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Scheda sintetica
Il licenziamento disciplinare è una tipologia di recesso che ricomprende sia il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (art. 3 della legge 604/1966), vale a dire il licenziamento, con preavviso, causato da un “notevole inadempimento” del lavoratore ai suoi obblighi contrattuali, sia il licenziamento per giusta causa (art. 2119 c.c.), e cioè il licenziamento, senza preavviso, determinato da un comportamento disciplinarmente rilevante del lavoratore talmente grave da non consentire, nemmeno in via temporanea, la prosecuzione del rapporto di lavoro.
La giurisprudenza dominante considera sempre di natura disciplinare il licenziamento per giusta causa, con la precisazione che il licenziamento in esame è quello intimato a motivo di una condotta colpevole del lavoratore (in questi termini si è espressa fin dall’inizio: Corte Cost. 30/11/82 n. 204).
Sul punto è intervenuta anche la Corte di Cassazione a sezioni unite, secondo cui rimane assoggettato alla disciplina dettata dai primi tre commi dell’art. 7 della Legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) anche il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo fondato sulla violazione da parte del lavoratore degli obblighi scaturenti dal rapporto.
In altre parole, ogni qual volta il datore di lavoro reagisca con il licenziamento ad un inadempimento del lavoratore siamo di fronte ad un licenziamento disciplinare: indipendentemente dal fatto che il codice disciplinare applicato nell’azienda preveda o meno questa sanzione.
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che ogni qualvolta il datore di lavoro intenda licenziare un proprio dipendente per un inadempimento di quest’ultimo, deve necessariamente esperire la procedura prevista dall’art. 7 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), che deve essere applicata anche dalle cd. piccole imprese (ossia le imprese in cui operano fino a 15 dipendenti).
Così, sinteticamente, il datore di lavoro dovrà contestare il fatto, invitare il lavoratore a rendere le proprie giustificazioni e, infine, attendere cinque giorni dalla contestazione prima di adottare la sanzione.
Il mancato esperimento di tale procedura costituisce un vizio insanabile che comporta, secondo, il prevalente orientamento giurisprudenziale l’illegittimità del licenziamento intimato (Cass. 23/10/00, n. 13959; Cass. S.U. 1/6/87 n. 4823; Cass. 7/7/04 n. 12526; Cass. 7/9/93 n. 9390; Cass. 4/3/93 n. 2596).
A tutela del lavoratore, l’ordinamento italiano prevede specifiche conseguenze sanzionatorie per i licenziamenti disciplinari illegittimi.
A seguito dell’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 23/2015, in tema di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, attuativo della legge delega 183 del 2014 (c.d. Jobs Act), l’ordinamento applica sanzioni diverse a seconda che il licenziamento riguardi un lavoratore assunto prima o dopo il 7 marzo 2015. Tale distinzione è stata mantenuta anche dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. in l. 9 agosto 2018, n. 96 che si è limitato a modificare marginalmente il regime sanzionatorio previsto per la seconda categoria di lavoratori, aumentando l’importo delle indennità economiche da corrispondergli (si veda il paragrafo dedicato).
In particolare, per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 valgono le seguenti garanzie:
- se il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa viene intimato da un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali previste dall’art. 18 della legge 300/1970 (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale), si applicano i regimi di tutela previsti dallo stesso art. 18, così come modificato dalla riforma del mercato del lavoro del 2012, regimi che, in due specifiche ipotesi (insussistenza del fatto contestato o licenziamento intimato per un fatto che rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa), contemplano la possibilità che il datore di lavoro sia condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;
- al di sotto di tali soglie, trova invece applicazione il più blando regime di tutela previsto dall’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge 108/1990, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo diritto a percepire un indennizzo economico.
Ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in avanti si applicano, invece, le tutele previste dal Decreto legislativo n. 23/2015.
La nuova disciplina continua a distinguere tra lavoratori assunti presso imprese che superano le soglie numeriche fissate dall’art. 18 della legge 300/1970 e lavoratori assunti presso datori di lavoro che non raggiungono dette soglie. Rispetto alla disciplina previgente, tuttavia, il decreto legislativo 23/2015 si segnala per una significativa riduzione delle garanzie riconosciute ai lavoratori, soprattutto in ragione della sostanziale diminuzione delle ipotesi in cui il giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato.
In particolare, il decreto prevede che, in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, il datore di lavoro può essere obbligato a reintegrare il lavoratore (assunto presso un’impresa di maggiori dimensioni) solo allorché sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (esclusa ogni valutazione circa l’eventuale sproporzione del licenziamento).
Il decreto stabilisce peraltro che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti), si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti, e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento illegittimo.
Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
I lavoratori già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, seppur a oggi non interessati dalle novità normative, potranno comunque esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso un diverso datore di lavoro.
Normativa – Cosa fare – Tempi – A chi rivolgersi
Per informazioni dettagliate vedi scheda sul licenziamento individuale
I regimi di tutela applicabili in caso di licenziamento disciplinare illegittimo di un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015
L’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, e l’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della Legge 108/1990, disciplinano le conseguenze del licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del d.lgs. 23/2015, che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento ingiusto).
Dette norme distinguono, in primo luogo, a seconda che il licenziamento sia stato intimato nell’ambito di un’impresa che abbia sino a quindici dipendenti oppure nell’ambito di un’impresa che ne abbia almeno sedici.
Nel primo caso, e a prescindere dal vizio individuato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro a riassumere il dipendente entro il termine di tre giorni, oppure, in mancanza, a versargli un risarcimento, la cui misura viene determinata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità (tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e della condizione delle parti).
Nel secondo caso, invece, le conseguenze sanzionatorie sono stabilite dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, norma che ha subito radicali modifiche per effetto della legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro.
In particolare, l’art. 18, nella sua attuale formulazione, prevede che:
- quando non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa, il giudice applica la c.d. tutela reale attenuata (reintegrazione nel posto di lavoro e indennizzo commisurato alla retribuzione globale di fatto con il limite di 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo intercorrente dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione);
- nelle altre ipotesi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotta dal datore di lavoro, il giudice applica la c.d. tutela obbligatoria standard (ossia condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria in una misura compresa fra 12 e 24 mensilità della retribuzione globale di fatto, tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti, della dimensione dell’attività economica e del comportamento e condizioni delle parti);
- nel caso in cui il licenziamento disciplinare sia comminato senza il rispetto della procedura prevista dall’art. 7 della legge 300/1970, il giudice dichiara il licenziamento inefficace e applica la cd. tutela obbligatoria ridotta, condannando il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria compresa fra 6 e 12 mensilità della retribuzione globale di fatto e parametrata in base alla gravità del vizio formale o procedurale commesso.
Si sottolinea che, a seguito della riforma del 2012, il licenziamento disciplinare produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento previsto dall’art.7 St. Lav. è stato avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva.
I regimi di tutela applicabili in caso di licenziamento disciplinare illegittimo di un lavoratore assunto dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015
Il decreto legislativo 23/2015 continua a prevedere regimi di tutela differenti a seconda che il licenziamento illegittimo riguardi lavoratori assunti presso imprese che superano le soglie numeriche fissate dall’art. 18 della legge 300/1970 ovvero lavoratori assunti presso datori di lavoro che non raggiungono dette soglie.
A. Le tutele per i dipendenti di imprese che superano le soglie dimensionali previste dall’art. 18 della legge 300 del 1970
Per quanto riguarda i dipendenti di imprese di maggiori dimensioni, la nuova disciplina prevede che, in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, il giudice ordina la reintegrazione del lavoratore solo allorché sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, co. 2). Per espressa indicazione del legislatore, deve in ogni caso rimanere esclusa “ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
In questa ipotesi, il datore di lavoro è inoltre condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, e il dipendente ha diritto di percepire un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. Da tale indennità va dedotto sia quanto il lavoratore ha eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative (c.d. aliunde perceptum), sia le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (secondo i criteri indicati dall’art. 4, co. 1, lett. c), del decreto legislativo n. 181 del 2000). In ogni caso, l’indennità non può superare le 12 mensilità (non è invece prevista un’entità minima, al contrario delle altre ipotesi di licenziamento nullo o inefficace).
Fuori da tale ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa illegittimo il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che, in seguito alla modifica introdotta dal cd. decreto dignità, oscilla tra le 6 e le 36 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale).
Più in particolare, l’art. 3, co. 1, del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, allorché il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 2 mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio (la base di calcolo è costituita, anche in questo caso, dall’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).
In ogni caso, l’indennità non potrà essere inferiore a 6 mensilità, né potrà superare le 36 mensilità.
Al lavoratore spetta un mero indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
In questo caso, però, l’indennità risulta dimezzata: sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.
B. Le tutele per i dipendenti dei datori di lavoro che non soddisfano i requisiti dimensionali dell’art. 18 della legge 300 del 1970
L’art. 9 del decreto legislativo 23/2015 stabilisce che, nei confronti dei lavoratori dipendenti presso datori di lavoro che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18 della legge 300/1970, trova applicazione il medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Vale a dire che, in caso di licenziamento per giusta causa di un lavoratore occupato presso un datore di lavoro minore, allorché il giudice accerti l’illegittimità del provvedimento espulsivo, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un indennizzo economico (non assoggettato a contribuzione previdenziale) di importo pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio; in ogni caso, l’indennizzo non può essere inferiore a 3 mensilità, né può superare le 6 mensilità.
In caso di licenziamento illegittimo per violazione della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 300 del 1970, al lavoratore spetterà, invece, un’indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) pari a mezza mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 1 mensilità e un limite massimo di 6 mensilità.
C. L’offerta di conciliazione
Il decreto legislativo 23/2015 prevede una nuova procedura conciliativa, finalizzata a rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento, che prevede l’immediato pagamento di un indennizzo da parte del datore di lavoro.
In particolare, l’art. 6 del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento, il datore di lavoro, al fine di evitare il giudizio, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni), può convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative indicate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. (tra cui, in particolare, le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e dall’art. 76 del decreto legislativo 276 del 2003, e offrirgli un assegno circolare di importo pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 3 mensilità e non superiore a 27 mensilità (anche in questo caso l’ammontare dell’indennità è stato aumentato dal cd. decreto dignità).
Per incentivare questo tipo di soluzione, il legislatore ha previsto che detto indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale.
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.
Ai sensi dell’art. 9 del decreto, la procedura conciliativa si applica anche ai lavoratori assunti presso datori di lavoro che non raggiungono le soglie dimensionali fissate dall’art. 18 della legge 300/1970; in questo caso, tuttavia, l’importo dell’assegno offerto al lavoratore è dimezzato e non può in ogni caso superare le 6 mensilità.
Quando un inadempimento del lavoratore costituisce un fatto così grave da giustificare il licenziamento
In via generale, va detto che la maggior parte dei contratti collettivi indicano espressamente gli inadempimenti del lavoratore che costituiscono motivo di licenziamento.
La giurisprudenza, tuttavia, ritiene che per l’esercizio legittimo del potere di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo non è necessaria l’inclusione dei fatti contestati nel codice disciplinare, quando tali fatti, secondo la coscienza sociale, certamente legittimano l’inflizione della sanzione espulsiva.
Deve, inoltre, essere chiaro che, indipendentemente dalla qualificazione ad opera dei contratti collettivi del comportamento contestato, il Giudice chiamato a verificare la legittimità di un licenziamento disciplinare è tenuto a valutare l’esistenza di una giusta proporzione tra addebito e sanzione adottata.
La casistica sul punto è quanto mai varia, tuttavia qualche esempio potrà essere utile.
- Il protrarsi dell’assenza ingiustificata per un periodo superiore a quello contrattualmente previsto non è sufficiente a configurare una giusta causa di licenziamento dovendo il giudice tener conto della validità delle giustificazioni addotte: ne consegue l’illegittimità del licenziamento intimato per avere il lavoratore omesso di giustificare l’assenza causata da carcerazione preventiva (Cass. 23/1/86 n. 433).
- E’ illegittimo il licenziamento comminato per avere il dipendente svolto prestazioni lavorative a favore di terzi durante l’assenza per malattia quando risulti certo che in nessun modo tali prestazioni possono avere compromesso la guarigione o aggravato lo stato morboso (Trib. Milano 31/5/88)
- Prestazioni di lavoro occasionali e sporadiche dirette a conseguire modesti introiti nel periodo di fruizione del trattamento di cassa integrazione guadagni non sono tali da far venir meno il rapporto fiduciario e quindi non consentono il licenziamento del dipendente per giusta causa (Trib. Nocera Inferiore 16/11/85).
- L’utilizzazione sporadica della autovettura dell’azienda o biglietti d’aereo per fini personali non costituisce giustificato motivo di licenziamento quando, secondo la esclusiva valutazione del giudice di merito, si tratti di comportamenti tollerati dall’azienda (Cass. 4/5/85 n. 2815)
- Non ogni fatto configurato dalla legge penale come reato costituisce giusta causa di licenziamento, dovendosi, invece, valutare, caso per caso, se la sanzione civile del licenziamento è proporzionata alla gravità del fatto (Cass. 19/12/84 n. 476).
- Infine, sempre in via generale è stata affermata l’irrilevanza sotto il profilo disciplinare di comportamenti del lavoratore che, pur essendo in qualche misura occasionati dal rapporto di lavoro, non siano, tuttavia, direttamente o indirettamente riferibili al rapporto di lavoro (Trib Milano 16/2/88). In quest’ottica è stata affermata l’illegittimità del licenziamento disciplinare adottato nei confronti di un dipendente che intrattiene una relazione adulterina esternamente all’azienda e fuori dall’orario di lavoro (Trib Torino 28/10/85).
