriale della sanità di cui all’art. 1, comma 5, lettera a), del Decreto legislativo 124/98, purché prescritte secondo le modalità ivi indicate.
Gli artt. 7 e 8 del D.Lgs. 151/2001 tracciano una chiara linea relativa ai lavori vietati alle lavoratrici madri, in quanto pericolosi, faticosi ed insalubri, così come elencati negli Allegati A e B del D.Lgs. n. 151/2001, nonché nell’art. 5 del D.P.R. n. 1026 del 1976.
Pertanto, durante il periodo in cui vige il divieto di svolgere i sopraindicati lavori, ossia durante il periodo di gravidanza e sino a sette mesi di età del bambino, la lavoratrice è addetta ad altre mansioni, anche inferiori a quelle abituali, purché conservi il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originale.
Quando la lavoratrice non può essere spostata ad altre mansioni, il servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio, può disporre l’interdizione dal lavoro per il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio.
Ai sensi degli articoli 11 e 12 del D.Lgs. 151/2001, il datore di lavoro valuta i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento fino a sette mesi dopo il parto, in particolare i rischi di esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici, nonché dei processi industriali ritenuti pericolosi per la sicurezza o per la salute delle lavoratrici e delle condizioni di lavoro di cui all’Allegato “C” del T.U.
Il Ministero del Lavoro, con riferimento alla valutazione dei rischi cui è onerato il datore di lavoro, nella Circolare n. 3328 del 16/2/2002 ha affermato che la stessa deve avvenire contestualmente alla valutazione dei rischi generali, in modo tale che il datore medesimo possa informare le lavoratrici prima ancora che sopraggiunga la gravidanza circa i rischi esistenti in azienda, le misure di prevenzione e protezione che egli ritiene di dover adottare in tal caso.
Il datore di lavoro ha l’obbligo di informare le lavoratrici e i loro rappresentanti per la sicurezza sui risultati della valutazione di cui sopra e sulle conseguenti misure di protezione e prevenzione adottate (art. 11 del D.Lgs. 151/2001).
A seguito della valutazione che rilevi la presenza di rischio per la sicurezza e salute della lavoratrice, il datore di lavoro deve adottare tutte le misure necessarie affinché l’esposizione al rischio delle lavoratrici sia evitata, modificandone temporaneamente le condizioni o l’orario di lavoro.
Ove tale modifica non sia possibile per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro modifica le mansioni della lavoratrice (che mantiene la stessa qualifica e retribuzione), dandone contestuale informazione scritta al servizio ispettivo del Ministero del Lavoro competente per territorio che può disporre l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio (art. 12 del D.Lgs. 151/2001).
L’articolo 14 del D.Lgs. 151/2001 stabilisce che durante tutto il periodo della gestazione le lavoratrici hanno il diritto a permessi retribuiti per l’effettuazione di esami prenatali, accertamenti clinici ovvero visite mediche specialistiche, nel caso in cui questi debbano essere eseguiti durante l’orario di lavoro.
Per la fruizione dei permessi la lavoratrice deve presentare al datore apposita istanza e successivamente presentare la relativa documentazione giustificativa attestante la data e l’orario di effettuazione degli esami.
L’articolo 53 del D.Lgs. 151/2001 vieta il lavoro notturno (dalle ore 24 alle ore 6) per le lavoratrici madri dal momento dell’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.
Inoltre si aggiunge che non sono obbligati a prestare lavoro notturno:
- la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a tre anni o alternativamente il padre convivente con la stessa;
- la lavoratrice o il lavoratore che sia l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a dodici anni;
- la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 104/92 e successive modificazioni
I congedi per maternità e paternità
Il legislatore ha previsto, in attuazione del diritto della lavoratrice alla sospensione del rapporto di lavoro di cui all’art. 2110 c.c., che il periodo di astensione obbligatoria opera durante i due mesi precedenti alla data presunta del parto e fino al terzo mese successivo.
Ai sensi dell’art. 16 D.Lgs. 151/2001, ove il parto avvenga oltre la data presunta, l’astensione obbligatoria opera anche per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto, nonché durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta.
