Discriminazioni di genere

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Questa voce è stata curata da Angela Cavallo

 

Il lavoro delle donne e la tutela differenziata in una prospettiva storica

Sin dalla seconda metà del XIX secolo le donne sono state largamente presenti nel mercato del lavoro sia nel settore agricolo che in quello della nascente produzione industriale, soprattutto nel settore tessile. Sono poi state massicciamente impiegate durante le due guerre mondiali, in sostituzione degli uomini impegnati al fronte.
La prima legislazione sociale è stata appunto caratterizzata da normative volte a contenere le forme più acute di sfruttamento del lavoro delle donne, visto l’impiego massiccio delle stesse proprio in considerazione della loro condizione di inferiorità socio-economica, dovuta anche al loro naturale impegno nella cura domestica.
L’intervento protettivo nei confronti delle donne, oltre che dei minori, muoveva pertanto dalla presunzione di una loro ridotta attitudine fisiologica alla prestazione (capacità lavorativa) ed è stato rivolto ad escludere o limitare l’occupazione delle donne per mezzo di una molteplicità di divieti relativi all’esecuzione della prestazione, con l’obiettivo di tutelare la salute e la stessa capacità di lavoro, messe a repentaglio dallo sfruttamento delle energie fisiche.
Nel periodo corporativo è stata quindi emanata la Legge n. 653/1934, che ha introdotto alcuni divieti per il lavoro delle donne: divieto di impiego nei lavori sotterranei delle cave, miniere e gallerie; divieto di lavoro notturno nelle aziende industriali; limiti con riguardo ai lavori di trasporto e di sollevamento di pesi e con riguardo all’orario di lavoro (riposo intermedio di durata variabile a seconda della durata della giornata lavorativa).
Tuttavia, attraverso la via dell’iperprotezione, in realtà si è provocato il risultato di scoraggiare la domanda di lavoro femminile, con l’assurdo effetto dell’emarginazione delle donne dal mercato del lavoro, con conseguenze sul piano della disuguaglianza rispetto agli altri lavoratori.
Da tale ultima esigenza nasceva la normativa discriminatoria, di cui è stata anzitutto espressione l’art. 37 della Costituzione, e tutta la normativa che ne è seguita.
La posizione della donna si è differenziata negli anni più recenti, quando il sostanziale fallimento delle politiche antidiscriminatorie ha indotto il legislatore ad adottare misure che favorissero positivamente e concretamente l’accesso delle donne ai posti di lavoro.
E’ stata così introdotta una normativa di promozione delle pari opportunità d’impiego delle donne.

 

Fonti normative

  • Legge n. 653/1934
  • Costituzione
  • Legge n. 7/1963
  • Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori)
  • Legge n. 903 del 1977 – Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro
  • Legge n. 125 del 1991 – Azioni positive per la realizzazione della parità uomo –donna nel lavoro
  • D.Lgs. n. 196/2000
  • D.Lgs. n. 151/2001, T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità
  • Direttiva n. 2002/73/CE
  • D.Lgs. 276/2003
  • D.Lgs. n. 145/2005
  • Decreto Legislativo n. 198 del 2006 – Codice delle pari opportunità tra uomo e donna
  • Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita

 

 

Il lavoro delle donne, il principio di eguaglianza e la parità di trattamento nella Costituzione

L’art. 37, comma 1, della Costituzione da un lato ha riaffermato gli obiettivi protettivi tradizionali della tutela differenziata del lavoro femminile, e dall’altro ha introdotto il principio della tutela paritaria mirata a garantire alle donne la parità di trattamento rispetto ai lavoratori adulti di sesso maschile.
In una logica protezionistica, la norma costituzionale statuisce che alla donna devono essere garantite le condizioni di lavoro necessarie all’adempimento della sua essenziale funzione familiare e alla protezione della maternità, con ciò giustificando l’emanazione di normative di tutela differenziata al fine del raggiungimento di tali obiettivi.
In una logica paritaria, invece, alla donna vengono riconosciuti gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. La tutela paritaria è, pertanto, da ricollegare al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Costituzione, del quale la parità di trattamento costituisce una specificazione, principio che ha direttamente efficacia nei confronti del datore di lavoro, limitandone l’autonomia contrattuale.
Il 1° comma dell’art. 3 Costituzione detta il c.d. principio di eguaglianza formale, o principio di non discriminazione, secondo cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni riconducibili a situazioni personali o sociali.
A tale principio si ricollega quello di eguaglianza sostanziale, dettato dal comma 2 della Costituzione, secondo cui la Repubblica deve rimuovere gli ostacoli che impediscono, nel caso di specie, ai lavoratori dipendenti la partecipazione alla vita politica e sociale del paese, interventi questi che non possono esaurirsi solo con la costruzione di un “diritto diseguale” all’interno del rapporto di lavoro e nel confronto con gli altri soggetti di diritto (al fine di eliminare alcune condizioni soggettive di svantaggio sociale), ma che si estendono anche all’interno della classe dei lavoratori dipendenti, istituendo relazioni di diseguaglianza anche tra categorie di lavoratori subordinati.
Da tale impostazione è nata la legislazione di tutela e successivamente di parità con riguardo al lavoro delle donne, categoria considerata ulteriormente svantaggiata rispetto agli altri lavoratori subordinati.
Dalle norme costituzionali richiamate deriva un vero e proprio diritto soggettivo della lavoratrice alla parità di trattamento verso il datore di lavoro, il quale è obbligato alla non discriminazione per sesso e al quale, quindi, è inibito porre in essere condizioni di lavoro e di retribuzione deteriori rispetto al trattamento della generalità dei lavoratori.
La formulazione del 1° comma dell’art. 37 Costituzione è il risultato di un compromesso raggiunto in seno all’Assemblea Costituente fra due opposti orientamenti volti a realizzare rispettivamente l’eguaglianza giuridica delle lavoratrici e la tradizionale funzione familiare e materna delle donne.
Il secondo enunciato, pertanto, implica la doverosità dell’intervento dello Stato che, tenendo conto della diseguaglianza di fatto delle condizioni delle lavoratrici, soprattutto se madri, deve tendere alla rimozione delle conseguenze sfavorevoli che da tale condizione derivano nell’attività lavorativa, al fine della eguaglianza effettiva e sostanziale delle lavoratrici ai sensi dell’art. 3 comma 2 Costituzione.

 

Applicazioni normative della logica protezionistica

Dalla logica protettiva, presente ancora nel dettato costituzionale, scaturiscono alcune leggi storicamente importanti di protezione delle donne.

La Legge n. 7/1963, tuttora vigente, stabilisce la nullità sia delle clausole di nubilato (che prevedevano le dimissioni forzate delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio), clausole considerate nulle e come non apposte.
Con riguardo ai licenziamenti intimati per causa di matrimonio, la legge ha previsto una presunzione di sussistenza della causa di matrimonio. Infatti, il licenziamento si presume disposto per tale motivazione qualora intervenga nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione.
La lavoratrice licenziata illegittimamente ha il diritto ad essere riammessa in servizio e ha altresì diritto ad ottenere il pagamento della retribuzione per tutto il periodo che va dal licenziamento fino alla data della effettiva riammissione nel posto di lavoro.
La presunzione è stata applicata anche alle dimissioni della lavoratrice avvenute nel suddetto periodo, a meno che la stessa non provveda entro un mese a confermarle presso la Direzione Provinciale del lavoro.
Con riguardo alla materia delle lavoratrici madri, si rileva che è stata risistemata principalmente dal D.Lgs. n. 151/2001, T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità.

 

La legge di parità

L’evoluzione della legislazione in applicazione dei principi di parità tra uomini e donne introdotti con la Costituzione può essere descritta come una parabola ascendente, che si è sviluppata inserendo progressivamente nel tessuto normativo nuovi strumenti di analisi della realtà e nuovi strumenti di intervento.
Si possono ravvisare, in particolare, tre tappe nella suddetta evoluzione legislativa, che possono essere così riassunte:

  1. la fase dei divieti di discriminazione;
  2. la fase delle pari opportunità;
  3. la fase della considerazione delle differenze nelle generali politiche del diritto.

Posto che le identità dei lavoratori sono inevitabilmente diverse, il legislatore ha costruito un diritto speciale con cui, attraverso innanzitutto le prime due fasi, ossia i divieti di discriminazione e gli strumenti di diritto diseguale, ha perseguito la finalità di garantire che i soggetti “diversi” non risultassero penalizzati dalle loro differenze – ed è questo l’obiettivo della prima fase – e che avessero pari opportunità di lavoro e nel lavoro (obiettivo della seconda fase).
Dall’attuazione del principio di eguaglianza formale, nella prima fase, si è passati nella seconda fase all’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, Costituzione, mediante il ricorso a nuovi strumenti di diritto diseguale, ossia le azioni positive.
La terza fase è ancora in corso e muove dalla consapevolezza che, seppure protetti dalle norme antidiscriminatorie e agevolati dalle azioni positive, i soggetti “diversi” continuano a rimanere come tali.
L’obiettivo è quindi quello di disegnare un diritto del lavoro che sia in grado di rispettare e valorizzare tutte le diversità, con l’utilizzo del c.d. modello del mainstreaming.