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di licenziamento disciplinare
In genere
- Il termine stabilito dal CCNL per la comunicazione del licenziamento disciplinare ha natura decadenziale.
Solo tutela indennitaria se il licenziamento è comunicato con pochi giorni di ritardo. Il caso riguarda una lavoratrice alla quale la società datrice di lavoro aveva inviato due volte la medesima lettera di licenziamento per giusta causa: una prima volta tempestivamente, ma mai giunta a destinazione in quanto inviata a un indirizzo errato; una seconda volta, dieci giorni dopo la scadenza del termine stabilita dal CCNL, andata a buon fine. Nel conseguente giudizio, Tribunale e Corte d’appello avevano accolto la domanda di reintegrazione della lavoratrice, in ragione della colpevole mancata comunicazione del licenziamento nei termini. Investita del ricorso del datore di lavoro, la Cassazione osserva che: (i) per costante giurisprudenza, il compimento da parte del soggetto onerato dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione ha l’effetto di impedirne la decadenza a condizione che il procedimento vada a buon fine o, in alternativa, che l’esito negativo del procedimento non sia imputabile al soggetto onerato; (ii) nel caso di specie, tale condizione non risulta soddisfatta, essendo stato accertato in giudizio che la prima lettera non è giunta a destinazione per un errore colpevole del datore di lavoro, che aveva indicato un indirizzo sbagliato. Con riguardo alle conseguenze sanzionatorie, la Corte richiama l’orientamento giurisprudenziale recente, secondo il quale il mancato rispetto dei termini procedimentali comporta l’applicazione della mera tutela indennitaria, mentre una tutela maggiore può conseguire solo in caso di ritardi notevoli e ingiustificati, che ledono interessi sostanziali e l’affidamento legittimo del lavoratore Ciò premesso, la Corte, attribuendo rilevanza alla seconda comunicazione del licenziamento, intervenuta dopo la decadenza del potere di licenziare, applica al caso in esame la mera tutela indennitaria, in ragione dei pochi giorni di ritardo della seconda comunicazione, senza confrontare peraltro tale soluzione col tenore testuale della norma contrattuale che prevede la definitiva archiviazione del procedimento disciplinare in caso di inosservanza del termine. (Cass. 21/4/2023 n. 10802, Pres. Raimondi Rel. Ponterio, in Wikilabour, Newsletter n. 9/23) - In materia di licenziamenti disciplinari, nell’ipotesi in cui un comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia configurato dal contratto collettivo come infrazione disciplinare cui consegua una sanzione conservativa, il giudice non può discostarsi da tale previsione (trattandosi di condizione di maggior favore fatta espressamente salva dall’art. 12, L. n. 604 del 1966), a meno che non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. (Nella specie, la S.C., ha confermato la sentenza di merito che, nell’escludere che l’omessa comunicazione da parte del responsabile di un reparto, della sistematica manomissione dei dispositivi di rallentamento della velocità dei carrelli potesse rientrare nel campo di applicazione dell’art. 69 C.C.N.L. Industria Alimentare – alla cui stregua è punita con sanzione conservativa la mancata tempestiva comunicazione al superiore dell’esistenza di guasti o irregolarità di funzionamento dei macchinari -, vi aveva ravvisato il medesimo grave disvalore dell’ipotesi, esemplificata nel citato C.C.N.L., di “danneggiamento volontario o messa fuori opera di dispositivi antinfortunistici”. (Cass. 7/5/2020 n. 8621, Pres. Di Cerbo Est. Boghetich, in Lav. nella giur. 2020, 994)
- La previsione dell’art. 18, co. 4, l. n. 300/1970, secondo cui il giudice deve applicare la tutela reintegratoria attenuata per licenziamento ingiustificato nel caso in cui «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», è riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui la condotta contestata al lavoratore sia tipizzata dal codice disciplinare del contratto collettivo, in quanto soltanto in tale evenienza la non irrogabilità di un licenziamento è chiaramente conoscibile in anticipo dal datore di lavoro (la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che, tenuto conto di una previsione del ccnl che comminava una sanzione conservativa nel caso di «abbandono del posto di lavoro», aveva applicato la tutela reintegratoria in un caso di specie in cui il lavoratore licenziato non si era limitato ad abbandonare il posto di lavoro durante l’orario notturno ma si era recato in un altro luogo dello stabilimento e si era lì messo a dormire, venendo svegliato soltanto dall’improvviso sopralluogo, alcune ore dopo, del superiore gerarchico). (Cass. 9/5/2019 n. 12365, Pres. Di Cerbo Rel. Boghetich, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di R. Del Punta, “Ancora sul regime del licenziamento disciplinare ingiustificato: le nuove messe a punto della Cassazione”, 494)
- È illegittimo il licenziamento comminato al lavoratore a seguito di avvenimento che lo stesso Ccnl punisce con l’applicazione di una mera sanzione conservativa. Il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificato motivi soggettivi di licenziamento oltre quanto stabilito dalla autonomia delle parti. (Cass. 5/5/2017, n. 11027, Pres. Amoroso Est. Manna, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di O. Genovesi, “Licenziamenti disciplinari e previsioni contrattuali”, 596)
- Un licenziamento disciplinare erogato in carenza di potere costituisce un’ipotesi di insussistenza del fatto contestato, con applicazione della tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18, c. 4, della legge 20 maggio 1970, n. 300. (Trib. Bari 6/12/2016, n. 9380, Giud. Vernia, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di V. Speziale, “La carenza di potere disciplinare per violazione del ne bis in idem e a seguito di conciliazione sindacale come ipotesi di insussistenza del fatto contestato”, 295)
- È illegittimo, per carenza del potere disciplinare derivante dalla violazione del principio del ne bis in idem e da una conciliazione in sede sindacale, il licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore in conseguenza della condanna penale con interdizione dai pubblici uffici per un fatto per il quale il datore di lavoro lo aveva già sanzionato con una sospensione di 10 giorni e dopo che le parti avevano sottoscritto un verbale di conciliazione connesso alla sanzione conservativa (nel caso di specie il lavoratore aveva effettuato un trasloco personale con l’ausilio di dipendenti del datore di lavoro e, dopo la comminazione della sospensione e la sottoscrizione della conciliazione, era stato condannato in sede penale con interdizione dai pubblici uffici, in presenza del ccnl Poste che ammette il recesso per giusta causa. (Trib. Bari 6/12/2016, n. 9380, Giud. Vernia, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di V. Speziale, “La carenza di potere disciplinare per violazione del ne bis in idem e a seguito di conciliazione sindacale come ipotesi di insussistenza del fatto contestato”, 295))
- L’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione oggettiva, e con modalità nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto correttamente inquadrato nel legittimo diritto di critica l’invio al datore di lavoro di una lettera di denuncia del lavoratore di comportamenti scorretti e offensivi posti in essere dal superiore gerarchico in proprio danno, con allegato un parere “pro veritate” di un penalista). (Cass. 26/10/2016 n. 21649, Pres. Nobile Est. Patti, in Lav. nella giur. 2017, 197)
- In tema di sanzioni disciplinari, il giudice di merito, investito del giudizio circa la legittimità di tali provvedimenti, deve valutare la sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, tenendo a tal fine conto sia delle circostanze oggettive che della condotta del lavoratore; l’apprezzamento di merito della proporzionalità tra l’infrazione e sanzione sfugge a censure in sede di legittimità se adeguatamente e congruamente motivato. Consegue che non è censurabile la decisione di merito che abbia ritenuto, con motivazione adeguata ed esaustiva, eccessiva la sanzione espulsiva quale conseguenza di danneggiamento di beni extra aziendali (auto del collega) avvenuto al di fuori dell’orario di lavoro, cui sia seguita la riappacificazione tra i due dipendenti. (Cass. 25/8/2016 n. 17337, Pres. Amoroso Est. Manna, in Lav. nella giur. 2016, 1122)
- La violazione della previsione della contrattazione collettiva, che prevede un termine per l’adozione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare (nella specie sei giorni successivi alle giustificazioni addotte dal lavoratore ex art. 8, comma 4, CCNL metalmeccanici), è idonea a integrare una violazione della procedura di cui all’art. 7, L. n. 300/1970, con conseguente operatività della tutela prevista dall’art. 18, comma 6 e della medesima legge. (Cass. 16/8/2016 n. 17113, Pres. Di Cerbo Est. Amendola, in Lav. nella giur. 2016, 1123)
- In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la mancanza degli elementi della fattispecie di illecito determina la insussistenza del fatto addebitato al lavoratore. (Cass. 13/10/2015 n. 20545, Pres. ed Est. Roselli, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Antonio Federici, “In tema di insussistenza del fatto nel licenziamento disciplinare”, 31)
- In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla tutela reintegratoria anche a seguito della legge Fornero. (Cass. 13/10/2015 n. 20545, Pres. ed Est. Roselli, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Antonio Federici, “In tema di insussistenza del fatto nel licenziamento disciplinare”, 31)
- In caso di licenziamento disciplinare, nel nuovo testo dell’art. 18 St. lav., come riformato nel 2012, il fatto contestato al lavoratore, che sia privo del carattere di illiceità, va considerato “insussistente”, derivandone il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro, di cui al quarto comma dell’art. 18. (Cass. 13/10/2015 n. 20540, Pres. e Rel. Roselli, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Oronzo Mazzotta, “Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori”, 102)
- Il licenziamento disciplinare fondato su una contestazione dell’addebito generica priva il lavoratore della facoltà di offrire prove a discarico e il giudicante di delimitare e accertare il fatto. Ne consegue l’applicazione della tutela reintegratoria in forma attenuata di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/1970 per insussistenza del fatto contestato. (Trib. Milano 15/4/2015, ord., Est. Dossi, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Francesco Mercuri, “Genericità della contestazione dell’addebito e insussistenza del fatto contestato”, 1037)
- Ai fini della valutazione della sussistenza del fatto contestato alla base del licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo, questo deve configurarsi come fatto grave e idoneo a ledere l’affidamento del datore di lavoro in ordine alla futura correttezza della prestazione, non solo in sé considerato, ma altresì apprezzato in una valutazione globale dello svolgimento del rapporto di lavoro, in ossequio al principio di proporzionalità tra fatto e sanzione, e tenuto conto anche della recidiva. Ai medesimi fini assume rilievo la sussistenza dell’elemento psicologico del lavoratore. (Trib. Trieste 16/3/2015, ord., Giud. Burelli, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Alessandro Mellace, “Sussistenza del fatto contestato e proporzionalità del licenziamento disciplinare del lavoratore recidivo”, 1020)
- Nell’ambito del licenziamento disciplinare, la tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 si applica solo nell’ipotesi di insussistenza del fatto (inteso come fatto materiale, dal quale esula ogni valutazione relativa alla proporzionalità) posto a fondamento del recesso datoriale, o nell’ipotesi in cui il medesimo fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, in base alle disposizioni del CCNL o del codice disciplinare applicabile. Tra le “altre ipotesi” di insussistenza della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo di cui all’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970 ai fini dell’applicazione della tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, L. n. 300/1970 rientra anche la violazione del requisito della tempestività, quale elemento costitutivo del diritto di recesso, mentre esulano dall’ambito applicativo di tale disposizione le violazioni procedurali previste dall’art. 7, L. n. 300/1970. (Cass. 6/11/2014 n. 23669, Pres. Macione Est. Arienzo, in Lav. nella giur. 2015, con commento di M. Lavinia Buconi, 152)
- In materia di lavoro subordinato, a norma dell’art. 55 quater del d.lgs. n. 165 del 2001, tra i casi in cui si applica la sanzione disciplinare del licenziamento, rientra anche quello dell’assenza dal lavoro, in mancanza di una valida giustificazione, e ciò per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio. Anche un unico episodio di insubordinazione può giustificare il licenziamento, se per le modalità di attuazione e la posizione professionale assunta nell’ambiente di lavoro, è idoneo a far venir meno il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. (Cass. 6/6/2014 n. 12806, Pres. Miani Canevari Est. Tria, in Lav. nella giur. 2014, 923)
- Nel giudizio relativo alla legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore sulla base di un fatto per il quale sia stata esercitata l’azione penale, il giudicato penale non è opponibile alla società datrice, rimasta assente in tale giudizio. (Cass. 6/5/2014 n. 9654, Pres. Vidiri Est. De Renzis, in Lav. nella giur. 2014, 817)
- In tema di recesso, affinché il licenziamento disciplinare, intimato senza il rispetto delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, possa ritenersi revocato e il rapporto di lavoro ricostituito, non è sufficiente il mero invito a riprendere servizio rivolto dal datore di lavoro, ma è necessario un accordo, che presuppone corrispondenza tra proposta e accettazione. (Trib. Foggia 27/1/2014, Giud. Basta, in Lav. nella giur. 2014, 616)
- Il licenziamento è illegittimo laddove in concreto fondato su fatti diversi da quelli espressamente contestati in sede disciplinare. (Trib. Milano 3/12/2013, Est. Scarzella, in Lav. nella giur. 2014, 292)
- È illegittimo il licenziamento disciplinare qualora l’esame del reale svolgimento dei fatti consenta di accertare l’infondatezza delle accuse formulate dal datore di lavoro; l’accertamento dei fatti addebitati al lavoratore e il giudizio di gravità degli stessi, nonché quello circa la proporzionalità tra fatti accertati e relative sanzioni, sono riservati al giudice di merito e non sono sindacabili in sede di legittimità, se sorretti da motivazione congrua e immune da vizi logici. (Cass. 26/8/2013 n. 19569, Pres. Lamorgese Rel. Pagetta, in Lav. nella giur. 2013, 1039)
- Nel caso in cui venga comminato un licenziamento disciplinare, l’errore nell’indicazione del giorno in cui sarebbe stato commesso il fatto addebitato non rivela una negligenza trascurabile, ma assume un valore decisivo perché pregiudica il diritto alla prova spettante all’incolpato, e specificatamente il diritto a provare di non essere stato presente sul luogo in cui è stato commesso l’illecito. (Cass. 14/6/2013 n. 15006, Pres. Roselli Rel. Maisano, in Lav. nella giur. 2013, 843)