Il recente d.lgs. 80/2015 ha poi stabilito che, in caso di parto prematuro, i giorni non goduti prima del parto si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche quando la somma dei periodi (prima e dopo il parto) supera il limite di 5 mesi. Tale disposizione, originariamente prevista in via sperimentale per il solo anno 2015, è stata infine resa definitiva dal d.lgs. 148/2015.
Con lo stesso decreto 80/2015 è stato altresì previsto che, in caso di ricovero del neonato in una struttura pubblica o privata, la madre ha diritto di chiedere la sospensione del congedo post partum, riprendendo l’attività lavorativa e differendo la fruizione del congedo dalla data di dimissione del bambino.
Tale diritto può essere esercitato una sola volta per ogni figlio ed è subordinato alla produzione di attestazione medica che dichiari la compatibilità dello stato di salute della donna con la ripresa dell’attività lavorativa.
Anche tale misura è stata resa strutturale dal d.lgs. 148/2015, e si applica anche in caso di adozioni e affidamenti.
La lavoratrice è tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato attestante la data del parto.
L’art. 17 del D.Lgs. 151/2001 individua alcune ipotesi di estensione del congedo di maternità:
- l’astensione obbligatoria dal lavoro è anticipata a tre mesi prima della data presunta del parto quando le lavoratrici siano impegnate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli. Tali lavori sono determinati con propri decreti dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative;
- la Direzione territoriale del lavoro e la ASL dispongono l’anticipazione dell’interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza, fino al periodo di astensione obbligatoria (due mesi precedenti alla data presunta del parto), per uno o più periodi, per i seguenti motivi:
- nel caso di gravi complicanze della gestazione o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;
- nel caso in cui le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna o del bambino. In questa ipotesi, l’astensione dal lavoro anticipata potrà essere disposta (oltre che a seguito di istanza della lavoratrice) anche d’ufficio dalla Direzione territoriale del lavoro, qualora nel corso della propria attività di vigilanza constati l’esistenza delle suddette condizioni;
- quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni secondo quanto stabilito dagli articoli 7 e 12 del medesimo decreto legislativo. Anche in questo caso l’astensione potrà essere disposta d’ufficio dalla Direzione territoriale del lavoro.
La lavoratrice ha la facoltà di rendere flessibile il periodo di astensione obbligatoria, spostandone il godimento – ferma restando la durata complessiva del congedo di maternità – a partire dal primo mese precedente la data presunta del parto e fino a quattro mesi successivi al parto, a condizione che tale spostamento non rechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro, in base ad attestazione del medico specialista del servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e del medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro.
Il periodo di astensione obbligatoria è computato a ogni effetto di legge nell’anzianità di servizio, inclusi gli effetti relativi alla tredicesima mensilità e alla gratifica natalizia, ed è equiparato all’attività lavorativa anche ai fini della progressione in carriera, salvo che la contrattazione collettiva non preveda particolare requisiti allo scopo.
Il diritto di astensione obbligatoria è stato esteso anche al padre lavoratore (c.d. congedo di paternità), per tutto il periodo o per la parte residua che sarebbe spettata alla madre, in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre (art. 28 D.Lgs. 151/2001).
In tale situazione si applicano al padre le medesime norme che regolano il trattamento economico e normativo della lavoratrice madre.
Ai sensi dell’art. 26 D.Lgs. n. 151/2001, il congedo di maternità spetta, per un periodo massimo di cinque mesi, anche alle lavoratrici che abbiano adottato un minore.
In caso di adozione nazionale, il congedo deve essere fruito durante i primi cinque mesi successivi all’effettivo ingresso del minore nella famiglia della lavoratrice.
In caso di adozione internazionale, invece, il congedo può essere fruito durante il periodo di permanenza all’estero richiesto per l’incontro con il minore e glia adempimenti relativi alla procedura adottiva, oppure può essere fruito entro i cinque mesi successivi all’ingresso del minore in Italia.
Nelle ipotesi di affidamento del minore, è previsto un congedo di maternità della durata massima di tre mesi, che può essere fruito entro cinque mesi dall’affidamento.
Vale anche per le ipotesi di adozione e affidamento il diritto alla sospensione del congedo di maternità previsto dall’art. 16 bis, introdotto dal d.lgs. 80/2015, in caso di ricovero del neonato.
Tutte le disposizioni in materia di congedi per adozione e affidamento del minore sono applicabili anche al padre lavoratore, ai sensi dell’art. 31 D.Lgs. 151/2001.