Parità di trattamento e divieti di discriminazione costituiscono due concetti strettamente correlati.
Il profilo della parità di trattamento interviene sia come conseguenza del rispetto del divieto di discriminazione, sia come precetto autonomo. Certamente la tecnica del divieto di discriminazione è stata la tecnica più utilizzata e con un campo di applicazione più vasto.
La Legge n. 903 del 1977 è stata emanata in un contesto in cui, sul piano della occupazione, emergeva con chiarezza come le tradizionali norme di protezione si rivolgessero in realtà a svantaggio della donna, in quanto aumentavano il costo della manodopera femminile e finivano per disincentivare il loro impiego da parte degli imprenditori.
Tale legge, denominata “legge di parità” mira a ribaltare la tradizionale prospettiva della tutela differenziata e ad attuare la parità di trattamento, in perfetta simmetria con la disciplina comunitaria, in particolare con l’art. 119 del Trattato delle Comunità Europee (ora art. 141) e con le Direttive Comunitarie nn. 75/117 e 76/207, emanate rispettivamente in tema di parità salariale e di parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici.

La Legge n. 903 del 1977 ha affermato il principio di parità, o meglio di non discriminazione, con latitudine amplissima, estendendolo alla disciplina dei rapporti di lavoro in tutti i suoi aspetti e nei momenti preliminari alla costituzione dei medesimi.
Ha quindi esteso il divieto di discriminazione fondata sul sesso al complessivo trattamento della lavoratrice sia nell’accesso al lavoro sia nello svolgimento del rapporto, in funzione della realizzazione della parità dei diritti tra lavoratori in ragione del sesso.
L’art. 1 della suddetta legge (ora trasfuso nell’art. 27 Decreto Legislativo n. 198 del 2006 – Codice delle pari Opportunità) dispone espressamente il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma, o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione (ossia tramite i servizi pubblici per l’impiego, o agenzia privata di collocamento, o in caso di assunzione diretta, oggi generalizzata dal D.Lgs. 276/2003, o in caso di meccanismi di selezione di tipo concorsuale)e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.
Il divieto comprende ogni forma di discriminazione, anche se attuata attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, oppure in modo indiretto, attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.
Il divieto di discriminazione, secondo l’art. 1 della Legge n. 903 del 1977 si applica anche alle iniziative in materia di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale, per quanto concerne sia l’accesso al lavoro sia i contenuti, nonché all’affiliazione e all’attività in un’organizzazione di lavoratori o di datori di lavoro, o in qualunque Organizzazione i cui membri esercitino una particolare professione, e alle prestazioni erogate da tali organizzazioni.

Si rileva che l’estensione del principio paritario all’accesso al lavoro autonomo è stata introdotta dall’art. 3 D.Lgs. n. 145/2005, che ha modificato l’art. 1 della Legge n. 903/1977.

Deroghe alla tutela antidiscriminatoria sono state previste in caso di assunzione in attività della moda, dell’arte e dello spettacolo, nelle quali legare l’assunzione all’appartenenza all’uno o all’altro sesso non costituisce discriminazione, quando ciò sia essenziale alla natura del lavoro o della prestazione.
La parità di trattamento retributivo, ai sensi dell’art. 2 Legge n. 903 del 1977 (ora trasfusa nell’art. 28 Decreto Legislativo n. 198 del 2006) opera quando le prestazioni richieste siano uguali o di pari valore.
Tale tutela paritaria è riferita espressamente alle mansioni assegnate (e in questo senso deve intendersi anche l’espressione “parità di lavoro” utilizzata dall’art. 37 Costituzione), a prescindere da qualsiasi considerazione legata al rendimento individuale.
Inoltre, in tema di inquadramento professionale, strettamente connesso alla retribuzione, i sistemi di classificazione devono adottare criteri comuni per uomini e donne (art. 2 Legge 903/1977); si considerano, quindi, illegittime le classificazioni separate per sesso e le distinzioni a fini retributivi tra lavori considerati tipicamente maschili e lavori ritenuti femminili.
Sono altresì vietate, ai sensi dell’ art. 3 Legge n. 903 del 1977 (oggi trasfuso nell’art. 29 Decreto Legislativo n. 198 del 2006) le discriminazioni nell’attribuzione di mansioni e di qualifiche e nella progressione di carriera.

Il divieto di discriminazione affermato dalla Legge n. 903/1977 deve ritenersi comunque di portata generale.
Ciò si desume dalla norma di cui all’art. 13 Legge n. 903/1977 che ha modificato l’art. 15 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), estendendo il divieto di atti e patti discriminatori adottati in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro e le relative sanzioni anche agli atti e patti discriminatori per motivi di sesso.

 

La nozione di discriminazione diretta e indiretta

La Legge n. 903 del 1977 ha permesso di colpire solamente le manifestazioni più evidenti della discriminazione, quelle cioè fondate direttamente sulla considerazione del sesso; era ispirata, quindi, ad una concezione meramente formale di uguaglianza.
Tuttavia, vi sono pratiche fondate su criteri diversi dal sesso e apparentemente neutri, ma che di fatto si sono rivelate discriminatorie.
Anche a livello comunitario, le direttive n. 75/117 e n. 76/207 sancivano la parità di retribuzione e la parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici, senza tuttavia proporre una definizione formale di discriminazione, sia diretta che indiretta.
D’altra parte, la giurisprudenza della Corte di Giustizia aveva svolto una preziosa opera di supplenza nei confronti del legislatore comunitario, permettendo di ricondurre alla violazione del principio di parità ogni forma di discriminazione indiretta.
Successivamente, la direttiva n. 97/80 ha introdotto una definizione di discriminazione indiretta, affermando che questa sussiste quando una disposizione, un criterio, o una prassi apparentemente neutri colpiscono una quota nettamente più elevata di individui dell’uno dei due sessi, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano adeguati e necessari e possano essere giustificati da ragioni obiettive non basate sul sesso.

La Legge n. 125 del 1991 (modificata dal D.Lgs. n. 196/2000 e dal D.Lgs. n. 145/2005, in attuazione della Direttiva n. 2002/73/CE, e ora trasfusa nel Decreto Legislativo n. 198 del 2006) ha esteso la tutela antidiscriminatoria, mediante strumenti e tecniche normative in grado di cogliere le ragioni sostanziali della discriminazione di sesso.
La legge, con l’art. 4 commi 1 e 2, ha introdotto una nozione generale di discriminazione diretta e indiretta.
Il testo attuale, trasfuso nell’art. 25 Decreto Legislativo n. 198 del 2006, definisce espressamente la nozione di discriminazione diretta, intesa come qualsiasi atto o patto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole, discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso, e comunque intesa come il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
È dunque irrilevante l’intento dell’autore dell’atto, tant’è che la discriminazione potrebbe derivare dall’applicazione di regole di un contratto collettivo e persino da norme di legge.

In maniera differente rispetto al testo originario, la riforma dell’art. 4 comma 1 della Legge n. 125 del 1991 ha introdotto il carattere bidirezionale della tutela antidiscriminatoria. Infatti, non si fa più riferimento all’espressione neutra “lavoratori”, ma si ammette che i trattamenti di sfavore potrebbero avvenire anche nei confronti dei lavoratori di sesso maschile.
Deve ritenersi implicito un elemento di comparazione nella valutazione della sussistenza di una discriminazione, ossia il trattamento preferenziale nei confronti di un lavoratore, per ragioni riconducibili al sesso viene comparato al trattamento pregiudizievole riconosciuto alla lavoratrice (o viceversa). Secondo la Corte di giustizia europea, la tutela discriminatoria potrebbe essere utilizzata per colpire trattamenti penalizzanti legati all’identità sessuale (Corte Giustizia 30.04.1996, C-13/94).
Il legislatore, nel testo originario della Legge n. 125 del 1991, aveva offerto una definizione di discriminazione indiretta, affermando che “costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente alla adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa”.
Tale allargamento della nozione giuridica di discriminazione fino a ricomprendervi quella di discriminazione indiretta, è stato consentito in ragione del passaggio da una logica dell’eguaglianza formale a quella dell’eguaglianza sostanziale.