- L’assoggettamento del licenziamento per motivi disciplinari alle garanzie procedimentali previste dai primi tre commi dell’art. 7 Stat. Lav. non trova deroga nel contratto di lavoro a tempo determinato, nemmeno per quanto riguarda la forma scritta della contestazione delle infrazioni, salva restando la rilevanza dell’apposizione del termine al relativo rapporto, al diversi fine di escludere, in caso di illegittimità del licenziamento, l’esigenza di una tutela reale del lavoratore mediante reintegrazione nel posto di lavoro. (Cass. 22/3/2013 n. 7311, Pres. Vidiri Rel. Fernandes, in Lav. nella giur. 2013, 616)
- Il fatto contestato, la cui inosservanza comporta l’applicazione dell’art. 18, comma 4, Stat. Lav., va inteso con riferimento non solo alla sua componente oggettiva (fatto materiale) ma anche a quella soggettiva (fatto giuridico) comprensiva della valutazione in ordine al dolo o alla colpa del lavoratore e alla proporzionalità della sanzione rispetto alla infrazione. Ai fini della tutela reale o indennitaria nel licenziamento disciplinare il giudice non può guardare soltanto al mero fatto ipotizzato o contestato dal datore; ma deve guardare allo stesso fatto in relazione alla nozione di giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Il giudizio di proporzionalità tra infrazione e sanzione ai sensi dell’art. 2106 c.c. mantiene il suo valore essenziale nella scelta della tutela da applicare anche quando il fatto tipico sussiste ma non sia grave in assenza di una tipizzazione da parte dei contratti collettivi e del codice disciplinare. (Trib. Ravenna 18/3/2013, Giud. Riverso, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Maria Dolores Ferrara, 567)
- L’assoluzione o proscioglimento con la formula “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”, presupponendo un accertamento che esclude in radice la configurabilità di ogni responsabilità del soggetto imputato in relazione al fatto ascritto, giustificano la preclusione alla valutazione in sede disciplinare dello stesso fatto. Ciò non può dirsi in relazione all’ipotesi in cui vi sia un’assoluzione o proscioglimento “perché il fatto non costituisce illecito penale”, in quanto in tale ipotesi non è esclusa la materialità del fatto, né la sua riferibilità al dipendente pubblico, ma solo la sua rilevanza penale. Di talché, non sussiste alcuna qualificata ragione per sottrarre il dipendente pubblico che sia stato assolto o prosciolto con tale ultima formula alla valutazione disciplinare del fatto. E invero, diversamente opinando verrebbero pregiudicate le esigenze di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, nonché lo stesso principio di uguaglianza. (Fattispecie concernente il rapporto tra azione disciplinare e azione penale e, in particolar modo, in riferimento a quanto disposto in tal senso dall’art. 14 CCNL comparto Ministeri del 2003 e dall’art. 68 CCNL Agenzia Fiscali del maggio 2004). (Cass. 8/1/2013 n. 206, Pres. Vidiri Est. Pagetta, in Lav. nella giur. 2013, 308)
- Deve considerarsi illegittimo, con conseguente applicazione dell’art. 18, comma 4, della l. n. 300/1970, il licenziamento intimato per un fatto previsto dal contratto collettivo tra le infrazioni punibili con una sanzione conservativa. (Trib. Bologna 15/10/2012 Giud. Marchesini, in Riv. It. Dir. lav. 2012, in con nota di Maria Teresa Carinci, “Il licenziamento non sorretto da giusta causa e giustificato motivo soggettivo: i presupposti applicativi delle tutele previste dall’art. 18 St. Lav. alla luce dei vincoli imposti dal sistema”, e di Raffaele De Luca Tamajo, “Il licenziamento disciplinare nel nuovo art. 18: una chiave di lettura”, e Roberto Romei, “La prima ordinanza sul nuovo art. 18 della legge n. 300/1970: tanto rumore per nulla?”, 1049)
- La clausola di un contratto collettivo (nella specie, l’art. 194, ccnl 2 luglio 2004 per i dipendenti di imprese della distribuzione cooperativa) secondo cui l’eventuale adozione di un provvedimento disciplinare (nel caso, un licenziamento) deve essere comunicata al lavoratore entro 21 giorni dalla scadenza del termine assegnato allo stesso per presentare le sue giustificazioni si interpreta nel senso che, ove il lavoratore abbia chiesto di essere sentito oralmente a propria discolpa, e tale audizione si svolga oltre il quinto giorno dalla ricezione della contestazione di addebito, il predetto termine di 21 giorni decorre dall’audizione ovvero dal giorno fissato per la stessa. (Cass. 30/3/2012 n. 5116, Pres. Lamorgese Rel. Amoroso, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Angela Vernia, “Sulla decorrenza del termine massimo previsto da un ccnl per l’adozione del provvedimento disciplinare”, 851, e in D&L 2012, con nota di Davide Bonsignorio, “Richiesta di audizione e termine per l’adozione del provvedimento disciplinare”, 556)
- Lo stato di malattia del lavoratore che ne precluda l’esercizio di diritti fondamentali – quale il diritto di difesa sancito nell’ambito del procedimento disciplinare – non può paralizzare il potere di licenziamento. (Trib. Milano 9/12/2011, Est. Colosimo, in D&L 2012, con nota di Marco Sartori, “L’effettività del diritto di difesa ex art. 7 SL trova un limite generale nel generale dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro”, 558)
- Il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore (siano esse previste come specifica ragione di licenziamento, sia che facciano riferimento a regole generali di legge o di comune etica ovvero a doveri complementari e accessori), indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari nella specifica disciplina del rapporto, deve essere considerato di natura disciplinare e, quindi, deve ritenersi assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell’art. 7 Stat. Lav. circa la contestazione dell’addebito e il diritto di difesa nonché, per il caso in cui le parti si siano avvalse della facoltà di prestabilire quali fatti e comportamenti integrino l’indicata condotta giustificativa del recesso, anche a quella posta dal primo comma del medesimo art. 7 Stat. Lav. circa l’onere della preventiva pubblicità di siffatte previsioni. (Cass. 10/11/2011 n. 23417, Pres. Vidiri Rel. Bandini, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Giorgio Mannacio, 482)
- La prova della responsabilità disciplinare del lavoratore, che concretizza la giusta causa di licenziamento, può essere formata mediante presunzioni semplici. Il ragionamento presuntivo è sindacabile per cassazione soltanto sotto il profilo della correttezza e congruità di motivazione della sentenza del giudice di merito. (Cass. 12/9/2011 n. 18655, Pres. Lamorgese Rel. Tricomi, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Giampiero Golisano, 65)
- Il giudizio sulla futura affidabilità del lavoratore licenziato non può essere espresso dal giudice violando i principi costituzionali da cui si desume che l‘assetto organizzativo dell’impresa è, di regola, insindacabilmente stabilito dal datore di lavoro e che il giudice non può imporre all’imprenditore modifiche delle proprie scelte organizzative al fine di garantire la conservazione del posto al lavoratore licenziato disciplinarmente. (Cass. 8/8/2011 n. 17093, Pres. Foglia Est. Tria, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Gaetano Gianni, “Il giudice non può suggerire al datore un diverso impiego del lavoratore al fine di evitare il licenziamento disciplinare”, 337)
- La natura sostanzialmente disciplinare del licenziamento, ricondotto a un’inadempienza e/o trasgressione del lavoratore a prescindere dalla circostanza che il licenziamento sia o meno convenzionalmente strutturato quale sanzione disciplinare dalla legge o dal contratto collettivo, impone l’adozione delle garanzie procedimentali di cui all’art. 7, comma 1), 2), 3) della L. n. 300/1970. (Trib. Milano 1/9/2010, Giud. Lualdi, in Lav. nella giur. 2010, 1143)
- In tema di licenziamento disciplinare o per giusta causa, la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere fra le parti non va operato in astratto, bensì con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intenzione dell’elemento intenzionale e di quello colposo. (Cass. 26/7/2011 n. 16283, Pres. Battimello Est. Stile, in Lav. nella giur. 2011, 1055)
- Il richiamo a opera di una parte processuale al doveroso rispetto del diritto alla privacy – cui il legislatore assicura in sede giudiziaria adeguati strumenti di garanzia – non può legittimare una violazione del disposto di cui all’art. 24 Cost. che, inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, non può incontrare nel suo esercizio ostacoli all’accertamento della verità materiale a fronte di gravi addebiti suscettibili di determinare ricadute pregiudizievoli alla persona dell’incolpato e alla sua onorabilità o alla perdita del diritto al posto di lavoro. Conseguentemente è illegittimo il licenziamento intimato a seguito di un procedimento disciplinare nell’ambito del quale il datore di lavoro, per esigenze di tutela della privacy, non ha indicato il nominativo della dipendente asseritamente molestata. (Cass. 5/8/2010 n. 18279, Pres. Vidiri Est. De Renzis, in D&L 2010, con nota di Enrico U.M. Cafiero, “Nel procedimento disciplinare il diritto di difesa del lavoratore può prevalere sulla tutela della riservatezza di altre persone coinvolte”, 1143)
- I principi di specifica contestazione preventiva degli addebiti e di necessaria corrispondenza fra quelli contestati e quelli addotti a sostegno del licenziamento disciplinare, posti dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 in funzione di garanzia del lavoratore, non escludono modificazioni dei fatti contestati concernenti circostanze non configuranti una fattispecie di illecito disciplinare diversa e più grave di quella addebitata, come ricorre quando le modificazioni non costituiscono elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare, non risultando in tal modo preclusa la difesa del lavoratore. (Cass. 14/6/2010 n. 14212, Pres. Roselli Est. Bandini, in Orient. Giur. Lav. 2010, 419)
- L’attività di controllo effettuata dal datore di lavoro tramite agenzia investigativa può essere ritenuta legittima,alla luce di quanto previsto dagli artt. 2 e 3 SL, solo laddove il ricorso a tale strumento possa ritenersi proporzionato allo scopo perseguito e assistito da gravi ragioni. In assenza di tali presupposti, gli accertamenti svolti sono inutilizzabili, sicché il licenziamento disciplinare intimato in base a tali accertamenti deve essere ritenuto illegittimo. (Trib. Milano 28/4/2009, Est. Mariani, in D&L 2009, con nota di Andrea Bordone, “”Controlli occulti, agenzie investigative e pedinamenti: solo come extrema ratio”, 826)
- Il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari della specifica disciplina del rapporto deve essere considerato di natura disciplinare e, quindi, deve essere assoggettato alle garanzie dettate in favore del lavoratore dal secondo e terzo comma dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 circa la contestazione dell’addebito e il diritto di difesa. (Trib. Monza 28/1/2009, d.ssa Pizzi, in Lav. nella giur. 2009, 421)
- Nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile, in linea di massima (giacché non esiste un obbligo o un onere generale e incondizionato di ricevere comunicazioni scritte da chicchessia e in qualunque situazione), l’obbligo del lavoratore di ricevere sul posto di lavoro e durante l’orario lavorativo comunicazioni, anche formali, da parte del datore di lavoro o di suoi delegati, in considerazione dello stretto vincolo contrattuale che lega le parti di detto rapporto, sicché il rifiuto del lavoratore destinatario di un atto unilaterale recettizio di riceverlo comporta che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, in quanto giunta ritualmente, ai sensi dell’art. 1335 c.c., a quello che, in quel momento, era l’indirizzo del destinatario stesso). (Nella specie, la S.C., enunciando l’anzidetto principio, ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto tardiva l’erogazione del licenziamento disciplinare, giacché intervenuta oltre il limite previsto dalla contrattazione collettiva secondo una scansione procedimentale che muoveva dalla comunicazione degli addebiti, da reputarsi, quest’ultima comunicazione, avvenuta a seguito del rifiuto del lavoratore di ricevere personalmente sul posto di lavoro l’atto di contestazione degli addebiti medesimi). (Cass. 3/11/2008 n. 26390, Pres. Roselli Est. Ianniello, in Lav. nella giur. 2009, 300)
- In tema di licenziamento del dipendente (nel caso, il Direttore dei Servizi Generali Amministrativi in un Istituto Scolastico) per persistente insufficiente rendimento l’amministrazione è tenuta alla specifica contestazione dei fatti oggetto di recidiva solo quando detti fatti risultino elemento costitutivo dell’addebito, e non meramente accidentale quale criterio di valutazione della gravità della condotta. (Trib. Bari 16/10/2008, ord., Est. Arbore, in Lav. nelle P.A. 2008, 1130)
- Il licenziamento per persistente unsufficiente rendimento può essere disposto innanzi a una ipotesi di particolare gravità dell’infrazione purché sia concretamente sussistente il nesso di proporzionalità fra sanzione infrazione. (Trib. Bari 16/10/2008, ord., Est. Arbore, in Lav. nelle P.A. 2008, 1130)
- Ove il procedimento disciplinare si concluda in senso sfavorevole al dipendente con l’adozione della sanzione del licenziamento, la precedente sospensione dal servizio – pur strutturalmente e funzionalmente autonoma rispetto al provvedimento risolutivo del rapporto, giacché adottata in via meramente cautelare in atesa del secondo – si salda con il licenziamento, tramutandosi in definitiva interruzione del rapporto e che legittimando il recesso del datore di lavoro retroattivamente, con perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni afar data dal momento della sospensione medesima. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha confermato la sentenza di merito che, in applicazione del principio su enunciato, aveva ritenuto la validità del licenziamento con decorrenza dalla data della sospensione del rapporto e, quindi, in epoca anteriore alla richiesta del dipendente – che mai aveva comunicato le sue dimissioni per sopravvenuta inidoneità fisica – di accertamento giudiziale della risoluzione per malattia). (Cass. 9/9/2008 n. 22863, Pres. De Luca Est. Amoroso, in Lav. nella giur. 2009. 198)
- Nel procedimento disciplinare, di cui all’art. 7 Stat. lav., l’esercizio del diritto alla difesa deve essere effettivo e, pertanto, nel caso in cui il dipendente versi in uno stato a lui non imputabile che gli impedisca di fatto di esercitare detto diritto, la procedura disciplinare, anche in applicazione dei principi di buona fede e correttezza, dev’essere sospesa in attesa che l’impedimento venga rimosso. (Trib. Milano 6/5/2008, Est. Casella, in Orient. giur. lav. 2008, 736)
- Laddove il Ccnl sancisca un termine finale per la comunicazione del provvedimento di licenziamento del lavoratore, entro tale termine il provvedimento deve essere non soloadottat, ma anche portato a conoscenza del lavoratore. Ne consegue che, qualora il provvedimento, benché inviato entro la scadenza del termine, sia stato ricevuto dal lavoratore oltre tale scadenza, lo stesso deve ritenersi illegittimo (fattispecie relativa al Ccnl Commercio). (Trib. Milano 8/4/2008, Est. Martello, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, “Termine finale per la comunicazione del licenziamento: la spedizione non è sufficiente”, 1029)