La riforma del 2012 ha poi introdotto, in via sperimentale per il triennio 2013-2015, un periodo di astensione obbligatoria anche a favore del padre lavoratore dipendente, il quale, in virtù di tale novella legislativa, entro 5 mesi dalla nascita del figlio, aveva originariamente l’obbligo di astenersi dal lavoro per un periodo di un giorno, con un’indennità giornaliera, a carico dell’INPS, pari al 100 per cento della sua retribuzione.
La medesima riforma ha inoltre previsto, sempre in via sperimentale, che, nello stesso periodo, il padre lavoratore ha la facoltà di assentarsi dal lavoro per un ulteriore periodo di due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest’ultima. L’utilizzo delle ulteriori giornate di congedo facoltativo da parte del padre comporta la riduzione del congedo di maternità della madre per il medesimo numero di giorni, con conseguente anticipazione del termine finale dell’astensione post-partum.
Per il periodo di due giorni goduto in sostituzione della madre è riconosciuta un’indennità giornaliera a carico dell’INPS pari al 100 per cento della retribuzione.
Con successivi interventi normativi, il legislatore ha progressivamente aumentato la durata del congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente, portandolo a due giorni per l’anno 2017, a quattro giorni per l’anno 2018, a cinque giorni per l’anno 2019, a sette giorni per l’anno 2020 e a dieci giorni per l’anno 2021.
La misura è stata infine confermata e resa strutturale dal d.lgs. 105/22, che ha inserito nel d.lgs. 151/01 il nuovo art. 27-bis, intitolato congedo di paternità obbligatorio, che prevede che il padre lavoratore, dai due mesi precedenti la data presunta del parto ed entro i cinque mesi successivi, si astiene obbligatoriamente dal lavoro per un periodo di dieci giorni lavorativi (aumentati a venti in caso di parto plurimo), non frazionabili a ore, da utilizzare anche in via non continuativa. Detto congedo si applica anche al padre adottivo o affidatario ed è fruibile anche durante il congedo di maternità della madre lavoratrice, nonché in caso di morte perinatale del figlio.
Quanto alle modalità di presentazione della domanda, l’art. 27-bis stabilisce che il padre deve comunicare per iscritto al datore di lavoro i giorni in cui intende fruire del congedo, con un anticipo non minore di cinque giorni, ove possibile in relazione all’evento nascita, sulla base della data presunta del parto, fatte salve le condizioni di miglior favore previste dalla contrattazione collettiva. La forma scritta della comunicazione può essere sostituita dall’utilizzo, ove presente, del sistema informativo aziendale per la richiesta e la gestione delle assenze.
I congedi parentali
Per congedo parentale si intende il diritto in capo a entrambi i genitori naturali di astenersi dal lavoro facoltativamente e contemporaneamente entro i primi anni di vita del bambino.
Il diritto all’astensione facoltativa dal lavoro è riconosciuto, ai sensi dell’art. 32 d.lgs. 151/2001, ai lavoratori e alle lavoratrici dipendenti (esclusi quelli a domicilio o gli addetti ai servizi domestici) titolari di uno o più rapporti di lavoro in atto, nonché alle lavoratrici madri e – a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 105/22 – ai lavoratori autonomi per un periodo massimo di tre mesi, entro il primo anno di vita del bambino.
Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto in quanto non occupato o perché appartenente a una categoria diversa da quella dei lavoratori subordinati.
Le modalità e i tempi di fruizione dei congedi parentali sono stati ampiamente modificati da due recenti decreti legislativi (il n. 80 e il n. 81 del 2015), entrambi emanati per dare attuazione al c.d. Jobs Act, le cui disposizioni, originariamente previste in via sperimentale per il solo anno 2015, sono state rese definitive e strutturali dal decreto legislativo n. 148/2015, entrato in vigore a settembre 2015. Ulteriori ritocchi alla disciplina sono stati infine apportati dal d.lgs. n. 105/22.
A seguito di tali interventi normativi, l’odierna disciplina prevede che i genitori lavoratori, nei primi 12 anni di vita del figlio, possono astenersi dall’attività lavorativa per un totale di 10 mesi, frazionati o continuativi (i mesi sono 11, se il padre si astiene almeno per 3 mesi).