La nozione di discriminazione indiretta è stata poi modificata con il recepimento da parte della normativa nazionale della Direttiva n. 2002/73/CE e della ricca elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia.
Ai sensi dell’art. 4, comma 2, Legge n. 125 del 1991, come modificato dal D.Lgs. n. 145/2005, e ora trasfuso nell’art. 25, comma 2, Decreto Legislativo n. 198 del 2006, si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso. Quindi hanno rilevanza discriminatoria criteri di per sé neutri, diversi dal criterio del sesso la cui considerazione è espressamente vietata dall’ordinamento.
Le conseguenze particolarmente svantaggiose prodotte, anche in via solo potenziale, sui lavoratori dell’uno o dell’altro sesso, risultano all’origine di trattamenti assimilabili a quelli direttamente discriminatori. Si rileva che l’effetto indirettamente discriminatorio è sanzionabile ancorché di carattere solo potenziale.
La norma dà la possibilità al datore di lavoro di fornire una giustificazione del trattamento pregiudizievole fondata su ragioni obiettive, poiché il trattamento pregiudizievole dipende dall’applicazione di un criterio apparentemente neutro.
Pertanto, non sussiste una discriminazione indiretta quando tali criteri riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
In altre parole, perché sussista una discriminazione indiretta assume rilievo l’insussistenza di cause di giustificazione, le quali non sono mai invocabili a fronte di una discriminazione diretta.

Il requisito essenziale cui si riferisce un criterio neutro sembrerebbe consistere in un requisito strettamente inevitabile per lo svolgimento di una data prestazione lavorativa.
Sul punto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in merito alle cause di giustificazione, ha escluso l’ammissibilità di giustificazioni del tutto generiche e ha in generale affermato che la causa di giustificazione di un trattamento differenziato deve basarsi su parametri di carattere tecnico-organizzativo obiettivamente apprezzabili, mentre non può consistere in mere ragioni di mercato o essere esclusivamente fondata su considerazioni di redditività aziendale (si veda, Corte di Giustizia, 17.06.1998, C-243/95).
Sia la giurisprudenza italiana sia quella della Corte di giustizia hanno considerato quali criteri apparentemente neutri, da cui può derivare una situazione di particolare svantaggio per la lavoratrice o il lavoratore, ad esempio, l’anzianità di servizio, la statura, la formazione professionale, l’adattabilità ad orari e luoghi di lavoro variabili.
Questi sono tutti criteri potenzialmente di carattere indirettamente discriminatorio per le lavoratrici, che di fatto hanno normalmente minore anzianità di servizio, interrompendo l’attività lavorativa per ragioni familiari o entrando più tardi nel mercato del lavoro; rivestono in genere livelli mediamente più bassi di formazione; hanno minore flessibilità nel lavoro, in ragione delle responsabilità familiari che gravano sulle stesse.

Sono stati considerati di carattere indirettamente discriminatorio anche i sistemi di classificazione basati su criteri che enfatizzano solo qualità tipiche degli appartenenti ad un sesso (come la forza fisica) o certi trattamenti riservati al lavoro atipico (come il part-time).
Si sottolinea, con riferimento a quest’ultima considerazione, che in tutta l’area dell’Unione europea il lavoro a tempo parziale è diffuso in maniera assolutamente preponderante fra le donne.
Una importante modifica all’art. 4 comma 3 Legge n. 125 del 1991 (ora art. 27 Decreto Legislativo n. 198 del 2006) è stata apportata dal D.Lgs. n. 196/2000, che ha prescritto, nei concorsi pubblici e in tutte le forme di selezione del personale attuate anche a mezzo di terzi da datori di lavoro privati e da pubbliche amministrazioni, l’obbligo di inserire accanto alla prestazione di lavoro richiesta le parole “dell’uno o dell’altro sesso”, fatta eccezione per i casi in cui il riferimento al sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione.

 

Le molestie di genere e le molestie sessuali

Il D.Lgs. n. 145/2005 ha modificato la Legge del 1991, aggiungendo all’art. 4 i commi 2bis, 2 ter e 2 quater (ora art. 26 Decreto Legislativo n. 198 del 2006), i quali estendono la tutela antidiscriminatoria anche alle molestie c.d. di genere e alle molestie sessuali nei luoghi di lavoro, oggi riconosciute espressamente come una forma di discriminazione di genere.
Non viene, in questo caso, tutelata una parità violata, ma la libertà e dignità della persona offesa.
Ai sensi dell’art. 4, comma 2 bis, Legge n. 125 del 1991 (ora art. 26, comma 1, Decreto Legislativo n. 198 del 2006, sono considerate discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Per la trattazione delle molestie di genere, si rinvia alle voci:

Ai sensi dell’art. 4, comma 2 ter, Legge n. 125 del 1991 (ora art. 26, comma 2, Decreto Legislativo n. 198 del 2006) sono altresì considerate come discriminazioni le molestie sessuali, ovvero “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
Con riguardo alla fattispecie delle molestie sessuali, prima dell’introduzione di una definizione delle stesse come discriminazioni di genere, la giurisprudenza italiana aveva già approntato una forma di tutela per quei comportamenti molesti a connotazione sessuale avvenuti nel luogo di lavoro, collegandoli alla violazione dell’art. 2087 c.c. da parte del datore di lavoro.

Anzitutto, la giurisprudenza annovera, tra i comportamenti molesti a sfondo sessuale nel luogo di lavoro, gli apprezzamenti allusivi, le battute a sfondo sessuale, gli inviti a cena tendenziosi, le telefonate continue con costanti ricadute sul piano sessuale, l’approccio tramite un bacio o proposte di approccio.
Le molestie sessuali ledono la personalità, di cui la dignità personale è un attributo (Trib. Milano, 30 gennaio 2001).
La fattispecie viene collegata sistematicamente da un costante orientamento giurisprudenziale alla norma di cui all’art. 2087 c.c., affermando che se il datore sapeva o doveva ragionevolmente sapere delle molestie e non è intervenuto per far cessare tali condotte, non può esimersi da responsabilità, da cui deriva il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per il lavoratore, data la natura costituzionale dei beni lesi (Cass., n. 10752/1996; Cass., n. 9068/2005, Cass., n. 12717/1998).
Si rileva, inoltre, che ai sensi dell’art. 2087 c.c. l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica ma anche la personalità morale dei dipendenti; tale obbligo di protezione impone al datore di lavoro, cui sia noto il compimento di molestie sessuali nell’ambito dell’impresa, di intervenire, adottando tutte le misure, anche di natura disciplinare e organizzativa, necessarie a garantire la tutela dei dipendenti (Trib. Milano, 28 dicembre 2001; Trib. Pisa, 12 ottobre 2001).

Ai sensi dell’art. 4, comma 2 quater, Legge n. 125 del 1991 (ora art. 26, comma 3, Decreto Legislativo n. 198 del 2006), gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro dei lavoratori o delle lavoratrici vittime dei comportamenti di molestie o di molestie sessuali sono nulli, se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai comportamenti medesimi.
A tal proposito, la legge riconosce altresì quali discriminazioni quei trattamenti sfavorevoli da parte del datore di lavoro che costituiscono una reazione ad un reclamo o ad un’azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

 

L’apparato sanzionatorio

Dalla violazione del divieto di discriminazione dei lavoratori e delle lavoratrici per ragioni di sesso deriva, secondo l’art. 13 della Legge n. 903 del 1977, la sanzione della nullità dell’atto (o patto) discriminatorio.
In particolare, in applicazione dell’art. 15 Legge 300/1970 (Statuto Lavoratori), riformato proprio dall’art. 13 della Legge n. 903/1977, è nullo qualsiasi atto o patto diretto a discriminare il lavoratore per motivi di sesso.
Gli atti discriminatori sono dunque impugnabili secondo il rito ordinario e nell’ambito di un’azione di nullità.
Una menzione particolare merita il rimedio della nullità dei licenziamenti discriminatori.
Nel caso del licenziamento la nullità si dimostra un’adeguata reazione dell’ordinamento, perché garantisce il raggiungimento dell’obiettivo che si prefigge il divieto di discriminazione, ossia la rimozione della discriminazione stessa.
L’art. 3 della Legge n. 108/1990 ha sancito la nullità del licenziamento discriminatorio indipendentemente dalla motivazione addotta dal datore di lavoro.
Ha esteso inoltre la c.d. tutela reale, con previsione della reintegrazione del lavoratore licenziato nel proprio posto di lavoro, al di là dei limiti previsti dalla Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) per l’applicazione dell’art. 18, e quindi indipendentemente dalla categoria di appartenenza del lavoratore (essendo applicabile anche ai dirigenti) e indipendentemente dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro, estendendosi altresì all’area della recedibilità ad nutum, per la quale non è prevista né tutela reale né tutela obbligatoria.