- E’ illegittimo il licenziamento disciplinare comunicato al dipendente dopo la scadenza del termine massimo previsto dal contratto collettivo posto che l’indicazione del termine non rientra tra le cosiddette clausole di stile ma comporta, come effetto del mancato esercizio, la decadenza del datore di lavoro dall’esercizio del potere disciplinare. (Cass. 18/3/2008 n. 7295, Pres. Ciciretti Est. Monaci, in D&L 2008, con nota di U.M. Cafiero, “Sul termine finale previsto dal Ccnl per l’irrogazione del licenziamento disciplinare”, 652)
- E’ illegittimo il licenziamento disciplinare che, in seguito a un’attenta ricostruzione dei fatti, non risulti proporzionato non solo rispetto alle circostanze oggettiva, ma anche rispetto alla personalità, allo stato emotivo e ai motivi di ordine psicologico che hanno ispirato il comportamento del lavoratore. (Trib. Milano 31/1/2008, Est. Tanara, in Lav. nella giur. 2008, 851)
- L’eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto a osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartito dall’imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l’art. 1460 c.c., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell’altra parte. Conseguentemente, costituisce grave insubordinazione, come tale passibile del provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa, il comportamento del lavoratore che si rifiuti di eseguire la prestazione, ritenendola estranea alla qualifica di appartenenza. (Cass. 5/12/2007 n. 25313, Pres. Sciarelli Est. De Matteis, in Lav. nella giur. 2008, 422)
- E’ illegittimo il licenziamento disciplinare fondato sulla recidiva se le singole infrazioni che la integrano sono contestate cumulativamente e se altrettanto cumulativamente e simultaneamente non solo sono sanzionate in quanto tali ma anche valorizzate per sanzionare, col medesimo provvedimento, la loro reiterazione. (Trib. Milano 26/10/2007, Est. Di Leo, in D&L 2008, 316, con nota di Paolo Perucco, “Il principio di gradualità delle sanzioni disciplinari e la funzione di ravvedimento nei confronti del lavoratore: riflessi sulle modalità di esercizio del potere disciplinare”, 316)
- Per il licenziamento dovuto a giusta causa riconducibile a illeciti disciplinari del lavoratore è necessario che il datore di lavoro assolva all’obbligo della preventiva contestazione tempestiva degli addebiti (ai sensi dell’art. 7 della L. n. 300 del 1970), il cui mancato rispetto determina l’illegittimità del provvedimento espulsivo impugnato in sede giudiziale (anche quando, come nella specie, sia prevista convenzionalmente la facoltà concorrente di devolvere la domanda del lavoratore a un collegio arbitrale) e comporta, con riguardo a lavoratore tutelato ai sensi dell’art. 8 della L. n. 604 del 1966 (come sostituito dall’art. 2 della L. n. 108 del 1990), la medesima conseguenza sanzionatoria costituita dalla condanna del datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore o al risarcimento, in favore di quest’ultimo, da computarsi mediante l’erogazione di un’indennità rapportata alla misura indicata dalla stessa norma. (Cass. 21/6/2007 n. 14487, Pres. Mattone Est. Roselli, in Lav. nella giur. 2008, 87, e in Dir. e prat. lav. 2008, 1062)
- Il licenziamento disciplinare illegittimo è da considerarsi ingiurioso non allorquando la contestazione riguardi un fatto lesivo dell’onore e del decoro del lavoratore, bensì laddove la forma del provvedimento e la pubblicità data a esso siano effettivamente lesive della sua dignità, atteso che un licenziamento ingiustificato o immotivato – sicuramente illegittimo e produttivo di danno risarcibile a norma di legge – non è, per ciò solo, anche ingiurioso, per cui il lavoratore non può pretendere a tale titolo un ulteriore risarcimento, ove non provi l’ulteriore e diverso danno subito. (Corte app. Venezia 6/6/2007, Pres. Pivotti Est. Santoro, in D&L 2007, con nota di Irene Romoli, “Modalità di contestazione dell’illecito disciplinare e risarcimento del danno ulteriore per lesione dell’onore e del decore del lavoratore: l’illegittimità del recesso non implica l’ingiuriosità”, 1219)
- Ai fini dell’accertamento in giudizio di un inadempimento del lavoratore non ha validità probatoria una relazione ispettiva basata su notizie riferite da informatori non identificati; pertanto il licenziamento basato su tali reazioni deve essere dichiarato illegittimo. (Cass. 19/4/2007 n. 9332, Pres. Sciarelli Est. Maiorano, in D&L 2007, con nota di Stefano Muggia, “Brevi osservazioni sull’onere della prova e sulla prova per presunzioni”, 900)
- Con l’ordinanza collegiale del 12 febbraio 2007 il Tribunale di Trani dichiara l’illegittimità del licenziamento disciplinato adottato oltre il termine di decadenza previsto dal contratto collettivo di settore, ritenendo irrilevante la proroga del termine invocata dal datore di lavoro e comunicata al lavoratore per un supplemento di istruttoria. (Trib. Trani 12/2/2007, Pres. Di Trani Rel. La Notte Chirone, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Marcello Paduanelli, 1005)
- Nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto sufficiente a minare irrimediabilmente il rapporto di fiducia con il datore di lavoro e a giustificare il licenziamento per giusta causa il comportamento del dipendente che, abusando del possesso delle chiavi dello stabilimento, si era introdotto all’interno di esso in giorno festivo e quindi nell’ufficio del direttore, coprendosi il volto per eludere la sorveglianza televisiva, e si era avvicinato a un armadio dal quale in precedenza erano stati sottratti dei valori). (Cass. 7/7/2006 n. 15491, Pres. Mercurio Est. Lupi, in Lav. nella giur. 2007, 84)
- In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice disciplinare non deve esaminarli partitamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutarli complessivamente al fine di verificare se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel dipendente. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito per non avere considerato complessivamente la condotta di un impiegato di banca al fine di verificare se essa fosse atta a minare la fiducia dell’istituto di credito suo datore di lavoro, e per non aver considerato che il dirottamento della clientela, avente un’esposizione debitoria tale da renderle problematico un ulteriore accesso al credito bancario, verso società finanziaria costituisce in ogni caso una violazione del dovere di fedeltà e correttezza. (Cassa con rinvio, Trib. Messina, 17 gennaio 2003). (Cass. 23/3/2006 n. 6454, Pres. Mercurio Rel. Di Nubila, in Dir. e prat. lav. 2006, 2680)
- Nel giudicare se la violazione disciplinare addebitata al lavoratore abbia compromesso la fiducia necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, va tenuto presente che è differenziata l’intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell’oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva, attribuendo rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento. (Cass. 10/6/2005 n. 12263, in Dir. & prat. lav. 2008, 2239)
- Ai fini della qualificazione come disciplinare del licenziamento rilevano non soltanto le violazioni del codice disciplinare predisposto dal datore di lavoro, ma anche le violazioni di norme di legge, in primo luogo delle leggi penali, nonché la violazione degli altri doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione. (Cass. 25/5/2005 n. 10991, Pres. Mattone Rel. D’Agostino, in Lav. e prev. oggi 2005, 1278)
- L’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 trova applicazione non soltanto quando il licenziamento disciplinare sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva e trovi fondamento nel c.d. codice disciplinare, anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative di recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente contrarie all’etica comune o concretanti violazione dei doveri accessori, complementari e strumentali al compimento della prestazione principale, tra i quali quelli nascenti dagli obblighi di fedeltà e diligenza. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla Suprema Corte, aveva applicato il principio sopra enunciato al licenziamento del dipendente delle Poste Italiane S.p.a., per gravissimi reati estranei al rapporto di lavoro, senza l’adozione del procedimento ex art. 7 legge n. 300 del 1970). (Cass. 21/7/2004 n. 13526, Pres. Sciarelli Rel. De Matteis, in Lav. e prev. oggi 2004, 1851)
- Laddove né il CCNL né il codice disciplinare ne faccia menzione, non può attribuirsi rilevanza inficiante la contestazione disciplinare al fatto che vi abbia provveduto persona non munita di rappresentanza tecnico-giuridica dell’ente, essendo la contestazione annullabile unicamente a istanza della società, che può anche ratificarla a norma dell’art. 1399 c.c. e porla a fondamento del licenziamento disciplinare. (Trib. Bari 26/11/2003, ord., Est. Caso, in Lav. nella giur. 2004, con commento di Alessia Muratorio, 1185)
- L’onere della formazione e della pubblicazione del codice disciplinare va assolto quando il licenziamento venga intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo soggettivo espressamente previste dalla normativa collettiva in funzione di preventiva valutazione pattizia dell’importanza dei relativi casi di inadempimento, quando non sia immediatamente percepibile a chiunque, anche estraneo all’assetto organizzativo aziendale, che l’eventuale illecito sia talmente grave da comportare il licenziamento. (Trib. Milano 30/5/2003, Est. Ianniello, in Lav. nella giur. 2004, 89)
- Poiché la nozione di giusta causa di licenziamento trova la propria fonte direttamente nella legge, l’elencazione delle ipotesi di giusta causa eventualmente contenuta nei contratti collettivi o, come nella specie, in un atto unilaterale del datore di lavoro, ha valenza esemplificativa e non tassativa, tuttavia il giudice del merito, nel valutare la lesione del vincolo fiduciario per fatti estranei al rapporto di lavoro, ben può prendere in considerazione le specifiche previsioni contenute nei contratti collettivi o in atti unilaterali del datore di lavoro, anche se queste non sono idonee, da sole, a fornire il parametro per verificare la sussistenza o meno della concreta lesione di quel vincolo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso che una sentenza di applicazione della pena di tre mesi di reclusione, ex art. 444 c.p.c., per fatti estranei al rapporto di lavoro, potesse integrare, da sola, giusta causa di licenziamento, in presenza di una disposizione del Regolamento del personale dell’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato che limitava il rilievo delle sentenze penali a quelle comportanti una pena restrittiva della libertà personale in misura non inferiore ad un anno, precisando che non aveva alcun rilievo, ai fini suindicati, la natura patteggiata della pena). (Cass. 10/12/2002, n. 17562, Pres. Trezza, Rel. Curcuruto, in Lav. nella giur. 2003, 476)
- L’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c. che, in tema di licenziamento, reca una “norma elastica”, non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’applicazione della clausola generale, che esige il rispetto di criteri e principi ricavabili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali sino alla disciplina particolare (anche stabilita dai contratti collettivi), in cui si colloca la fattispecie. In particolare, l’operazione valutativa non è censurabile, se il giudice di merito abbia applicato i principi costituzionali che impongono un bilanciamento dell’interesse del lavoratore, tutelato dall’art. 4 della Costituzione, con l’interesse del datore di lavoro, tutelato dall’art. 41, Cost., bilanciamento che, in materia di licenziamento disciplinare, si riassume nel criterio dettato dall’art. 2106 c.c., della proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla all’infrazione contestata, conformandosi altresì agli ulteriori standards valutativi rinvenibili nella disciplina collettiva e nella coscienza sociale, valutando la condotta del lavoratore in riferimento agli obblighi di diligenza e fedeltà, anche alla luce del “disvalore ambientale” che la stessa assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti dell’impresa a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di tali obblighi (Nella specie la S.C. ha ritenuto incensurabile la valutazione del giudice di merito, che aveva rigettato l’impugnazione del licenziamento del responsabile della piccola casa di uno stabilimento industriale-il quale si era appropriato di due somme di lire 1.200.000 e lire 500.000-valorizzando tra l’altro, la gravità della condotta , in considerazione della posizione lavorativa del dipendente). (Cass. 4/12/2002, n. 17208, Pres. Dell’Anno, Rel. Foglia, in Lav. nella giur. 2003, 344, con commento di Giorgio Mannacio)
- Il licenziamento intimato a motivo di una colpevole condotta del prestatore di lavoro, sia pur essa idonea a configurare la giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., ha natura ontologicamente disciplinare ed implica, per tale ragione, la previa osservanza delle garanzie procedimentali di irrogazione stabilite dall’art. 7, L. n. 300/1970. (Corte d’appello Bari 15/11/2002, Est. Gentile, in Lav. nella giur. 2003, 386)
- Le condotte del lavoratore configuranti un fatto oggettivamente illecito, derivante da una norma penale radicata nella coscienza sociale, non necessitano di essere esplicitamente contemplate dal codice disciplinare e possono comunque essere contestate in via disciplinare. Occorre comunque distinguere tra comportamenti illeciti, attinenti all’organizzazione aziendale ed ai modi di produzione, i quali si riferiscono a norme per lo più ignote alla genericità e sono perciò conoscibili solo se espressamente previste, e quelli manifestamente contrari ai valori generalmente accertati, e perciò spesso illeciti anche penalmente, oppure palesemente in contrasto con l’interesse dell’impresa, per i quali non è necessaria, appunto, la specifica inclusione nel codice disciplinare. (Trib. Forlì 3/10/2002, Pres. Velotti, Est. Allegra, in Lav. nella giur. 2003, 391)
- La nozione di giusta causa di recesso è nozione legale (art. 2119 c.c.) e, proprio per questo,tanto più con riguardo a fatti di rilievo penale e contrari a regole di civiltà, non richiede previsioni ad hoc nel codice disciplinare, le quali, se presenti, danno luogo a fattispecie tipizzate (comunque sottoposte a controllo giudiziale di congruità) e non pongono fuori della nozione comportamenti diversi. (Corte d’appello Milano 27/9/2002, Pres. Mannacio, Rel. De Angelis, in Lav. nella giur. 2003, 387)
- In tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli partitamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutarli complessivamente. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, emessa in sede di rinvio, la quale, non adeguandosi al principio di diritto, attraverso un esma separato degli episodi contestati, aveva ritenuto sì sussistente un illecito disciplinare, ma non così grave da giustificare l’intimato licenziamento). (Cass. 16/9/2002, n. 13536, Pres. Ciciretti, Rel. Stile, in Lav. nella giur. 2003, 74)
- L’eventuale preventiva delibera assunta dall’assemblea dei soci, nella quale sia stato manifestato il proposito di licenziare un lavoratore per motivi disciplinari, non costituisce circostanza invalidante del successivo licenziamento, essendo ogni decisione definitiva rinviata all’esito del relativo procedimento disciplinare e alla valutazione delle sue risultanze. (Cass. 18/6/2002, n. 8853, Pres. Mileo, Est. Di Lella, in Riv. it. dir. lav. 2003, 91, con nota di Sndro Mainardi, Vecchie e nuove questioni in materia di procedimento disciplinare, titolarità del potere e termini a difesa).