Ciascun genitore può usufruire del congedo parentale per un massimo di 6 mesi (elevabili a 7, per il padre lavoratore che esercita il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a 3 mesi).
Nel caso di parto plurimo, il diritto al congedo parentale sussiste per ciascun bambino.
Del pari, anche i genitori adottivi e affidatari possono usufruire dei congedi parentali entro dodici anni dall’ingresso del minore in famiglia (art. 36 del d.lgs. 151/2001).
Le lavoratrici e i lavoratori autonomi hanno invece diritto di fruire del congedo parentale per un massimo di tre mesi entro l’anno di vita del bambino.
La lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre di minore con handicap in situazione di gravità accertata (legge n. 104/1992 art. 4, comma 1) hanno diritto, entro il compimento del dodicesimo anno di vita del bambino, al prolungamento del congedo parentale, fruibile in misura continuativa o frazionata, per un periodo massimo, comprensivo dei periodi di congedo parentale ordinario, non superiore a tre anni, o, in alternativa, nei primi tre anni di vita del minore, a un permesso giornaliero di due ore retribuite, a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati, salvo che, in tal caso, sia richiesta dai sanitari la presenza del genitore (art. 33 del d.lgs. 151/2001).
Per quanto riguarda la fruizione dei congedi parentali, il decreto 80/2015 ha introdotto la possibilità, per i lavoratori e le lavoratrici, di fruire del congedo parentale su base oraria, anziché su base mensile o giornaliera, anche in assenza di specifici accordi in sede di contrattazione collettiva, accordi che erano invece richiesti dalla legge n. 228/2012, che ha introdotto nel nostro ordinamento questa particolare modalità di esercizio del congedo parentale.
La riforma prevede inoltre la non cumulabilità del congedo a ore con altri permessi o riposi disciplinati dal Testo Unico sulla maternità e paternità (d.lgs. n. 151/2001).
A proposito delle modalità di esercizio del congedo a ore, l’art. 32 del d.lgs. 151/2001 prevede che “la fruizione su base oraria è consentita in misura pari alla metà dell’orario medio giornaliero del periodo di paga quadrisettimanale o mensile immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha inizio il congedo parentale”.
L’Inps, con la circolare n. 152 del 2015, ha precisato che, nella prima fase di attuazione delle novità introdotte dalla riforma, la richiesta all’Istituto dovrà essere presentata mediante un’apposita domanda on line, che è diversa dalla domanda telematica in uso per la richiesta del congedo parentale giornaliero o mensile. Per tale motivo, se in un determinato arco di tempo, il genitore intende fruire il congedo parentale in modalità giornaliera e/o mensile e in modalità oraria, dovrà utilizzare le due diverse procedure di invio on-line.
Nella domanda di congedo parentale a ore il genitore dichiara:
- se il congedo è richiesto in base alla contrattazione di riferimento oppure in base al criterio generale previsto dall’art. 32 del d.lgs. 151/2001 (in questo caso la fruizione nella singola giornata di lavoro è necessariamente pari alla metà dell’orario medio giornaliero);
- il numero di giornate di congedo parentale da fruire in modalità oraria (la procedura infatti prevede che il totale delle ore di congedo richieste sia calcolato in giornate lavorative intere);
- il periodo all’interno del quale queste giornate intere di congedo parentale saranno fruite.
Sempre nella prima fase di attuazione delle nuove disposizioni, le domande di congedo parentale a ore dovranno essere presentate in relazione a singolo mese solare. Quindi, per esempio, se il genitore intende fruire di congedo parentale a ore sia nel mese di novembre sia nel mese di dicembre, dovranno essere presentate due distinte domande, una per ciascun mese.
Ai fini dell’esercizio del diritto al congedo parentale, i lavoratori devono:
- preavvisare, salvo casi di oggettiva impossibilità, il datore di lavoro secondo le modalità previste dai rispettivi contratti collettivi e, comunque, con un periodo di preavviso non inferiore ai 5 giorni (2, nel caso di congedo a ore);
- presentare per via telematica la relativa domanda all’Inps precisando il periodo di assenza, e consegnarne copia al datore di lavoro.