Anche a seguito della legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, il legislatore, per i licenziamenti discriminatori, ha mantenuto ferma la tutela reintegratoria piena: anche a seguito della modifica dell’art. 18 S.L., infatti, la lavoratrice discriminata ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e all’integrale risarcimento del danno (pari alle mensilità di retribuzione globale di fatto che questa avrebbe dovuto percepire dal giorno del licenziamento nullo a quello dell’effettiva reintegra). Tale indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità e da essa va dedotto quanto percepito dalla lavoratrice per l’effettuazione di un’altra attività lavorativa.

Con riguardo alle sanzioni di tipo amministrativo e penale nei confronti del datore di lavoro, l’art. 41 del Decreto Legislativo n. 198 del 2006 prevede che ogni accertamento di atti, patti o comportamenti discriminatori ai sensi degli artt. 25 e 26 dello stesso decreto, posti in essere da soggetti ai quali siano stati accordati benefici ai sensi delle vigenti leggi dello Stato, ovvero che abbiano stipulato contratti di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, si servizi e forniture, viene comunicato immediatamente dalla direzione provinciale del lavoro competente ai Ministri nelle cui amministrazioni sia stata disposta la concessione del beneficio o dell’appalto.
Questi adottano le opportune determinazioni, ivi compresa, se necessario, la revoca del beneficio, e nei casi più gravi o nel caso di recidiva, possono decidere l’esclusione del responsabile per un periodo di tempo di due anni da qualsiasi ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie, ovvero da qualsiasi appalto.
La medesima norma prevede al comma 2 che l’inosservanza delle disposizioni contenute negli artt. 27, commi 1, 2 e 3 (per il divieto di discriminazione), 28, 29, 30, commi 1, 2, 3, e 4, è punito on l’ammenda da 103 euro a 516 euro.

 

Gi strumenti processuali e l’onere della prova in materia di discriminazioni di genere

L’art. 15 della Legge n. 903 del 1977, strutturalmente analogo all’art. 28 Legge 300/1970 (Statuto Lavoratori), e ora contenuto nell’art. 38 Decreto Legislativo n. 198 del 2006 ha introdotto una procedura d’urgenza azionabile su ricorso del singolo lavoratore o su delega delle organizzazioni sindacali o della consigliera/ere di parità provinciale o regionale territorialmente competente, avanti il giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunciato.
Il giudice, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione delle norme antidiscriminatorie richiamate (art. 27, commi 1, 2, 3, e 4 Decreto Legislativo n. 198 del 2006 e art. 5 Legge n. 903/1977), ordina all’autore del comportamento denunziato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale.

Per il procedimento d’urgenza è stata ora prevista anche un’azione collettiva, ai sensi dell’art. 37, comma 4, Decreto Legislativo n. 198 del 2006, per il processo ordinario avanti il giudice del lavoro.
Lo strumento del procedimento d’urgenza è, inoltre, applicabile solo con riguardo alle violazioni delle regole di lavoro notturno e del divieto di discriminazione in materia di accesso al lavoro.

E’ stata prevista la legittimazione processuale della Consigliera o Consigliere di parità regionali a tutela di più soggetti, ai sensi dell’art. 37, D.lgs. n. 198/2006.
Il Consigliere o la Consigliera di parità provinciale o regionale possono intervenire anche nelle cause promosse individualmente dal singolo lavoratore o lavoratrice, o possono rappresentarli in giudizio.

In merito all’onere della prova nel procedimento ordinario ex artt. 420 ss., nei casi di discriminazioni di genere, si precisa che l’art. 4, comma 6, Legge n. 125 del 1991 (ora art. 40 Decreto Legislativo n. 198 del 2006) stabilisce che, quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati statistici, relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione di carriera e ai licenziamenti idonea a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

La sentenza del Giudice che accerta le discriminazioni sulla base del ricorso presentato ai sensi del comma 2 art. 37 Decreto Legislativo n. 198 del 2006, ossia il procedimento ordinario promosso dalla Consigliera o Consigliere di parità a tutela di più soggetti, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina all’autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.
Nella sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano.

 

Le azioni positive

Nelle finalità della Legge n. 125 del 1991 un ruolo cruciale è stato assegnato a quelle misure, denominate “azioni positive per le donne”, che possono essere adottate al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità (art. 1, comma 1, Legge 125/1991, ora art. 42 D.lgs. n. 198/2006).
L’introduzione delle azioni positive è stata ispirata dalla logica del diritto diseguale, essendo destinate ad operare solo in favore delle donne, e mirano a realizzare l’eguaglianza sostanziale tra uomini e donne e di favorire l’occupazione femminile, incidendo sulle situazioni di svantaggio delle donne nel mercato del lavoro (nell’accesso al lavoro, nel trattamento retributivo, negli sviluppi di carriera, nell’inserimento in certi settori professionali e livelli di responsabilità) attraverso la rimozione dei più significativi ostacoli, che di fatto negano alle donne pari opportunità (formazione professionale, organizzazione del lavoro, regimi degli orari, ripartizione squilibrata tra uomini e donne delle responsabilità familiari).
La legge chiarisce esplicitamente l’obiettivo delle azioni positive, quali strumenti di diritto diseguale rivolti a realizzare quell’obiettivo di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 comma 2 Costituzione.
Ai sensi dell’art. 1 comma 2 Legge n. 125 del 1991, ora art. 42 comma 2 Decreto Legislativo n. 198 del 2006 le azioni positive hanno in particolare lo scopo di:

  1. eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità;
  2. favorire la diversificazione delle scelte professionali delle donne in particolare attraverso l’orientamento scolastico e professionale e gli strumenti della formazione;
  3. favorire l’accesso al lavoro autonomo e alla formazione imprenditoriale e la qualificazione professionale delle lavoratrici autonome e delle imprenditrici;
  4. superare condizioni, organizzazione e distribuzione del lavoro che provocano effetti diversi, a seconda del sesso, nei confronti dei dipendenti con pregiudizio nella formazione, nell’avanzamento professionale e di carriera ovvero nel trattamento economico e retributivo;
  5. promuovere l’inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati e ai livelli di responsabilità;
  6. favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi.

Proprio con riferimento a tale disposizione si è posta la questione se le azioni positive possano estendersi sino al punto di comprendere lo strumento della quota riservata nelle assunzioni o nelle promozioni in favore delle donne, nei casi di sottorappresentazione. Su tale questione, ed in generale in tema di azioni positive vi è una quasi totale assenza di giurisprudenza italiana.
Si rileva, tuttavia, che la nostra Corte Costituzionale, limitatamente alla materia dei sistemi elettorali, si è pronunciata a favore della volontarietà delle azioni positive, liberamente adottate da partiti politici, associazioni o gruppi che partecipano alle elezioni politiche (sent. n. 422/1995), ma ha ritenuto illegittime, poiché in contrasto con il principio di eguaglianza formale espresso dall’art. 3 , comma 1, Costituzione, tutte le norme volte ad imporre un equilibrio fra i sessi nella composizione delle liste di candidati ad elezioni politiche e amministrative.
La Corte ha pertanto introdotto importanti limitazioni al legittimo campo di azione delle azioni positive, fornendo una definizione riduttiva della loro finalità.
La Corte a tal riguardo ha affermato che le misure introdotte dalla Legge n. 125 del 1991, volutamente diseguali, possono essere adottate per eliminare situazioni di inferiorità economica e sociale o per compensare e rimuovere le diseguaglianze materiali tra gli individui, quale presupposto del pieno esercizio dei diritti fondamentali, ma non possono invece incidere direttamente sul contenuto stesso di quei diritti, rigorosamente garantiti in eguale misura ai cittadini in quanto tali.
Secondo la Corte, tali strumenti dovrebbero, pertanto, promuovere l’eguaglianza dei punti di partenza e realizzare la pari dignità sociale di tutti i cittadini.

Alle stesse conclusioni è pervenuta inizialmente la Corte di Giustizia Europea, la quale nel caso Kalanke (Corte di Giustizia, 17.10.1995, C-93/450) ha giudicato in contrasto con la parità di trattamento garantita a lavoratori e lavoratrici una norma nazionale che imponga una priorità di promozione di candidati di sesso femminile, a parità di qualificazione professionale, quando le donne siano sottorappresentate nel settore interessato.
Secondo la Corte di Giustizia, quindi, le azioni positive devono limitarsi a migliorare la capacità delle donne di concorrere sul mercato del lavoro e di percorrere una carriera in condizioni di parità con gli uomini, ma non possono garantire direttamente un risultato che può essere legittimamente raggiunto soltanto garantendo pari opportunità tra sessi, altrimenti potrebbero nascere delle discriminazioni “alla rovescia”.