- Il pubblico dipendente, nei cui confronti non sia stato promosso procedimento disciplinare in seguito alla pronuncia di sentenza penale di condanna, ha diritto alla restitutio in integrum. (Consiglio di Stato, 28/2/2002, n. 2, Pres. De Roberto, Est. Farina, in Foro it. 2003, parte terza, 371)
- Il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato per il caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge (art. 3 della legge n. 604 del 1966), e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro, di ogni possibile ipotesi di comportamento illecito integrante il suddetto requisito, spettando al giudice di verificare, ove si contesti la giustificatezza del recesso, se gli episodi addebitati integrino l’indicata fattispecie legale. Pertanto, anche se non specificatamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso del datore di lavoro le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quei doveri cioè, che sorreggono la stessa esistenza del rapporto, quali sono i doveri imposti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., e, specificatamente, quelli derivanti dalle direttive aziendali. (Cass.8/6/2001, n. 7819, Pres. Trezza, Rel. De Matteis, in Argomenti dir. lav. 2003, 351)
- La teoria cd. ontologica estende l’ambito del licenziamento disciplinare a tutti i casi in cui viene a suo mezzo sanzionata una inadempienza e/o trasgressione del lavoratore. Una simile regola non incontra limiti nel carattere extralavorativo della causa di licenziamento addotta dal datore di lavoro, trattandosi comunque di un comportamento imputabile del lavoratore. Consegue da ciò l’applicabilità anche in questo caso delle regole del contraddittorio sancite dall’art. 7, l. n. 300/70. (Corte Appello Bologna 12/3/2001, pres e est. Castiglione, in Lavoro giur. 2001, pag. 1043, con nota di Cavalloni, Il principio “audiatur et altera pars” nel licenziamento per fatto extralavorativo)
- Nella valutazione della gravità dei comportamenti del lavoratore al fine della configurabilità di una giusta causa di licenziamento non assume rilevanza decisiva il tenue valore del danno economico arrecato al datore di lavoro, dovendosi avere riguardo agli effetti del comportamento del lavoratore sulla particolare fiducia che ripone in lui il datore di lavoro in relazione alle mansioni assegnate (nella specie, la cassiera di un supermercato aveva indebitamente utilizzato una tessera punti-sconto riservata ai clienti) (Trib. Milano 16/11/00, est. Peragallo, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 962)
- Gli artt. 2104 e 1176 c.c. impongono al lavoratore di eseguire la prestazione – indipendentemente dalle direttive impartite dal datore di lavoro – secondo la particolare qualità dell’attività dovuta, risultante dalle mansioni e dai dati professionali che la definiscono, e di osservare, altresì, tutti i comportamenti accessori e le cautele che si rendano necessari ad assicurare una gestione professionalmente corretta (nel caso, il bancario aveva dato corso a rilevanti operazioni di bonifico senza alcuna cautela) (Cass. 27/9/00, n. 12769, pres. Trezza, est. Coletti, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 446, con nota di Nadalet, Sull’obbligo di diligenza e i cd. compiti accessori: verso un’estensione della sfera di imputabilità)
- L’ipotesi del notevole “inadempimento degli obblighi contrattuali” cui si riferisce l’art. 3, l. n. 604/66 non può identificarsi soltanto nell’inadempimento o inesatto adempimento della prestazione lavorativa dovuta, ma deve estendersi anche alla violazione degli obblighi accessori o funzionali rispetto alla prestazione stessa e, più in generale, alla violazione dei doveri di correttezza, di lealtà, di fedeltà, che pure derivano dal contratto di lavoro, sulla base delle disposizioni degli artt. 2094 e 2104 c.c. (Nella specie, la Cassazione ha cassato con rinvio la decisione dei giudici di appello che avevano escluso la configurabilità del notevole inadempimento nel comportamento del lavoratore che aveva manomesso l’orologio marcatempo in modo da far risultare sul cartellino un orario di entrata che non era stato registrato) (Cass. 19/8/00, n. 10996, pres. Mileo, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 747)
- Il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, ove questo sia stato irrogato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in sede penale, non è obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente, con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazione degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale. In ogni caso, la valutazione della legittimità del comportamento del lavoratore, ai fini della verifica della legittimità del licenziamento per giusta causa deve essere da quel giudice operata alla stregua della ratio degli artt. 2119 c.c. e 1, l. 15/7/66, n. 604, cioè tenendosi conto dell’incidenza del fatto commesso sul particolare rapporto fiduciario che lega le parti nel rapporto di lavoro, delle esigenze dell’organizzazione produttiva e delle finalità e delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione, indipendentemente dal giudizio che del medesimo fatto dovesse darsi ai fini penali: sicchè non incorre in vizio di contraddittorietà la sentenza che affermi la legittimità del recesso nonostante l’ assoluzione delle lavoratore in sede penale per le medesime vicende addotte dal suo datore di lavoro a giustificazione dell’immediata risoluzione del rapporto (nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., in relazione al licenziamento per giusta causa intimato a un lavoratore che aveva prestato denaro dietro notevole interesse ad un collega di lavoro e aveva proceduto poi a tutti i conseguenti atti di recupero crediti, aveva ritenuto la gravità del comportamento del dipendente, in quanto idoneo a turbare l’ordine della compagine aziendale, distolta dai suoi necessari moduli di solidarietà tra colleghi e di dedizione esclusiva all’attività di lavoro, e aveva perciò reputato legittimo il recesso del datore di lavoro, indipendentemente dall’avvenuta assoluzione del lavoratore dal reato di usura) (Cass. 5/8/00, n. 10315, pres. Santojanni, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 339, con nota di D’Arcangelo, Giusta causa di licenziamento e usura)
- Spetta al solo giudice di merito la valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo di recesso, non essendo queste ultime clausole generali che necessitino di una attività di integrazione da parte del giudice per dare concretezza al contenuto del precetto normativo, ma piuttosto specificazioni del generale principio previsto dall’art. 1455 c.c. circa la rilevanza che deve avere l’inadempimento per legittimare la risoluzione del contratto (Cass. 19/6/00, n. 8313, pres. Prestipino, est. Picone, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 112, con nota di Vallauri, Espressioni ingiuriose, abitudini lessicali e giusta causa di licenziamento. Alcune osservazioni sulla natura di giusta causa e giustificato motivo)
- La valutazione del notevole inadempimento nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo deve operarsi con riferimento non al fatto astrattamente considerato, bensì agli aspetti concreti del fatto stesso, alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo (Trib. Roma 15/6/2000, pres. e est. Cocchia, in Lavoro giur. 2001, pag. 1076, con nota di Montanari, Specificità della contestazione dell’addebito e valutazione dell’infrazione nel licenziamento)
- In caso di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, con particolare riguardo dell’elemento fiduciario e la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo. (Nel caso esaminato, la Cassazione ha ritenuto incensurabile in sede di controllo di legittimità, la sentenza impugnata che, con motivazione congrua, esaustiva e priva di salti logici, aveva ritenuto reazione sproporzionata il licenziamento di una dipendente gastronoma di un bar-gastronomia appropriatasi di due kiwi e di un cestino di fragole, valorizzando circostanze quali la lunga durata del rapporto di lavoro, l’assenza di precedenti disciplinari della lavoratrice e il minimo grado di affidabilità richiesto dalle mansioni assegnatale) (Cass. sez. lav. 27 novembre 1999 n. 13299, pres. Sciarelli, est. Vidiri, in D&L 2000, 479, n. Ianniello, Ancora sulla nozione di giusta causa e giustificato motivo soggettivo)
- Per accertare la legittimità di un licenziamento per colpa adottato nei confronti di un dipendente, occorre che il comportamento dello stesso sia valutato attraverso un giudizio globale che tenga conto dell’effettiva incidenza del fatto addebitato sul comportamento lavorativo (Cass. 13/4/99 n. 3645, pres. Pontrandolfi, est. Guglielmucci, in D&LGiusta causa di licenziamento) 1999, 657, n. Muggia.