Il genitore richiedente deve allegare alla domanda presentata all’Inps:
- certificato di nascita (o dichiarazione sostitutiva) da cui risulti la paternità o la maternità (i genitori adottivi o affidatari sono tenuti a presentare il certificato di stato di famiglia che includa il nome del bambino ed il provvedimento di affidamento o adozione);
- dichiarazione non autenticata di responsabilità dell’altro genitore da cui risulti il periodo di congedo eventualmente fruito per lo stesso figlio; nella dichiarazione occorre indicare il proprio datore di lavoro o la condizione di non avente diritto al congedo;
- analoga dichiarazione non autenticata di responsabilità del genitore richiedente relativa ai periodi di astensione eventualmente già fruiti per lo stesso figlio;
- impegno di entrambi i genitori a comunicare le variazioni successive.
La malattia della lavoratrice madre o del lavoratore padre durante il periodo di congedo parentale interrompe il periodo stesso con conseguente slittamento della scadenza e fa maturare il trattamento economico relativo alle assenze per malattia. In tal caso occorrerà inviare all’azienda il relativo certificato medico e comunicare esplicitamente la volontà di sospendere il congedo per la durata del periodo di malattia ed eventualmente spostarne l’utilizzo.
Il periodo di astensione facoltativa è computato nell’anzianità di servizio e – secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 34, co. 5, d.lgs. 151/2001, come modificato dal d.lgs. n. 105/2022 – e non comporta riduzione di ferie, riposi, tredicesima mensilità o gratifica natalizia, a eccezione degli emolumenti accessori connessi all’effettiva presenza in servizio, salvo quanto diversamente previsto dalla contrattazione collettiva.
Il diritto all’astensione facoltativa spetta anche per le adozioni e gli affidamenti e può essere fruito entro otto anni dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.
Con la riforma del 2012, è stato poi introdotto un regime alternativo al congedo parentale a favore della madre lavoratrice.
La riforma prevede, in particolare, la possibilità di concedere a quest’ultima, nei limiti di spesa stanziati, la corresponsione di un voucher per l’acquisto di baby sitting ovvero per far fronte ai costi dei servizi pubblici o dei servizi privati accreditati per l’infanzia.
Ai lavoratori genitori è infine riconosciuta la facoltà di chiedere, per una sola volta, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale (part-time) , con il solo limite che la riduzione di orario non potrà essere superiore al 50% (novità introdotta dal d.lgs. 81/2015).
Il trattamento economico dei congedi parentali
I periodi di assenza facoltativa sono in parte coperti da un trattamento economico di carattere sociale, gestito dall’INPS.
A tal proposito, la disciplina antecedente la riforma del 2015 prevedeva che, durante il periodo di astensione facoltativa, al genitore spettasse un’indennità giornaliera pari al 30% della retribuzione, fino al terzo anno di vita del bambino, per un periodo massimo di sei mesi per i due genitori complessivamente.
Oltre i sei mesi e dal terzo all’ottavo anno di vita del bambino, l’indennità spettava solo nel caso in cui il reddito individuale dell’interessato fosse risultato inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria.
Il decreto legislativo n. 80/2015 ha esteso ai primi 6 anni di vita del bambino (anziché ai primi 3 anni) il periodo nel quale i genitori, allorché si astengono dal lavoro fruendo del congedo parentale, hanno diritto all’indennità pari al 30% della retribuzione, a prescindere dalle condizioni di reddito.
La disciplina è stata ulteriormente modificata dal d.lgs. n. 105/2022, che ha disposto l’aumento da 6 a 12 anni dell’età del bambino entro la quale i genitori possono fruire del congedo parentale indennizzato nella misura del 30% (ovvero 12 anni dall’ingresso del minore in famiglia, in caso di adozione o affidamento), nonché previsto che l’indennità in questione spetta a ciascun genitore per tre mesi, non trasferibili (invece dei sei mesi complessivi previsti in precedenza), con l’aggiunta di un ulteriore periodo di congedo della durata di tre mesi, anch’esso indennizzato nella misura del 30%, che i genitori possono fruire in alternativa tra loro.