L’attuazione delle azioni positive è affidata sia a soggetti istituzionali (come il Comitato nazionale e le consigliere e i consiglieri di parità, le cui funzioni sono state ampliate dal D.Lgs. n. 196/2000), sia dai soggetti privati, ossia sindacati e soprattutto datori di lavoro.
La Legge n. 125 del 1991 non impone l’adozione di azioni positive, ma si limita a ribadirne la legittimità e a promuoverle.
Infatti, le azioni positive sono caratterizzate dalla temporaneità delle misure adottate, poiché le stesse vengono promosse e attuate fino a quando persista la specifica situazione di svantaggio cui si intende rimediare, e dalla volontarietà.
Il D.Lgs. n. 196/2000 ha previsto che il Comitato nazionale di parità formuli ogni anno un programma-obiettivo, nel quale siano indicate le tipologie di azioni positive che, di anno in anno, intende promuovere.

 

Le Consigliere di parità

La figura della Consigliera di parità era stata introdotta con l’art. 8 Legge n. 125 del 1991, il quale ha stabilito che tale soggetto, presente a livello nazionale, regionale e provinciale, è chiamato a presidiare la condizione della donna nel mercato del lavoro.
Il D.Lgs. n. 196/2000 (e ora il Capo Quarto del Decreto Legislativo n. 198 del 2006) ha introdotto una nuova disciplina strutturalmente unitaria delle consigliere e dei consiglieri di parità.
Il ruolo delle consigliere, alle quali è riconosciuta una sorta di priorità nella designazione e nella nomina – a parità di requisiti professionali – appare centrale oggi nella strategia di intervento per sanzionare le discriminazioni e per incentivare le azioni positive.
L’art. 1 del D.Lgs. n. 196/2000 prevede che le consigliere e i consiglieri di parità, effettivi e supplenti, a livello nazionale, regionale e provinciale, svolgono funzioni di promozione e controllo dell’attuazione dei principi di uguaglianza, di pari opportunità e di non discriminazione per donne e uomini nel lavoro.
Nell’esercizio di tali funzioni, le consigliere e i consiglieri sono pubblici ufficiali e hanno l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria per i reati di cui vengono a conoscenza.
La nomina delle consigliere e dei consiglieri di parità regionali e provinciali avviene con decreto del Ministro del Lavoro, di concerto con il Ministro per le Pari Opportunità, su designazione degli organi a tal fine individuati dalle regioni e dalle province.
Tali Consigliere/i devono possedere requisiti di specifica competenza ed esperienza pluriennale in materia di lavoro femminile, con riferimento alle normative sulla parità e pari opportunità e sul mercato del lavoro.
Il loro mandato ha durata di 4 anni ed è rinnovabile una sola volta.
Le funzioni delle consigliere di parità consistono nell’intraprendere ogni iniziativa utile ai fini del rispetto del principio di non discriminazione e della promozione di pari opportunità per lavoratrici e lavoratori.
In particolare svolgono tali funzioni mediante:

  1. rilevazione delle situazioni di squilibrio di genere e di violazioni della normativa in materia di parità;
  2. promozione di progetti di azioni positive e verifica di tali progetti;
    diffusione della conoscenza e scambio di buone prassi;
  3. verifica della coerenza della programmazione delle politiche di sviluppo territoriale rispetto agli indirizzi istituzionali in tema di pari opportunità;
  4. sostegno delle politiche attive del lavoro, comprese quelle formative, sotto il profilo della promozione e realizzazione di pari opportunità;
  5. promozione di politiche di pari opportunità da parte dei soggetti pubblici e privati operanti nel mercato del lavoro;
  6. partecipazione all’attività della Rete Nazionale delle consigliere;
  7. richiesta alle direzioni provinciali del lavoro di informazioni sulla situazione occupazionale maschile e femminile, in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione e promozione professionale, delle retribuzioni, delle condizioni di lavoro, della cessazione del rapporto di lavoro.

Gli Uffici delle Consigliere regionali e provinciali, ubicati rispettivamente presso le regioni e le province, sono inoltre stati dotati di opportune strutture regionali di assistenza tecnica e monitoraggio che forniscono alle stesse il supporto tecnico necessario a rilevare le situazioni di squilibrio di genere, ad elaborare i dati contenuti nei rapporti sulla situazione del personale, a promuovere e realizzare piani di formazione e riqualificazione professionale, a promuovere progetti di azioni positive (art. 3 D.Lgs. n. 196/2000).

 