Procedura disciplinare
- Nel procedimento disciplinare non assume alcuna rilevanza l’eventuale omessa valutazione delle difese del lavoratore da parte del datore di lavoro, restando affidato al sindacato giurisdizionale, mediante l’impugnazione del provvedimento, il pieno controllo della sanzione adottata. (Cass. 8/5/2008 n. 11361, Pres. Senese Est. Miani Canevari, in Lav. nella giur. 2008, 956)
- L’art. 7 della L. n. 300 del 1970 non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, restando salva la possibilità per il lavoratore medesimo di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento suddetto, l’ordine di esibizione della documentazione stessa. (Cass. 30/8/2007 n. 18288, Pres. Sciarelli Est. de Matteis, in Lav. nella giur. 2008, 188)
- La violazione dell’art. 7 l. n. 300/70 non dà luogo a nullità del recesso, ma lo rende ingiustificato; la medesima deve essere pertanto ricondotta alla previsione di annullabilità di cui all’art. 18, primo comma legge citata e l’azione di impugnazione è soggetta alla prescrizione quinquennale ai sensi dell’art. 1442, primo comma c.c. (Cass. 23/10/00, n. 13959, pres. Amirante, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1049)
- E’ nullo il licenziamento intrinsecamente disciplinare inflitto al lavoratore senza il preventivo espletamento della procedura prevista dall’art. 7 SL (Pret. Milano 30/4/99, est. Vitali, in D&L 1999, 716)
Affissione del codice disciplinare
- Ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione; ne consegue che i comportamenti del lavoratore costituenti gravi violazioni dei doveri fondamentali sono sanzionabili con il licenziamento disciplinare a prescindere dalla loro inclusione o meno all’interno del codice disciplinare, e anche in difetto di affissione dello stesso, purché siano osservate le garanzie previste dall’articolo 7, commi 2 e 3, della legge 20 maggio 1970, n. 300. (Cass. 7/10/2013 n. 22791, Pres. Stile Rel. Filabozzi, in Lav. nella giur. 2014, 82, e in Lav. nella giur. 2014, con commento di Carmela Garofalo, 367)
- Posto che l’appropriazione di denaro dal portafogli di un collega di lavoro integra l’ipotesi di furto, non appare necessaria la previa affissione di una regola aziendale di comportamento che vieti siffatte condotte, posto che chiunque è in grado di cogliere il disvalore sociale, prima ancora che giuridico, dell’appropriazione di beni altrui anche non aziendali, sia pur di modico valore, in considerazione della violazione di doveri fondamentali del dipendente inerenti al contenuto e alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. (Trib. Napoli 6/2/2013, Giud. Pellecchia, in Lav. nella giur. 2013, 529)
- In presenza di regolare affissione del codice disciplinare è pienamente legittimo il licenziamento disciplinare per giusta causa intimato al direttore della filiale di un istituto di credito il quale tenga un comportamento idoneo a ledere gravemente e irreparabilmente il vincolo fiduciario, in ragione della concessione di elevate disponibilità di conto corrente e nell’apertura di linee di credito senza adeguate informazioni e a favore di soggetti non in grado di fornire sufficienti garanzie di rientro. (Cass. 26/1/2012 n. 1087, Pres. Vidiri Rel. Stile, in Lav. nella giur. 2012, 406)
- L’affissione del codice disciplinare costituisce requisito essenziale per la validità del licenziamento (o comunque della applicazione della sanzione disciplinare) soltanto quando questo costituisca la sanzione per l’infrazione a una disposizione corrispondente a una esigenza peculiare dell’azienda, non quando l’infrazione riguardi doveri previsti dalla legge o comunque appartenenti al patrimonio deontologico di qualsiasi persona onesta, ovvero dei doveri imposti al prestatore di lavoro dalle disposizioni di carattere generale proprie del rapporto di lavoro subordinato. Ne discende che da tale forma di pubblicità si può prescindere allorché il lavoratore si sia reso autore di comportamenti rispetto ai quali la fonte del recesso datoriale è direttamente reperibile nella legge, ovvero allorché l’illiceità della violazione, per l’evidente contrasto con la coscienza comune e con le regole fondamentali del vivere civile, possa essere conosciuta e apprezzata dal lavoratore senza bisogno di previo avviso. (Cass. 10/5/2010 n. 11250, Pres. Sciarelli Est. Stile, in Orient. Giur. Lav. 2010, 498)
- La previa affissione del codice disciplinare non è necessaria ai fini della validità del licenziamento, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione. Il fatto che la condotta contestata sia o meno associabile a una ipotesi tipica contrattualmente prevista è irrilevante, non venendo per ciò stesso meno l’immediata e generale percettibilità del suo disvalore. (Corte app. Milano 27/9/2007, Pres. Ruiz Est. Sbordone, in Lav. nella giur. 2008, 320)
- In tema di sanzioni disciplinari nell’ambito del rapporto di lavoro, ove l’impresa sia articolata in più unità produttive, l’onere di affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti implica che l’affissione sia effettuata in ciascuna sede, stabilimento e reparto autonomo e che altrettanto avvenga qualora l’impresa operi presso terzi, utilizzando locali di altri per tenervi materiali o persone. (Nella specie la S.C., nel confermare la sentenza di merito che aveva annullato il licenziamento intimato a un pilota elicotterista che si era rifiutato di esibire il libretto di volo al datore di lavoro, ha rilevato che la sanzione avrebbe dovuto essere applicata nel rispetto delle norme procedimentali perchè la norma disciplinare, oltre a circoscrivere il campo di inadempimento sanzionabile, determina il collegamento della sanzione al fatto). (Cass. 10/1/2007 n. 247, Pres. Ciciretti Est. Celentano, in Lav. nella giur. 2007, 826)
- L’affissione del codice disciplinare non è presupposto di legittimità del licenziamento quando i fatti addebitati costituiscono grave violazione dei doveri che, a norma di legge e di contratto, incombono sul lavoratore subordinato. L’affissione è, invece, indispensabile ad assicurare il diritto di difesa del lavoratore solo quando gli obblighi allo stesso imposti derivino da disposizioni specifiche impartite dal datore di lavoro per l’esecuzione e la disciplina del lavoro (art. 2104 c.c., 2° comma, c.c.). (Trib. Milano 28/12/2006, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2007, 836)
- Nel caso di licenziamento disciplinare, l’omessa affissione del codice disciplinare a norma del comma 1 dell’art. 7 SL comporta la nullità del licenziamento, mentre l’affissione non è necessaria solo in ipotesi di condotte criminose del lavoratore o, quantomeno, lesive di regolare e civile convivenza ovvero di doveri imposti al prestatore da disposizioni di carattere generale, quali la violazione dell’obbligo di fedeltà e del rispetto del patrimonio e della sicurezza del datore di lavoro. (Trib. Milano 31/10/2005, Est. Vitali, in Lav. Nella giur. 2006, 616)
- In materia di licenziamento disciplinare, il primo comma dell’art. 7, l. 20 maggio 1970, n. 300 impone al datore di lavoro l’onere di portare a conoscenza dei lavoratori il codice disciplinare aziendale solo se quest’ultimo preveda particolari comportamenti, oggetti di specifica contestazione nei confronti del lavoratore, che ne determinano il recesso, ma non quando la violazione attiene ai doveri fondamentali del rapporto di lavoro, riconoscibili e contestabili al di fuori di una loro specifica previsione nel menzionato codice disciplinare. (Cass. 13/1/2005 n. 488, Pres. Mercurio Est. Miani Canevari, in Riv. it. dir. lav. 2006, 134)
- La garanzia, prevista dall’art. 7, comma 1, della legge 20 maggio 1970, n. 300, di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro, e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente contrarie all’etica comune o concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva ritenuto che la condotta del lavoratore, il quale, in relazione ad un incidente stradale occorso nello svolgimento delle proprie mansioni di autista alla guida di un autoveicolo aziendale, aveva attestato nel verbale di constatazione amichevole modalità del sinistro diverse da quelle reali, rivestisse carattere indiscutibilmente antigiuridico, a prescindere dalla sua gravità o rilevanza penale). (Cass. 9/3/2004 n. 4778, Pres. Capitanio Rel. Celentano, in Dir. e prat. lav. 2004, 2066)
- Ad eccezione di ipotesi marginali, nelle quali le mancanze commesse dal lavoratore costituiscono delitti o violazioni di specifiche norme di legge, è sempre necessaria l’esistenza e l’affissione del codice disciplinare, in mancanza del quale il licenziamento deve essere dichiarato illegittimo (nella fattispecie è stata sanzionata la mancanza del codice disciplinare nel caso di un lavoratore che aveva accreditato i punti derivanti da una serie di acquisti effettuati in volo su di una tessera “mille miglia” intestata ad un nominativo che non risultava presente tra i passeggeri del volo). (Trib. Milano 30/5/2003, Est. Ianniello, in D&L 2003, 772, con nota di Lorenzo Franceschinis, “Sul codice disciplinare: vuote formule e casi concreti”)
- E’ legittimo il licenziamento intimato al dipendente, pur mancando l’affissione del codice disciplinare, non essendo necessaria questa in presenza di violazione, oltre che di norme di legge, di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione, com’è nell’ipotesi di un giornalista, inviato speciale, che abbia violato l’obbligo contrattuale di esclusiva e si sia dato presente al lavoro quando invece non lo era. (Corte d’Appello Milano 10/7/2002, Pres. De Angelis, in Lav. nella giur. 2003, 88)
- A differenza delle sanzioni conservative, il mancato inserimento del licenziamento con preavviso nel codice disciplinare non rileva ai fini della natura disciplinare del recesso, e non limita il potere di licenziamento del datore di lavoro (Cass. 27/9/00, n. 12769, pres. Trezza, est. Coletti, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 446, con nota di Nadalet, Sull’obbligo di diligenza e i cd. compiti accessori: verso un’estensione della sfera di imputabilità)
- La garanzia prevista dal comma 1 dell’art. 7, l. 20/5/70, n. 300 di pubblicità del c.d. codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, si applica al licenziamento disciplinare quando questo sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro, e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso previste unicamente e direttamente dalla legge ( Cass. 30/8/00, n. 11430, pres. Mileo, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 757)
- La garanzia, prevista dal comma 1 dell’art.7 L. 300/70, di pubblicità del cosiddetto codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia intimato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo previste dalla normativa collettiva o validamente poste dal datore di lavoro, e non anche quando faccia riferimento a situazioni giustificative del recesso previste direttamente dalla legge trattandosi di infrazioni il cui divieto risiede nella coscienza sociale quale minimum etico (Cass. 8/2/00 n. 1412, pres. Lanni, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 479)
- In materia di licenziamento disciplinare, l’onere della predisposizione e preventiva affissione del codice disciplinare ai sensi dell’art. 7, 1° comma, SL non sussiste con riguardo a fatti che si configurino come illeciti penali o siano contrari all’etica comune (Pret. Milano, sez. Rho, 25/3/98, est. Ferrari da Passano, in D&L 1998, 1094)
Tempestività della contestazione
- La contestazione disciplinare deve essere tempestiva, dovendosi tuttavia considerare eventuali ritardi legati a particolari circostanze, quali il tempo necessario al reale accertamento dei fatti o la complessità dell’organizzazione dell’impresa. (Cass. 24/12/2020 n. 29595, Pres. Balestrieri Rel. Boghetich, in Lav. nella giur. 2021, 420)
- Se 13 mesi di ritardo vi sembran pochi per escludere la violazione del principio di immediatezza della contestazione.
Nel caso esaminato, il licenziamento disciplinare impugnato era motivato dalla contestazione, intervenuta dopo oltre 13 mesi dai fatti, di alcune irregolarità nel rimborso delle spese di trasferta. La Corte conferma (con una motivazione di 47 righe… tutte d’un fiato) la decisione dei giudici di merito che avevano respinto la domanda in base a una duplice considerazione: a) il ritardo nella contestazione non poteva fondare l’affidamento del lavoratore sull’irrilevanza o la remissione del fatto, data l’esistenza di una precedente sanzione disciplinare per fatti analoghi; b) la plausibilità di un così prolungato controllo, successivo alla conoscenza dei fatti, per la necessità di una verifica più accurata anche con informazioni presso i clienti visitati dal dipendente o gli alberghi frequentati nell’occasione. Ora, è vero che la Corte di Cassazione ha un controllo molto limitato sulla motivazione delle decisioni della Corte d’appello, che non si estende all’eventuale insufficienza della stessa, ma in questo caso più che di motivazione, sembra trattarsi del principio di immediatezza della contestazione, il cui contenuto normativo rischia di sfumare nell’assoluta indifferenza. (Cass. 6/4/2020 n. 7703, Pres. Di Cerbo Rel. De Marinis, in Wikilabour, Newsletter n. 8/2020) - In tema di licenziamento disciplinare, un fatto non tempestivamente contestato dal datore non può essere considerato insussistente ai fini della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 St. lav., come modificato dalla l. n. 92 del 2012, trattandosi di violazione radicale che impedisce al giudice di valutare la commissione effettiva dello stesso anche ai fini della scelta tra i vari regimi sanzionatori. (Cass. 31/1/2017, n. 2513, Pres. Nobile Est. Bronzini, in Riv. It. Dir. Lav. 2017, con nota di L. Di Paola, “Difetto di tempestività della contestazione disciplinare: violazione procedurale e/o sostanziale?”, 503)
- Il principio di immediatezza della contestazione disciplinare deve essere inteso in senso relativo, specie nell’ipotesi in cui l’accertamento e la conseguente valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale più ampio oppure quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso; in tali ipotesi, dunque, il citato principio è compatibile con il trascorrere di un intervallo di tempo, più o meno lungo, restando in ogni caso riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto possono giustificare o meno il ritardo in questione. (Cass. 15/6/2016 n. 12337, Pres. Napoletano Rel. Ghinoy, in Lav. nella giur. 2016, 927)