Successivamente, la legge di bilancio 2023 ha disposto l’elevazione dell’indennità del congedo parentale dal 30% all’80% della retribuzione per una sola mensilità, delle tre spettanti a ciascun genitore e non trasferibili all’altro, da fruire entro il sesto anno di vita del figlio (o entro sei anni dall’ingresso in famiglia del minore, in caso di adozione o affidamento). Da ultimo, la legge di bilancio 2024 ha aggiunto una seconda mensilità a indennizzo maggiorato, anch’essa da fruirsi entro il sesto anno di vita del figlio: per questa seconda mensilità è disposto un indennizzo pari al 60% della retribuzione (80% per il solo 2024).
L’INPS, con la circolare n. 57 del 18.4.24, ha chiarito che l’ulteriore mese indennizzato al 60% della retribuzione (80% per il solo anno 2024) è uno solo per entrambi i genitori e può essere fruito in modalità ripartita tra gli stessi o da uno soltanto di essi.
Per quanto riguarda, invece, i genitori che rientrano nei limiti di reddito fissati dal terzo comma dell’art. 34 del d.lgs. 151/2001 (reddito inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria), essi continueranno a poter beneficiare dell’indennizzo per i primi 8 anni di vita del bambino.
In base all’attuale disciplina, dunque, fermi i limiti massimi previsti dall’art. 32 del d.lgs. n. 151/01 (10 mesi elevabili a 11 mesi nel caso in cui il padre si astenga per un periodo intero o frazionato non inferiore a 3 mesi), per i primi 12 anni di vita del bambino (ovvero per i primi 12 anni dall’ingresso del minore in famiglia, in caso di adozione o affidamento), ai genitori spettano periodi di congedo parentale indennizzabili per una durata complessiva di 9 mesi – di cui: 3 mesi spettanti a ciascun genitore e non trasferibili, e altri 3 mesi riconosciuti a entrambi i genitori, in alternativa tra loro – che sono trattati economicamente come segue:
- se fruito entro il sesto anno di vita del figlio (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età), il primo mese di congedo è indennizzato all’80% della retribuzione;
- se fruito entro il sesto anno di vita del figlio (o entro 6 anni dall’ingresso in famiglia in caso di adozione o di affidamento e, comunque, non oltre il compimento della maggiore età), il secondo mese di congedo è indennizzato al 60% della retribuzione (80% solo per il 2024);
- i restanti 7 mesi sono indennizzati al 30%, a prescindere dalla situazione reddituale;
- i restanti periodi di congedo parentale, fino al limite di 10 o di 11 mesi (qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi) non sono indennizzati, salvo che il genitore interessato abbia un reddito individuale inferiore a 2,5 volte l’importo del trattamento minimo di pensione a carico dell’Assicurazione generale obbligatoria. In tale ultimo caso sono indennizzabili al 30% della retribuzione.
L’accredito della contribuzione figurativa viene effettuato dall’Inps su richiesta della lavoratrice.
Anche se la madre partorisce in un periodo in cui non presta alcuna attività lavorativa, può, con una apposita domanda all’Inps, chiedere l’accredito della contribuzione figurativa del periodo corrispondente al congedo di maternità (due mesi prima e tre mesi dopo il parto). In questo caso l’accredito viene riconosciuto a condizione che, al momento della domanda, l’interessata possa far valere almeno cinque anni di contribuzione.
È inoltre possibile il riscatto, cioè il pagamento in proprio dei contributi, anche del periodo corrispondente al congedo parentale.
Il congedo parentale viene pagato dal datore di lavoro, il quale lo anticipa per conto dell’Inps e lo conguaglia con il versamento dei contributi.
Per le seguenti categorie di lavoratori, invece, il pagamento viene effettuato direttamente dall’Inps:
- operai agricoli a tempo determinato;
- operai agricoli a tempo indeterminato;
- lavoratori dello spettacolo a tempo determinato o a prestazione;
- lavoratori a tempo determinato per lavori stagionali, nel caso in cui il contratto non preveda la liquidazione a cura del datore di lavoro;
- lavoratrici autonome (i lavoratori autonomi non ne hanno diritto).
Diritto al rientro e alla conservazione del posto
Al termine del periodo di astensione obbligatoria, la lavoratrice ha il diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinunci, di rientrare nella stessa unità produttiva ove era impiegata all’inizio del periodo di gravidanza, o in altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino.
Ha altresì diritto di essere adibita alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.