Casistica di decisioni della Magistratura in tema di discriminazioni di genere

  1. Discriminazione di genere stabilire il medesimo requisito minimo di altezza per uomini e donne ai fini dell’assunzione di un capotreno.
    In una vicenda relativa a una lavoratrice che era rimasta esclusa dalla procedura di selezione per l’assunzione di personale con qualifica di capotreno, per difetto del requisito minimo di altezza, stabilito in 1,60 mt sia per gli uomini che per le donne – requisito che i giudici di merito avevano reputato non funzionale rispetto alle mansioni che sarebbero state assegnate alla ricorrente qualora fosse stata assunta -, la Cassazione ribadisce il principio per cui la previsione di un medesimo requisito minimo di statura per l’assunzione di uomini e donne configura una discriminazione indiretta ove detto limite risulti non oggettivamente giustificato, né pertinente e proporzionale alle mansioni derivanti dalla qualifica attribuita. La Corte conferma altresì la dichiarazione del diritto all’assunzione della lavoratrice illegittimamente esclusa e il conseguente ordine alla società di immetterla in servizio, trattandosi delle uniche pronunce idonee a rimuovere gli effetti lesivi del comportamento illegittimo, in linea con quanto previsto dall’art. 38, d.lgs. 198/06. (Cass. 3/7/2023 n. 18668, Pres. Leone Rel. Amendola, in Wikilabour, Newsletter n. 14/2023)
  2. Il mancato rinnovo di un contratto a termine a una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della Pubblica Amministrazione anche con riguardo alle prestazioni del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice – esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi – ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza. (Cass. 26/2/2021 n. 5476, Pres. Tria Est. Marotta, in Lav. nella giur. 2021, 551)
  3. Ancora sul regime probatorio in caso di discriminazione per sesso nel lavoro.
    La Corte ribadisce che il regime probatorio in caso di discriminazione lavorativa per sesso, stabilito dall’art. 40 D. Lgs. n. 198/2006, non comporta un’inversione dell’onere della prova che graverebbe sul datore di lavoro, ma una semplice attenuazione dello stesso a carico della persona discriminata, il cui adempimento fa scattare l’onere del datore di provare la non discriminazione. Nel caso esaminato, una lavoratrice aveva lamentato la mancata conferma dopo un periodo di apprendistato, diversamente da altri apprendisti maschi e aveva sostenuto che tale dato statistico fosse sufficiente a invertire l’onere della prova. Viceversa la Corte lo ha escluso, essendo stato accertato in giudizio che, in un arco ragionevole di tempo (4 mesi), l’impresa aveva assunto apprendisti di ambo i sessi, non confermando poi alcuni di essi, senza sostanziali differenze tra sessi. (Cass. 15/6/2020 n. 11530, Pres. Nobile Rel. Pagetta, in Wikilabour, Newsletter n. 13/2020)
  4. L’art. 40, D.Lgs. n. 198/2006 disciplina un regime probatorio attenuato: se è vero che il convenuto deve fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, è però vero che tale onere sorge solamente se il ricorrente abbia fornito al giudice elementi fattuali – desunti anche da dati di carattere statistico – relativi ai comportamenti denunciati come discriminatori, purché siano idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso o della maternità. (Cass. 15/6/2020 n. 11530, Pres. Nobile Rel. Pagetta, in Lav. nella giur. 2020, 1096)
  5. La direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevede il diritto a un’integrazione della pensione per le donne che abbiano avuto almeno due figli biologici o adottati e siano titolari, nell’ambito di un regime del sistema di previdenza sociale nazionale di pensioni contributive di invalidità permanente, mentre gli uomini che si trovano in una situazione identica non hanno diritto a una siffatta integrazione della pensione. (Corte di Giustizia 12/12/2019, C-450/18, Pres. Bonichot Rel. Safjan, con nota di L. Di Cataldo, “Le azioni positive alla prova delle trasformazioni sociali: un altro caso di discriminazione diretta a danno degli uomini?”, 339)
  6. La nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro» contenuta all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78/Ce del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico. (Corte di Giustizia 23/4/2020, C-507/18, Pres. Lenaerts Rel. Jarukaitis, in Riv. It. Dir. lav. 2020, con nota di M. Peruzzi, “Dichiarazioni omofobe e diritto antidiscriminatorio: conferme e limiti della giurisprudenza UE nella sentenza Taormina”, 360)
  7. L’art. 3 co. 7 d.l. n. 64/2010 convertito in l. n. 100/2010, con il quale viene uniformata a 45 anni l’età pensionabile dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, e viene agli stessi riconosciuto, in via transitoria, il diritto d’opzione per la permanenza in servizio entro i previgenti limiti massimi di pensionamento di vecchiaia (47 anni per le donne e 52 per gli uomini) introduce una discriminazione diretta in ragione del genere vietata dalla dir. n. 2006/54. (Cass. 17/5/2018 n. 12108, Pres. Bronzini Est. Lorito, in Riv. it. dir. lav. 2018, con nota di V. Brino, “Età pensionabile, età lavorativa e diritto d’opzione: un caso di discriminazione diretta in ragione del genere”, 628)
  8. L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa di uno Stato membro che, nel caso di lavoro a tempo parziale verticale, escluda i giorni non lavorati dal calcolo dei giorni di contribuzione, con conseguente riduzione del periodo di erogazione della prestazione di disoccupazione, quando la maggior parte dei lavoratori a tempo parziale verticale sia costituita da donne che subiscano le conseguenze negative di tale normativa. (Corte di Giustizia 9/11/2017, C-98/15, Pres. E Rel. Sharpston, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di G. Braico, “Part-time verticale e indennità di disoccupazione: quale parità di trattamento?”, 100)
  9. L’articolo 19, paragrafo 1, della direttiva 2006/54/C del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, dev’essere interpretato nel senso che esso si applica a una situazione come quella oggetto del procedimento principale, in cui una lavoratrice in periodo di allattamento contesta, dinanzi a un organo giurisdizionale o dinanzi a qualsiasi altro organo competente dello Stato membro interessato, la valutazione dei rischi associati al suo posto di lavoro, in quanto non sarebbe stata effettuata conformemente all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. (Corte di Giustizia 19/10/2017, C-531/15, Pres. Da Cruz Vilaça, Rel. Biltgen, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di F. Coppola, “Il diritto della lavoratrice all’allattamento del figlio”, 111)
  10. Le disposizioni della direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 29 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, come modificata dalla direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002, vanno interpretate nel senso che ostano a una normativa di uno Stato membro che subordina l’ammissione dei candidati al concorso per l’arruolamento alla scuola di polizia di detto Stato membro, indipendentemente dal sesso di appartenenza, a un requisito di statura minima di m. 1,70, ove tale normativa svantaggi un numero molto più elevato di persone di sesso femminile rispetto alle persone di sesso maschile e non risulti idonea e necessaria per conseguire il legittimo obiettivo che essa persegue. (Corte di Giustizia 18/10/2017, C-409/16, Pres. E Rel. Silva de Lapuerta, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di M. Matarese, “Ancora sul divieto di discriminazione indiretta di genere e i requisiti di altezza minimi nelle assunzioni”, 138)
  11. In presenza di un criterio di formazione di una graduatoria per trasferimenti di lavoratori basato sulla base di un’effettiva prestazione lavorativa, costituisce discriminazione di genere l’esclusione delle ore di assenza dal lavoro a congedo di maternità e a interdizione anticipata per gravidanza. (Trib. Siracusa 10/5/2017, n. 378, Est. Favale, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di L. Lazzeroni, “Azione antidiscriminazione e decadenza dalla impugnazione del trasferimento della lavoratrice”, 522)
  12. Non è soggetto a termini di decadenza il diritto a far valere, ex art. 38 del d.lgs. 198/2006, la discriminazione insita nei criteri adottati come presupposto per il trasferimento di lavoratori ad altra unità produttrice. (Trib. Siracusa 10/5/2017, n. 378, Est. Favale, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di L. Lazzeroni, “Azione antidiscriminazione e decadenza dalla impugnazione del trasferimento della lavoratrice”, 522)
  13. Il d.l. 64/2010, art. 3, comma 7, convertito con la l. 100/2010, potrebbe porsi, stante lo specifico e caratterizzante riferimento al sesso e all’età, in conflitto con il principio di non discriminazione che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, ogni fonte strictosensu e, anzi, fonte di diritto primario, sancisce all’art. 21, con l’inserimento della non discriminazione tra i diritti fondamentali della persona e, quindi, nell’ambito dei principi generali del diritto comunitario, nonché con il successivo art. 23; potrebbe porsi altresì in contrasto con l’art. 157 TFUE il quale sancisce il principio di parità retributiva fra uomini e donne; nonché con la Direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. (Cass. 9/3/2017, n. 6101, Pres. Napoletano Est. Lorito, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di A. Curcio, “Un caso di rinvio pregiudiziale (e di mancata disapplicazione) in tema di discriminazione di genere”, 860)
  14. Costituisce una discriminazione di genere la mancata equiparazione delle assenze per congedo di maternità, per congedi parentali e per permessi per malattia dei figli alla presenza effettiva in servizio ai fini della quantificazione del premio di risultato. (Trib. Torino 26/10/2016, Est. Filicetti, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di M. Peruzzi, “Criteri di distribuzione dei premi di risultato e possibili discriminazioni retributive di genere”, 278)
  15. Non costituisce discriminazione di genere indiretta per motivi di genere la situazione in cui le lavoratrici in regime di lavoro a tempo parziale risultino maggiormente pregiudicate rispetto ai lavoratori part-time, all’esito di una procedura selettiva di progressione economica, quando, per effetto dell’applicazione di uno dei criteri stabiliti nel bando, il punteggio è parametrato alle ore di attività lavorativa prestata. (Corte app. Torino 18/10/2016, Pres. Girolami Est. Milani, in Lav. giur. Lav. prev. soc. 2017, S. Sardaro, “Discriminazione indiretta: quale tutela per le lavoratrici part-time?”, 286)