- La regola desumibile dall’art. 7 della L. n. 300 del 1970, secondo cui l’addebito deve essere contestato immediatamente, va intesa in un’accezione relativa, ossia tenendo conto delle ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti contestati (da effettuarsi in modo ponderato e responsabile anche nell’interesse del lavoratore a non vedersi colpito da incolpazioni avventate), soprattutto quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di fatti che, convergendo a comporre un’unica condotta, esigono una valutazione ordinaria, sicché l’intimazione del licenziamento può seguire l’ultimo di questi fatti, anche a una certa distanza temporale da quelli precedenti. (Corte app. Bologna 5/3/2014, Pres. Brusati Rel. Mantovani, in Lav. nella giur. 2014, 613)
- Il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito deve essere inteso in senso relativo. E infatti, esso risulta in concreto compatibile anche con un intervallo di tempo più o meno lungo, allorché l’accertamento e la valutazione dei fatti sia laborioso e richieda uno spazio temporale maggiore. (Cass. 17/9/2013 n. 21203, Pres. Lamorgese Est. Garri, in Lav. nella giur. 2014, 83, e in Lav. nella giur. 2014, con commento di Francesco Barracca, 83)
- In materia di licenziamento disciplinare, il principio dell’immediatezza della contestazione, che trova fondamento nella legge 20 maggio 1970, n. 300, articolo 7, commi 3 e 4, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all’esercizio del relativo potere e l’invalidità della sanzione irrogata. (Cass. 27/6/2013 n. 16227, Pres. Stile Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2013, 954)
- Nel licenziamento per motivi disciplinari il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito e della tempestività del recesso datoriale deve essere interpretato in senso in senso relativo, potendo in concreto sussistere un intervallo di tempo abbastanza lungo quando l’accertamento e la valutazione dei fatti richiedono un periodo maggiore. Il lasso di tempo trascorso tra il momento in cui si sono verificati i fatti oggetto di addebito (gennaio 2010-febbraio 2011) e il momento in cui gli stessi sono stati contestati al ricorrente (maggio 2011), appare congruo anche in considerazione dei tempi necessari alla società per raccogliere i documenti ed effettuare i doverosi accertamenti del caso, tra cui anche lo svolgimento di una perizia calligrafica. (Trib. Milano 22/11/2012, Giud. Gasparini, in Lav. nella giur. 2013, 204)
- L’immediatezza della contestazione disciplinare deve essere intesa in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, in dipendenza della complessità delle indagini da compiere e della maggiore articolazione dell’attività dell’impresa. (Cass. 21/12/2010 n. 25856, Pres. Foglia Rel. Tricomi, in Lav. nella giur. 2011, 319)
- Il criterio dell’immediatezza della contestazione di addebito, che nel licenziamento per giusta causa si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso, va intesa in senso relativo, rilevando la natura dell’illecito disciplinare e le ragioni oggettive che possono ritardare la percezione o il definitivo accertamento e valutazione dei fatti da parte del datore di lavoro; da che, qualora i fatti contestati vengano a comporre un’unica condotta ed esigano una valutazione unitaria, la contestazione dell’addebito può seguire l’ultimo di questi fatti anche a una certa distanza temporale da quelli precedenti (nel caso di specie, tra la chiusura dell’indagine conoscitiva da parte della banca, avviata dall’ultima condotta sospetta, e l’inizio del procedimento disciplinare erano trascorsi 40 giorni). (Cass. 13/12/2010 n. 25136, Pres. Roselli Est. Nobile, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Lara Lazzeroni, “Il parametro dell’immediatezza della contestazione di addebito”, 79)
- Il principio di immediatezza della contestazione che, per il suo carattere relativo impone un bilanciamento degli interessi (datoriali e del lavoratore) sottesi al procedimento di disciplina, “non consente di individuare nella potenziale rilevanza penale dei fatti accertati e nella conseguente denuncia all’autorità requirente circostanze di per sé solo esonerative dall’obbligo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che tale obbligo assume rispetto alla tutela dell’affidamento e del diritto di difesa del lavoratore incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore. (Trib. Milano 2/9/2010, Giud. Cipolla, in Lav. nella giur. 2010, 1142)
- L’immediatezza della contestazione deve essere valutata in comparazione con la fattispecie concreta, la cui struttura può essere composta da una pluralità di atti e fatti, singolarmente insufficienti a determinare il corretto avvio del procedimento disciplinare. (Cass. 17/9/2008 n. 23739, Pres. Mattone Rel. Roselli, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Giampiero Golisano, 161)
- Nel licenziamento disciplinare la contestazione dell’addebito e la comminatoria del licenziamento possono essere contenute nel medesimo atto, se viene concesso al lavoratore il termine di legge di cinque giorni per fornire le proprie discolpe e viene precisato che, qualora egli non si avvalga di tale possibilità, il rapporto di lavoro si intenderà risolto senza ulteriore preavviso dal giorno successivo alla scadenza del termine. Pertanto, la comminatoria del licenziamento contemporanea alla contestazione dell’addebito giammai può essere intimata con effetto immediato, in tal modo perdendo ogni significato il termine fissato per la difesa del lavoratore incolpato. (Cass. 4/7/2008 n. 15050, Pres. Mattone Est. Maiorano, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Giuseppe Pellacani, “La Cassazione conferma l’illegittimità del licenziamento disciplinare con effetto immediato intimato insieme alla contestazione dell’addebito”, 178)
- Il principio di immediatezza previsto dall’art. 7 SL non può ritenersi violato quando il datore di lavoro si sia avvalso, a norma della contrattazione collettiva, della facoltà di sospendere in via cautelativa il lavoratore imputato penalmente, rinviando l’ulteriore corso del procedimento disciplinare all’esito del primo grado di giudizio. (Trib. Milano 1/2/2008, Est. Peragallo, in D&L 2008, con nota di Angelo Beretta, “Controllo a distanza e utilizzabilità in sede di procedimento penale”, 509)
- La discrezionalità del giudice nel valutare la tempestività della contestazione disciplinare deve svolgersi nell’ambito dei presupposti alla base del principio dell’immediatezza della contestazione, ossia del riconoscimento del pieno ed effettivo diritto di difesa garantito ex lege al lavoratore e del comportamento datoriale secondo buona fede. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che aveva ritenuto carente del requisito dell’immediatezza il licenziamento disciplinare intimato a sette anni di distanza dall’infrazione contestata a dipendente postale, operatrice di sportello, concernente l’illecita estinzione di un libretto postale, oggetto di sentenza penale passata in giudicato). (Cass. 4/4/2007 n. 8461, Pres. Ianniruberto Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2007, 1250)
- In tema di licenziamento disciplinare, nel valutare l’immediatezza della contestazione occorre tener conto dei contrapposti interessi, del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda, del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dal loro verificarsi. Ne consegue che l’avere presentato a carico di un lavoratore denunzia di un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro non consente al datore di attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti. (Cass. 18/1/2007 n. 1101, Pres. De Luca Est. Curcuruto, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di L. Calcaterra, “Immediatezza della contestazione disciplinare e attesa della sentenza penale”, 687)
- Il principio dell’immediatezza della contestazione, nell’ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che il datore di lavoro deve procedere alla formale contestazione dei fatti addebitabili al lavoratore dipendente non appena ne venga a conoscenza e appaiano ragionevolmente sussistenti, ragion per cui, alla stregua del suddetto principio di immediatezza, non può consentirsi al datore di lavoro di procrastinare ingiustificatamente la contestazione stessa, in modo da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa da parte del lavoratore, con la conseguenza che, qualora la contestazione medesima intervenga tardivamente, il recesso datoriale deve qualificarsi come illegittimo. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha rigettato il ricorso incidentale proposto dal datore di lavoro e confermato l’impugnata sentenza di merito con la quale era stata rilevata l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro, in base alla riscontrata tardività della contestazione mossa al dipendente del cui comportamento – rilevante disciplinarmente e consistente nello svolgimento di altra attività lavorativa presso altra azienda – lo stesso datore era già a conoscenza da apprezzabile tempo). (Rigetta Trib. Roma 23 dicembre 2002). (Cass. 13/6/2006 n. 13621, Pres. Mercurio Est. Lamorgese, in Dir. e prat. lav. 2007, 81)
- L’art. 7 SL subordina la legittimità del procedimento di irrogazione della sanzione disciplinare alla contestazione degli addebiti, al fine di consentire al lavoratore di esporre le proprie difese in relazione al comportamento ascrittogli, e comporta per il datore di lavoro un dovere autonomo di convocazione del dipendente per l’audizione orale ove quest’ultimo abbia manifestato tempestivamente (entro il quinto giorno dalla contestazione) la volontà di essere sentito di persona. Pertanto ove l’audizione sia di fatto impedita – e quindi rinviata – per lo stato di malattia del dipendente incolpato che l’abbia espressamente richiesta, il conseguente ritardo dell’intimazione del licenziamento disciplinare non inficia quest’ultimo come carente del requisito della tempestività. (Cass. 4/4/2006 n. 7848, Pres. Sciarelli Est. Amoroso, in D&L 2006, con nota di Matteo Paulli, “Sul principio di effettività dell’audizione a difesa ex art. 7 SL”, 932)
- In caso di licenziamento disciplinare per fatto connesso a procedimento penale, costituisce violazione del principio di immediatezza ex art. 7 SL il contestare l’episodio, pur avendone conoscenza, solo all’esito del giudizio penale, senza sospendere cautelativamente il dipendente, e comunque provvedendo alla trasmissione della lettera di contestazione dopo oltre 4 mesi dalla sentenza di patteggiamento. (Cass. 11/1/2006 n. 241, Pres. Mileo Est. Curcuruto, in D&L 2006, con n. Stefano Muggia, “Il difficile rapporto tra fatti penalmente rilevanti e giudizio di legittimità del licenziamento”, 606)
- Ai fini dell’accertamento della sussistenza del requisito della tempestività del licenziamento, l’intervallo temporale tra l’intimazione del licenziamento disciplinare e il fatto contestato al lavoratore, non essendo necessario attendere l’esito del procedimento penale, assume rilievo solo in quanto rivelatore di una mancanza di interesse del datore di lavoro all’esercizio della facoltà di recesso; con la conseguenza che, nonostante il differimento di questo, l’incompatibilità degli addebiti con la prosecuzione del rapporto può essere desunta da misure cautelari (come la sospensione) adottate in detto intervallo dal datore di lavoro, giacchè tali misure dimostrano la permanente volontà del datore di lavoro di irrogare, eventualmente, la sanzione del licenziamento. (Cass. 6/12/2005 n. 26670, Pres. E Rel. Lupi, in Lav. Nella giur. 2006, 601)
- Nel licenziamento per motivi disciplinari e con riferimento al principio della tempestività della contestazione posto dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, qualora il lavoratore non deduca alcun concreto pregiudizio all’esercizio del proprio diritto di difesa, deve escludersi la violazione della garanzia prevista dal suddetto articolo. (Cass. 21/4/2005 n. 8305, Pres. Ravagnani Rel. Miani Canevari, in Dir. e prat. lav. 2005, 2109)
- In tema di licenziamento disciplinare, il principio della immediatezza della contestazione dell’addebito e quello della tempestività del recesso datoriale, la cui ratio riflette l’esigenza di osservanza della regola di buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, devono essere intesi in senso relativo, potendo essere compatibili con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto ed alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per un’adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e della validità o meno delle giustificazioni da lui fornite. L’accertamento relativo, che spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, deve tenere conto dell’illecito disciplinare oggetto di contestazione, non rilevando, ai fini della tempestività, la circostanza che il giudice di merito ritenga sussistente un illecito disciplinare diverso da quello contestato. (Cass. 4/3/2004 n. 4435, Pres. Mattone Relo. Amoroso, in Dir. e prat. lav. 2004, 1978 e in Lav.nella giur. 2004, 993)
- L’immediatezza della contestazione è condizione di legittimità del recesso per giusta causa, questa non potendosi ravvisare in quel fatto che, in concreto, non abbia determinato una reazione (relativamente) immediata del datore di lavoro. Tuttavia, se il contratto di lavoro collettivo consente o impone-di fronte ad un certo fatto-di procedere non alla risoluzione immediata ma alla sospensione cautelare in funzione di accertamento inequivoco della veridicità del fatto/giusta causa-l’immediatezza non va più riferita alla reazione espulsiva ma alla reazione cautelare che dimostra-nel sistema e secondo il sistema contratto-che il datore non vuole affatto soprassedere al licenziamento ma intende solo accertarne la fondatezza sia in termini di reale esistenza del fatto, sia in termini di gravità dello stesso. (Corte d’appello Milano 3/10/2002, Pres. e Rel. Mannacio, in Lav. nella giur. 2003, 490)
- Nel licenziamento per giusta causa l’immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione, ovvero rispetto a quella della sua contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, né la malattia del dipendente preclude al datore di lavoro l’intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragione d’essere la conservazione del posto di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto di lavoro. (Cass. 28/9/2002, n. 14074, Pres. Senese, Est. D’Agostino, in Riv. it. dir. lav. 2003, 394, con nota di Fabrizia Santini, Licenziamento per giusta causa: immediatezza del recesso ed efficacia durante il periodo di comporto).