I riposi giornalieri
Il datore di lavoro deve consentire alla lavoratrice madre due periodi di riposo durante il primo anno di vita del bambino, anche cumulabili durante la giornata.
I periodi di riposo giornaliero hanno dunque la durata di un’ora ciascuno (in totale due ore al giorno), se l’orario di lavoro è pari o superiore alle sei ore giornaliere.
Se l’orario di lavoro è inferiore alle sei ore giornaliere, la lavoratrice madre avrà diritto ad un solo periodo di riposo della durata di un’ora al giorno.
Qualora la lavoratrice possa avvalersi di strutture aziendali quali asili nido o altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa, i suddetti periodi avranno la durata di mezz’ora ciascuno.
Congedi per malattia del figlio
Entrambi i genitori possono fruire di assenze non retribuite per la durata delle malattie del bambino durante i primi tre anni di vita dello stesso, previa presentazione del certificato medico.
Se, invece, il bambino ha un’età compresa tra i tre e gli otto anni ciascun genitore ha diritto ad astenersi dal lavoro – sempre senza retribuzione – per un massimo di cinque giorni lavorativi all’anno.
Divieto di licenziamento
Le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento un anno di età del bambino, ai sensi dell’art. 54 D.Lgs. 151/2001.
Il divieto è connesso con lo stato oggettivo di gravidanza, senza che si tenga conto della conoscenza da parte del datore della stato della lavoratrice, essendo sufficiente l’esibizione di idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento delle condizioni che lo vietavano.
Il licenziamento effettuato in connessione con lo stato di oggettiva gravidanza e puerperio è da considerarsi nullo, con la conseguenza che la lavoratrice avrà diritto al ripristino del rapporto di lavoro.
E’ altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino.
Il divieto di licenziamento si applica anche al padre lavoratore, in caso di fruizione del congedo di paternità, per la durata del congedo stesso, e si estende sino al compimento di un anno di età del bambino.
Il divieto di licenziamento di cui all’art. 54 D.Lgs. 151/2001 si applica altresì in caso di adozione e di affidamento, sino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare, in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità.
Durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salva che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto cui essa è addetta, né può essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo, salvo che sia avvenuto per cessazione dell’attività dell’azienda.
Il divieto di licenziamento non si applica nel caso:
- di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
- di cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
- di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine
- di esito negativo della prova, facendo salvo il divieto di discriminazione di cui all’art. 4 Legge n. 125/1991.
Al di fuori di queste ipotesi, il licenziamento intimato nel periodo coperto da divieto è nullo e la lavoratrice ha diritto alle tutele previste dalla legge, e in particolare:
- alle tutele indicate dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012, se è stata assunta prima del 7 marzo 2015;
- alle tutele indicate dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del cd. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti), se l’assunzione è avvenuta a decorrere dal 7 marzo 2015.
Tali norme, peraltro, hanno contenuto sostanzialmente identico; entrambe, infatti, stabiliscono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla cd. tutela reintegratoria piena, che prevede:
- l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;
- la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
- il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;
- il cd. diritto di opzione a favore lavoratore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.
Dimissioni
La richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza, così come la richiesta di dimissioni presentata dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, devono essere convalidate dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio. A detta convalida è sospensivamente condizionata l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro (art. 55, co. 4, d.lgs. 151/2001).
In caso di mancato accertamento della volontarietà della richiesta di dimissioni tramite convalida si determina la nullità delle dimissioni anche a prescindere dalla conoscenza dello stato di maternità da parte del datore di lavoro.
Il primo comma dell’art. 55 del d.lgs. 151/2001 prevede inoltre che, in caso di dimissioni volontarie presentate durante il periodo in cui vige il divieto di licenziamento, la lavoratrice ha diritto alle indennità previste da disposizioni di legge e contrattuali per il caso di licenziamento.
L’art. 12 del d.lgs. 80/2015 ha infine stabilito che la lavoratrice e il lavoratore che si dimettono nel predetto periodo non sono tenuti al preavviso. La medesima disciplina si applica anche al padre lavoratore che ha fruito del congedo di paternità e nel caso di adozione e di affidamento, entro un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di tutela della maternità
Per la Casistica di decisioni della Magistratura in tema di tutela della maternità si veda la sezione specifica nella voce Maternità – Tutele e diritti