  16. Sussiste una discriminazione per ragioni di sesso con violazione dell’art. 2087 c.c. in caso di ripetute molestie sessuali, verbali e fisiche, accertate anche in sede penale, da parte del padre della legale rappresentante della società datrice di lavoro, che di fatto operava come titolare dell’azienda, con conseguente giusta causa di dimissioni e condanna al risarcimento del danno biologico e non patrimoniale da discriminazione ex art. 38 d.lgs. n. 198/2006. (Trib. Firenze 20/4/2016, Giud. Papait, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di R. Diamanti, “Le molestie sessuali, la discriminazione, l’abuso”, 63)
  17. Il maggior numero di domande di assunzione da parte delle donne rispetto a quelle presentate dagli uomini può giustificare che sia presente un numero più elevato di lavoratrici, ma non giustifica la avvenuta assunzione di personale femminile quasi esclusivamente a tempo parziale, mentre la assunzione degli uomini è avvenuta quasi esclusivamente a tempo pieno. (Corte app. Milano 9/11/2012, Pres. Curcio Rel. Sala, in Lav. nella giur. 2013, 207)
  18. È illegittima, quale discriminazione indiretta a sfavore della lavoratrice, la disposizione del d.m. n. 88/1999 del Ministero dei trasporti e della navigazione nella parte in cui prevede quale requisito per la partecipazione a un concorso per l’assunzione presso un’azienda di trasporti la statura minima di m. 1,55 senza distinguere tra il sesso dei partecipanti al concorso, laddove la statura inferiore non incida – tenuto conto delle specifiche mansioni della qualifica oggetto del concorso – sulle esigenze del servizio e la sicurezza degli impianti. (Cass. 12/1/2012 n. 234, Pres. Vidiri Rel. Tricomi, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Giorgio Mannacio, 361)
  19. La direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che non sono escluse dal suo ambito di applicazione ratione materiae le pensioni complementari di vecchiaia come quelle versate ai propri ex dipendente dalla Freie und Hansestadt Hamburg, in quanto esse costituiscono retribuzione ai sensi dell’art. 157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. (Corte di Giustizia, Grande Sez., 10/5/2011, C-147/08, Pres. Skouris Rel. Svaby, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di M. Borzaga, “Unioni civili, trattamenti pensionistici e discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale: fin dove può spingersi il diritto comunitario del lavoro?”, 215)
  20. Il diritto alla parità di trattamento può essere rivendicato da un singolo non prima della scadenza del termine di trasposizione della direttiva 2000/78/CE, ovvero a partire dal 3 dicembre 2003, senza necessità di attendere che il legislatore nazionale renda il diritto interno conforme a quello comunitario. (Corte di Giustizia, Grande Sez., 10/5/2011, C-147/08, Pres. Skouris Rel. Svaby, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di M. Borzaga, “Unioni civili, trattamenti pensionistici e discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale: fin dove può spingersi il diritto comunitario del lavoro?”, 215)
  21. La clausola del contratto collettivo che subordini la concessione di un premio aziendale alla presenza effettiva in servizio per un numero minimo di giorni deve ritenersi illegittima e discriminatoria, determinando una situazione di ingiustificato svantaggio in capo alle lavoratrici madri, sia rispetto ai colleghi maschi sia rispetto alle colleghe non in stato di gravidanza. (Trib. Firenze 15/2/2011, Giud. Taiti, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Luca Iero, 1046)
  22. Deve essere rimessa alla Corte di Giustizia mediante rinvio pregiudiziale ex art. 267 Tfue la questione se l’art. 15 della direttiva 2000/43/Ce del 29/6/2000, nella parte in cui prescrive che le sanzioni irrogate devono essere effettive proporzionate e dissuasive, essendo riferibile anche alla rimozione degli effetti e all’adozione di un efficace piano di rimozione, debba essere interpretato nel senso di ricomprendere, fra le discriminazioni accertate e gli effetti da rimuovere anche al fine di evitare ingiustificate discriminazioni alla rovescia, tutte le violazioni incidenti sui destinatari della discriminazione, anche se non siano parte della controversia. In caso di risposta positiva, la Corte di Giustizia deve altresì essere investita della questione – non riguardante il soggetto in causa nel giudizio a quo – se gli artt. 2 e 6 del Tue, gli artt. 18, 45 e 49 del Tfue e gli artt. 1, 21 e 34 della Carta di Nizza ostino a una normativa interna che prevede per i cittadini comunitari l’obbligo di rendere dichiarazione di appartenenza o aggregazione etnica a uno dei tre gruppi linguistici presenti in Alto Adige/Sudtirol e di risiedere o lavorare nel territorio provinciale da almeno 5 anni per accedere a un “sussidio casa”. (Trib. Bolzano 24/11/2010, ord., est. Puccetti, in D&L 2010, con nota di Alberto Guariso, “Un’ipotesi di contrasto tra Cedu e norme interne di fondamento costituzionale”, 1179)
  23. Costituisce discriminazione diretta di genere il rifiuto da parte della pubblica amministrazione di stipulare un contratto a termine nei confronti di candidata risultata idonea in base a graduatoria, determinato dallo stato di gravidanza di quest’ultima; ne consegue, oltre all’eventuale danno patrimoniale, un danno non patrimoniale ravvisabile nella frustrazione dovuta alla perdita di un’occasione lavorativa e nella presumibile tensione e sofferenza provocata nel delicato periodo della gestazione, equitativamente quantificabile in una somma pari all’importo delle retribuzioni che sarebbero state percepite nel caso in cui il rapporto fosse stato attivato. (Trib. Prato 10/9/2010, Est. Serra, in D&L 2010, con nota di Lisa Amoriello, “La discriminazione di genere nella fase dell’accesso al lavoro alle dipendenze della PA”, 1063)
  24. Poiché la pubblicazione della sentenza su un quotidiano a spese del datore di lavoro autore della discriminazione ha una funzione riparatoria del danno, la relativa richiesta formulata in giudizio dalla vittima delle condotte illegittime non può essere accolta qualora la vicenda non abbia assunto rilievo pubblico e non sia dunque necessario ripristinare, in pubblico, la realtà dei fatti. (Trib. Prato 10/9/2010, Est. Serra, in D&L 2010, con nota di Lisa Amoriello, “La discriminazione di genere nella fase dell’accesso al lavoro alle dipendenze della PA”, 1063)
  25. Poiché la procedura ex art. 38 D.Lgs. 11/4/06 n. 198 trova applicazione solo in relazione alle ipotesi di discriminazione di genere previste dal 1° comma della norma stessa, la relativa azione non è esperibile laddove venga in contestazione la sospensione in Cig della lavoratrice durante il periodo di tutela di cui all’art. 54 D.Lgs. 26/3/01 n. 151. (Trib. Milano 24/5/2010, ord., Est. Pattumelli, in D&L 2010, con nota di Alberto Guariso, “L’azione speciale ex art. 38 Codice Pari Opportunità dopo la novella del 2010: ancora un’azione zoppa?”, 811)
  26. Non costituisce discriminazione per ragioni di genere la sospensione in Cig della lavoratrice madre durante il periodo di cui all’art. 54 D.Lgs. 26/3/01 n. 151 qualora il datore di lavoro dimostri che la mancata sospensione di altri addetti al medesimo reparto risulta giustificata dalle differenti condizioni degli stessi (nella specie il giudice ha tra l’altro considerato valida giustificazione della sospensione del lavoro, per cessazione della commessa cui la dipendente era addetta, il rifiuto della stessa di accettare una riduzione salariale di 350 euro mensili posta dalla società quale condizione per l’assegnazione ad altra commessa di lavoro. (Trib. Milano 24/5/2010, ord., Est. Pattumelli, in D&L 2010, con nota di Alberto Guariso, “L’azione speciale ex art. 38 Codice Pari Opportunità dopo la novella del 2010: ancora un’azione zoppa?”, 811)
  27. E’ vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo d’attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale. (Cons. St. 10/5/2010 n 2754, Pres. Baccarini Rel. F. Caringella, in Lav. nella giur. 2010, con commento di Raffaele Squeglia, 931)
  28. Integra un trattamento discriminatorio di genere in violazione del principio comunitario di parità retributiva tra uomini e donne l’art. 7 della L. 29/7/71 n. 587 (disciplinante il Fondo speciale di previdenza, costituito presso l’Inps, per gli impiegati dipendenti delle società titolari del servizio di riscossione nazionale) nella parte in cui subordina la facoltà di richiedere il rimborso pari al 75% dei contributi versati – oltre che al conseguimento del requisito contributivo minimo per la pensione di anzianità e alla cessazione dal servizio presso esattorie e ricevitorie – alla proposizione della domanda “entro il quinto anno precedente il compimento dell’età pensionabile secondo le norme del Fondo”; ne segue l’obbligo del giudice di disapplicare la norma nazionale in quanto in contrasto con il diritto comunitario. (Trib. Pisa 6/5/2010, Est. Tarquini, in D&L 2010, con nota di Yara Serafini, “Fondo speciale esattorie e discriminazione di genere”, 1171)
  29. Qualora il dipendente, che agisce in giudizio per far valere una discriminazione di genere per mancata assunzione determinata dallo stato di gravidanza, fornisca serie allegazioni di fatto a sostegno della domanda, spetta al datore di lavoro dimostrare l’insussistenza della discriminazione (nella specie la Corte ha ritenuto tali da consentire l’inversione dell’onere della prova le seguenti allegazioni: la ricorrente era l’unica a non essere stata assunta tra 13 selezionati: la ricorrente operava già sulla medesima posizione con contratto di lavoro interinale; il datore di lavoro era probabilmente venuto a conoscenza dello stato di gravidanza tramite l’esame delle urine effettuato in sede di visita di idoneità e certamente superfluo in relazione alle mansioni da svolgere; solo la ricorrente e una collega erano state sottoposte a un ulteriore test psicoattitudinale che solo per la ricorrente aveva dato esito negativo. (Corte App. Milano 17/6/2009, Pres. Salmeri Est. Accardo, in D&L 2009, con nota di Alberto Guariso, “Ancora sulle conseguenze del comportamento discriminatorio: nodi irrisolti anche dopo il D.Lgs. 5/10”, 972)
  30. In ipotesi di discriminazione di genere consistente nella mancata assunzione determinata dallo stato di gravidanza, il Giudice non può procedere alla costituzione del rapporto ex art. 2932 c.c., che è applicabile solo quando esista un obbligo legale di contrarre a condizioni predeterminate, ma deve limitarsi a condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno determinato equitativamente (nella specie è stato riconosciuto un importo pari a un’annualità di retribuzione come percepita da una collega assunta nell’ambito della medesima selezione). (Corte App. Milano 17/6/2009, Pres. Salmeri Est. Accardo, in D&L 2009, con nota di Alberto Guariso, “Ancora sulle conseguenze del comportamento discriminatorio: nodi irrisolti anche dopo il D.Lgs. 5/10”, 972)
  31. La dimostrazione della discriminazione in ragione del sesso improntata al criterio di riparto degli oneri di cui all’art. 40 D.Lgs. 11/4/06 n. 198 può risultare da indici quali demansionamento, negazione di congedi parentali, contestazioni disciplinari, mancata corresponsione del premio di produzione, illegittimo licenziamento per g.m.o.; costituiscono dati statistici ex art. 40 D.Lgs. 11/4/06 n. 198 le vicende di altre dipendenti della datrice parimenti discriminate in quanto madri. (Trib. Pisa 2/4/2009, Est. Santoni, in D&L 2009, con nota di Chiara Zambrelli, “In tema di licenziamento di lavoratrice madre”, 801)
  32. L’art. 141 Ce deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale in materia di retribuzione dei dipendenti pubblici come quella di cui alla causa principale che, da un lato, definisce le ore straordinarie effettuate sia dai dipendenti a tempo pieno sia da quelli a tempo parziale come ore che essi svolgono oltre il loro orario individuale di lavoro e, dall’altro, retribuisce tali ore secondo una tariffa inferiore alla tariffa oraria applicata alle ore effettuate entro l’orario individuale di lavoro, in modo tale che i dipendenti a tempo parziale sono retribuiti in modo meno vantaggiosi dei dipendenti a tempo pieno per quanto riguarda le ore che effettuano oltre il loro orario individuale di lavoro e nei limiti del numero di ore dovute da un dipendente a tempo pieno nell’ambito del suo orario, nel caso in cui: tra l’insieme dei lavoratori cui si applica tale normativa, sia danneggiata una percentuale notevolmente più elevata di lavoratori di sesso femminile che di lavoratori di sesso maschile; la disparità di trattamento non sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. (Corte di Giustizia CE 6/12/2007, causa C-300/06, Pres. Tizzano Rel. A. Borg Barthet, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso e Giovanni Paganuzzi, “Part-time e discriminazione: la Corte di Giustizia e la “verifica fattuale” delle norme nazionali”, 73)
  33. L’espressione anzianità di servizio di cui agli artt. 6 e 7 L. 30/12/71 n. 1204 (ora artt. 22 e 32 D.Lgs. 26/3/01 n. 151 TU in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità) è indicativa di una nozione unitaria e conseguentemente vieta al datore di lavoro di interpretare una clausola collettiva, che sclue dal computo dell’anzianità di servizio utile per progressioni automatiche di carriera le assenze volontarie (nella specie l’art6. 18 Ccnl Casse di risparmio), come rifertita anche alle assenze dal lavoro per fruizione dell’ex astensione facoltativa; questa equiparazione infatti viola l’art 15 SL, in quanto costituisce patto volto a discriminare nell’assegnazione delle qualifiche o a recare altrimenti pregiudizio a un lavoratore in ragione del suo sesso e costituisce discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 4, comma 2°, L. 10/4/91 n. 125 (ora art. 25, 2° comma, D.Lgs. 11/4/06 n. 198, Codice delle pari opportunità tra uomo e donna). (Trib. Prato 21/11/2007, Est. Rizzo, in D&L 2008, con nota di Fabrizio Amato e Irene Romoli, “Assenza per maternità e anzianità di servizio: profili individuali e collettivi della discriminazione di genere; una concreta ipotesi di definizione di un piano di rimozione delle discriminazioni”. 574)
  34. La nozione oggettiva delle discriminazioni di genere ex art. 4, 1° e 2° comm, L. 10/4/91 n. 125 (ora art. 25 D.Lgs. 11/4/06 n. 198) implica l’irrilevanza dell’intento discriminatorio e azione in giudizio di tipo collettivo della Consigliera di Parità (art. 4, 9° comma, L. 125/91, ora art. 37, comma 3°, D.Lgs. 198/06), ha come presupposto non i singoli comportamenti discriminatori in ragione del sesso ai danni di soggetti individuati, bensì fatti, patti o comportamenti discriminatori, idoeni a svantaggiare, in ragione del sesso, una collettività di persone, anche non individuabili in modo immediato; tale azione collettiva è ammissibile anche quando venga proposta contestualmente con l’intervento in giudizio a sostegno delle lavoratrici, ai sensi dell’art. 36, 2° comma, D.Lgs. 198/06, e può condurre all’emanazione dell’ordine di definizione del piano di rimozione delle discriminazioni accertate. (Trib. Prato 21/11/2007, Est. Rizzo, in D&L 2008, con nota di Fabrizio Amato e Irene Romoli, “Assenza per maternità e anzianità di servizio: profili individuali e collettivi della discriminazione di genere; una concreta ipotesi di definizione di un piano di rimozione delle discriminazioni”. 574)
  35. In materia di requisiti per l’assunzione, la previsione di un’altezza minima identica per gli uomini e per le donne è incostituzionale perché, presupponendo erroneamente l’insussistenza di diversità di statura mediamente riscontrabili tra uomini e donne, comporta una discriminazione indiretta a sfavore di queste ultime. (Cass. 13/11/2007 n. 23562, Pres. Ciciretti Est. Di Nubila, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Francesca Savino, “Discriminazione indiretta e requisito della statura minima per l’assunzione”, 563)
  36. Il principio di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori osta a una normativa nazionale che riservi alle sole addette alle pulizie – quindi, esclusivamente a donne – l’assunzione mediante contratto a tempo indeterminato per un lavoro a tempo parziale, poichè ne consegue una discriminazione indiretta a loro danno per ciò che riguarda le prospettive di inserimento nell’organico a tempo pieno. (Corte di Giustizia CE 10/3/2005 n. C-196/02, Pres. Jann Rel. Rosas, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Antonella Occhino, “La Corte di Giustizia torna sulla parità tra uomini e donne: l’astratta giustificabilità della discriminazione diretta”, 3)
  37. Il principio di parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori osta a una normativa nazionale che preveda un calcolo dell’anzianità di servizio dei lavoratori a tempo parziale pro quota in un caso in cui la totalità di tali lavoratori sia costituita da donne, derivandone una discriminazione indiretta a danno di queste; a meno che il datore di lavoro non provi che quel calcolo sia giustificato da fattori la cui obiettività dipende segnatamente dallo scopo perseguito, attraverso la considerazione dell’anzianità di servizio e, nel caso in cui si tratti di remunerare l’esperienza acquisita, dal rapporto tra la natura delle mansioni svolte e l’esperienza acquisita mediante l’espletamento di tali mansioni per un determinato numero di ore di lavoro. (Corte di Giustizia CE 10/3/2005 n. C-196/02, Pres. Jann Rel. Rosas, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Antonella Occhino, “La Corte di Giustizia torna sulla parità tra uomini e donne: l’astratta giustificabilità della discriminazione diretta”, 3)
  38. Il divieto oggettivo di discriminazione dei lavoratori, per ragioni collegate all’appartenenza ad un determinato sesso, opera sicuramente anche nei rapporti di lavoro autonomo, sulla base della Costituzione, dei principi generali dell’ordinamento e, in particolare, delle regole poste dal diritto comunitario. Discriminazione, infatti, come definita nel più recente intervento legislativo in materia (articolo 2 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) si ha quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (discriminazione c.d. diretta), ovvero quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (discriminazione c.d. indiretta). (Cass. 26/5/2004 n. 10179, Pres. Senese Rel. Picone, in Lav. e prev. oggi 2004, 1839)
  39. Costituisce discriminazione sessuale indiretta di natura collettiva nell’ambito della progressione di carriera, la richiesta, ai fini del conseguimento della qualifica superiore al quarto livello (c.c.n.l. settore metalmeccanico), di un titolo di studio di scuola tecnica superiore, trattandosi di un requisito che, seppure di carattere formalmente neutro, è riferibile solo al personale di sesso maschile, ove non risulti dimostrata l’incidenza di tale requisito sulla capacità a svolgere le mansioni superiori (nella specie, la società resistente non aveva mosso alcuna contestazione in ordine alle risultanze della prova statistica – fornita dalle ricorrenti ai sensi dell’art. 4, 5° comma, l. n. 125/91 – né addotto alcuna prova al fine di dimostrare l’insussistenza della discriminazione) (Trib. Catania 22/11/00, est. Maiore, in Foro it. 2001, pag. 1778)
  40. La società che ha posto in essere la condotta discriminatoria sessuale indiretta ha l’obbligo di predisporre, entro il termine di tre mesi, un piano di rimozione delle discriminazioni, mediante un criterio che faccia riferimento alla valutazione della professionalità pregressa ed escludendo ogni riferimento al possesso di diploma di scuola superiore (Trib. Catania 22/11/00, est. Maiore, in Foro it. 2001, pag. 1778)
  41. Il comportamento del dirigente che, in un contesto lavorativo caratterizzato da fastidiosi e rumoreggianti apprezzamenti da parte dei lavoratori maschi in ordine all’abbigliamento di una lavoratrice, inviti quest’ultima a modificare l’abbigliamento anziché invitare i lavoratori ad astenersi da comportamenti offensivi deve considerarsi illecito perché lesivo dei diritti di non discriminazione per motivi di sesso ai sensi degli artt. 3 Cost., 1 L. 903/77 e 4 L. 125/91, nonché sotto il profilo della violazione della dignità e della riservatezza della lavoratrice ex art. 2 Cost., con conseguente obbligo del datore di lavoro di risarcire il danno, ai sensi degli artt. 2049 e 2087 c.c., eventualmente da liquidarsi in via equitativa (nella fattispecie, il responsabile del reparto aveva detto alla lavoratrice di non indossare più la minigonna ed evitare vestiti troppo scollati, che turbavano gli addetti al reparto, invitandola a indossare una tuta da metalmeccanico) (Pret. Milano 12/1/95, est. Curcio, in D&L 1995, 349, nota VETTOR, Minigonna e discriminazione sessuale)