- Il c.d. principio di immediatezza della contestazione ha carattere relativo e-soprattutto in pendenza di un processo penale-deve essere coordinato con la fondamentale esigenza di accertare l’effettivo accadimento dei fatti (compito a cui il processo penale è naturalmente preordinato). (Trib. Parma 9/1/2001, Est. Stefano Brusati, in Lav. nella giur. 2003, 87)
- Il principio della necessaria immediatezza della contestazione – che ha lo scopo di garantire la possibilità di un’utile difesa da parte del lavoratore e , quindi, l’effettività del contraddittorio, nonché la certezza dei rapporti giuridici nel contesto dell’esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede – deve trovare applicazione anche nel procedimento disciplinare instaurato nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo (Cass. 9/11/00, n. 14551, pres. Santojanni, in Lavoro giur. 2001, pag. 133, con nota di Miscione, Il diritto del lavoro e il licenziamento)
- La tempestività del licenziamento, quale requisito di validità dello stesso, ben può, nei casi concreti, essere compatibile con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti, sia quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un’unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, sia quando il medesimo comportamento è sottoposto a verifiche in sede penale, il che rende opportuno – anche per una maggiore garanzia a difesa dell’incolpato – attenderne l’esito per una più obiettiva valutazione, ovvero quando la complessità dell’organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona abilitata ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento di tutte quelle circostanze che, unitamente al comportamento del lavoratore, costituiscono i necessari presupposti dell’esercizio del diritto di recesso (Cass. 12/10/00, n. 13615, pres. de Musis, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1085, con nota di Manganaro, Brevi note sulla tempestività del licenziamento disciplinare)
- Anche il licenziamento per giustificato motivo – oltre a quello per giusta causa – per la sua validità richiede il rispetto del principio dell’immediatezza, atteso che anche esso è idoneo a determinare l’estinzione del rapporto, seppure non con effetto immediato, bensì con preavviso, tale principio risponde all’esigenza di garantire la possibilità per il lavoratore di una utile difesa (pregiudicata, all’opposto, dalla tardività, anche sotto il profilo della difficoltà del ricordo a fini di ricostruzione difensiva dei fatti) e, quindi, una effettività del principio del contraddittorio tra le parti del rapporto di lavoro; ciò che rileva ai fini del rispetto del principio in questione è la distanza temporale tra la data in cui furono commessi i fatti addebitati e quella in cui fu disposto il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo (nella specie l’inizio dell’assenza non giustificata da certificazione medica risaliva ad oltre due anni prima del comminato licenziamento) (Cass. 23/8/00, n. 11038, pres. Santojanni, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2089 e in Orient. giur. lav. 2000, pag. 782)
- Il requisito della tempestività nella contestazione di fatti disciplinarmente rilevanti va inteso in senso relativo, ma è possibile garantire efficacia all’uso del potere disciplinare solo se vi sia una sufficiente immediatezza tra infrazione e contestazione. Pertanto, la sanzione del licenziamento, irrogata con grave e ingiustificato ritardo, tradisce del tutto la propria natura e funzione e fa sorgere il legittimo sospetto di un abuso di quella posizione di supremazia che il legislatore ha sì inteso riconoscere al datore di lavoro, ma nel rispetto dei rigorosissimi limiti fissati dall’art. 7 SL (Pret. Milano 30/6/95, est. Atanasio, in D&L 1995, 1045)
Proporzionalità della sanzione
- Il licenziamento quale massima sanzione disciplinare deve considerarsi sproporzionato se conseguente a comportamenti del lavoratore di reazione a una serie di vessazioni poste in essere nei suoi confronti e integranti la fattispecie di mobbing. (Cass.- 25/7/2013 n. 18093, Pres. Stile Est. Matera, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Giuseppina Pensabene Lionti, “Licenziamento e mobbing: profili sostanziali e processuali di un rapporto ‘complesso’”, 254)
- Non viola il principio di proporzionalità tra consistenza degli addebiti e gravità della sanzione disciplinare, il licenziamento irrogato dall’Amministrazione scolastica a un dipendente (nel caso, un collaboratore scolastico), per la condotta di insubordinazione consistente nella mancata, ripetuta e ingiustificata sottoposizione a visita medica diretta ad accertare l’idoneità psico-fisica alle mansioni, non avendo in tal modo potuto l’Amministrazione verificare la permanenza di uno dei requisiti essenziali per la permanenza del rapporto di lavoro. (Trib. Rimini 12/12/2008, Est. Cetro, in Lav. nelle P.A. 2008, 1131)
- In tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, la sanzione disciplinare deve essere proporzionale alla gravità dei fatti contestati sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore nell’esercizio del suo potere disciplinare, avuto riguardo alle ragioni che hanno indotto a ritenere grave il comportamento del dipendente, sia da parte del giudice del merito, il cui apprezzamento della legittimità e congruità della sanzione applicata, se sorretto da adeguata e logica motivazione, si sottrae a censure in sede di legittimità. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C., aveva ritenuto che la discrezionalità del datore nel graduare la sanzione disciplinare dovesse trovare riscontro in una motivazione puntuale e coerente; doveva ritenersi, conseguentemente, illegittimo il licenziamento irrogato a un lavoratore per un illecito disciplinare, quando, per la medesima condotta – consistente nell’utilizzazione personale dell’apparecchio telefonico portatile di servizio con invio di SMS – posta in essere da altri lavoratori, erano state inflitte sanzioni conservative e non espulsive, senza che da parte del datore di lavoro Telecom Italia SpA fossero state indicate specifiche ragioni di diversificazione). (Cass. 8/1/2008 n. 144, Pres. Mattone Est. Roselli, in Lav. nella giur. 2008, 524, e in Dir. e prat. lav. 2008, 1877)
- In tema di sanzioni disciplinari il fondamentale principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della infrazione deve essere rispettato sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore di lavoro nell’esercizio del suo potere disciplinare, sia in sede di controllo che, della legittimità e della congruità della sanzione applicata, il giudice sia chiamato a fare. Ai fini di tale valutazione il giudice deve tener conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa. L’apprezzamento di merito della proporzionalità tra infrazione e sanzione sfugge, peraltro, a censure in sede di legittimità se la valutazione del giudice di merito è sorretta da adeguata e logica motivazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto legittima la decisione del datore di lavoro di di risolvere il rapporto di lavoro per l’infrazione commessa dal dipendente consistita nell’aggressione con pugni e calci ai danni di un collega superiore in grado nei locali della mensa aziendale). (Cass. 27/9/2007 n. 20221, Pres. Mattone Est. Balletti, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Gianluigi Girardi, 391)
- In tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento di fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, si sottraggono al riesame in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che, con motivazione ineccepibile, aveva valutato le violazioni attribuite al lavoratore, liquidatore della spa Fondiaria – consistite nell’aver liquidato danni sulla base di semplici fotografie delle autovetture incidentate fornite dal carrozziere -, sia singolarmente che nel loro complesso, come idonee a integrare un licenziamento per giusta causa). (Cass. 15/11/2006 n. 24349, Pres. Ciciretti Est. Di Nubila, in Lav. nella giur. 2007, 621 e in Dir. e prat. lav. 2007, 1596)
- Il licenziamento disciplinare, come ogni altra sanzione, deve rappresentare una conseguenza proporzionata alla violazione commessa dal lavoratore; anzi, essendo la più grave delle sanzioni, occorre che la mancanza di cui il dipendente si è reso responsabile, rivesta una gravità tale che qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro e sia inoltre tale da far venir meno l’elemento fiduciario costituente il presupposto fondamentale della collaborazione tra le parti del rapporto di lavoro. (Cass. 2/11/2005 n. 21213, Pres. Ianniruberto Rel. Balletti, in Lav. Nella giur. 2006, con commento di Gianluigi Girardi, 545)
- La sanzione, per violazione dei doveri di lealtà e correttezza da parte del lavoratore, per aver sottratto o riprodotto documenti aziendali dev’essere proporzionata alla gravità dell’inadempimento nel caso concreto (nella specie il giudice ha escluso che la riproduzione di documenti nella legittima disponibilità del dipendente, che lo riguardavano direttamente in funzione dell’attività espletata e che non rivestivano carattere di riservatezza e segretezza potesse comportare il licenziamento). (Trib. Firenze 28/2/2004, Est. Nuvoli, in D&L 2004, 412, con nota di Marco Orsenigo, “In tema di licenziamento disciplinare nell’anno di interdizione matrimoniale”)
- Nel licenziamento disciplinare per un fatto che nella sua oggettività sarebbe riconducibile ad un’ipotesi di giusta causa (minacce ed aggressioni gratuite), la valutazione della gravità del comportamento del lavoratore deve tener conto, proprio perché si tratta di un provvedimento di carattere disciplinare, della grave invalidità del lavoratore medesimo quando sia determinata da disturbi di carattere psichico incidenti sull’impulsività dei comportamenti e fortemente riduttiva del reale intento aggressivo ed intimidatorio del comportamento oggettivamente tenuto. (Trib. Milano 30/5/2003, Est. Ianniello, in Lav. nella giur. 2004, 89)
- È illegittimo, per violazione del principio di proporzionalità, il licenziamento disciplinare nel quale la gravità dell’inadempimento non sia idoneo né sul piano oggettivo, ovvero sul piano della lesione effettiva o potenziale dell’interesse del datore di lavoro, né sul piano soggettivo, ovvero sul piano della colpa ascrivibile al lavoratore, ad elidere l’elemento fiduciario. (Corte d’Appello Brescia 15/4/2003, Pres. Nora Est. Terzi, in D&L 2003, 776)
- L’aver manifestato per iscritto – con invio anche al management della casa madre inglese – giudizi di incapacità sui dirigenti della filiale italiana a causa delle frequenti crisi aziendali e della messa dei lavoratori in cassa integrazione, sebbene non costituisca esercizio del legittimo diritto di critica e possa essere lesivo della reputazione dei dirigenti suddetti, non legittima tuttavia l’irrogazione del provvedimento di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, sproporzionati a fronte di una mancanza parzialmente scusabile con l’interesse di fatto del lavoratore al buon andamento dell’azienda in cui opera, da cui discende la sua sicurezza del posto e della retribuzione (Cass. 13/11/00, n. 14671, pres. Ianniruberto, est. Sciarelli, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 145)
- Non costituisce giusta causa, per violazione del principio di proporzionalità, l’inadempimento del lavoratore, pur grave, ragionevolmente destinato a non ripetersi (nella specie, è stato dichiarato illegittimo il licenziamento di un infermiere professionale in reparto psichiatrico che, dopo aver gettato per terra un paziente affetto da gravissima insufficienza mentale lo ha preso a calci al torace o allo stomaco quando stava a terra, dichiarando ad una infermiera che lo invitava a fermarsi che non ne aveva alcuna intenzione, in quanto aver perso per un momento il lume della ragione costituisce evento eccezionale non ripetibile) (Trib. Roma 19/10/00, est. Buonassisi, in Lavoro giur. 2001, pag. 136, con nota di Miscione, Il diritto del lavoro e il licenziamento)
- Per quanto sia vero che il vincolo fiduciario può risultare compromesso anche in assenza di un danno grave, tuttavia non può non considerarsi che un inadempimento del lavoratore, pur apprezzabile sul piano disciplinare, può risultare non sufficiente per l’inflizione di una sanzione, quale il licenziamento, capace di privare lui e la sua famiglia dei mezzi di sussistenza, valutata anche l’entità del danno patrimoniale arrecata al datore di lavoro, in riferimento alle dimensioni dell’impresa (Nella specie la S.C. ha accolto il ricorso del lavoratore licenziato rinviando ad altro collegio di merito, in quanto non è risultato chiaro quale onere aggiuntivo derivasse all’azienda dalla scelta di consumare il buono pasto al di fuori della pausa pranzo prevista) (Cass. 18/2/00, n. 1892, pres. Priscoli, in Mass. giur. lav. 2000, pag. 389 con nota di De Marinis, La valutazione della giusta causa di licenziamento: dalla Corte criteri ulteriori e piu’ rigidi)
- Il giudice del merito, adito per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa, deve necessariamente procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della mancanza del lavoratore; e tale valutazione – che si risolve in un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione adeguata e logica – va condotta non già in astratto, ma con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, non solo inquadrandosi l’addebito nelle specifiche modalità del rapporto, ma anche tenendosi conto della natura del fatto contestato, da esaminarsi non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche in quello soggettivo e intenzionale, nonché di tutti gli altri elementi idonei a consentire l’adeguamento della disposizione normativa dell’art. 2119 c.c. – richiamato dall’art. 1, l. n. 604/66 – alla fattispecie concreta (nella specie la sentenza di merito, confermata dalla S.C., in relazione al licenziamento irrogato a un funzionario bancario che aveva prodotto in giudizio documenti aziendali, aveva ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva, essendosi accertato che i documenti non erano stati sottratti, ma solo fotocopiati allorché si trovavano nella disponibilità del dipendente per ragioni di ufficio e non erano comunque riservati) (Cass. 2/2/00, n. 1144, pres. Lanni, est. Coletti, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 101, con nota di Monaco, L’obbligo di riservatezza delle persone giuridiche e la prestazione fedele: un percorso di lettura)
- Nel caso in cui il codice disciplinare applicabile preveda per determinate infrazioni sanzioni di tipo conservativo, è illegittimo il licenziamento disciplinare inflitto al lavoratore in ragione della commissione di tali infrazioni (Trib. Milano 17 novembre 1999, est. Frattin, in D&L 2000, 464, n. Ianniello, Codice disciplinare e licenziamento, tra rapporto di lavoro privato e pubblico)
- È illegittimo per violazione del principio di proporzionalità il licenziamento disciplinare nel quale la gravità rilevante sia stata riferita non già al comportamento del lavoratore in sé considerato, quanto invece al danno patrimoniale patito dal datore di lavoro (Pret. Lecco 28/10/97, est. Cecchetti, in D&L 1998, 767)
- La risoluzione del rapporto di lavoro può conseguire, secondo il disposto di legge, solo a illeciti di proporzionata gravità e non a fatti, seppur penalmente rilevanti, che vengano ad arrecare un tenue danno patrimoniale al datore di lavoro, rispetto ai quali non può ritenersi interrotto in modo irreparabile il vincolo fiduciario, che sta alla base di ogni rapporto di lavoro (nella fattispecie il lavoratore si era appropriato di una confezione di pepe del valore commerciale di L. 1800) (Cass. 23/6/97 n. 5601, pres. Mollica, est. Simoneschi, in D&L 1998, 470, n. MUGGIA, Sul licenziamento per furto di lieve entità)
- Il ricorso al licenziamento, sanzione massima e definitivamente espulsiva, si giustifica solo a fronte di illeciti di proporzionata gravità e non a fatti sia pure deplorevoli ma che, oltre ad arrecare un danno patrimoniale di tenue entità, rivestano carattere eccezionale e non siano destinati verosimilmente a ripetersi (Pret. La Spezia 4/6/96, est. Fortunato, in D&L 1997, 383, n. Balli, Dalle omissioni del dipendente al recesso per giusta causa del datore di lavoro; un percorso non obbligato)
Genericità della contestazione
- Il principio della specificità della contestazione disciplinare non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, sicché è ammissibile la contestazione per relationem ogniqualvolta i fatti e i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato. (Cass. 9/6/2016 n. 11868, Pres. Macioce Est. Di Paoloantonio, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2017, II, con nota di A. Allamprese, “Il licenziamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni davanti alla Corte di Cassazione”, 78)
- La contestazione di un addebito disciplinare costituisce atto eminentemente formale e, in quanto tale, deve essere chiara, complet e inequivocabile nel suo contenuto, né è suscettibile di successive modifiche o integrazioni nelle sue parti essenziali, e, tantomeno, di sottintesi. (Cass. 22/2/2008 n. 4674, Est. Monaci, in D&L 2008, con nota di Giuseppe Bulgarini D’Elci e Caterina Mele, “Sufficienza e immutabilità della contestazione disciplinare: due principi che resistono nel tempo”, 641)
- Nel licenziamento per motivi disciplinari, la regola della specificità della contestazione dell’addebito non richiede necessariamente l’indicazione anche del giorno e dell’ora in cui gli stessi fatti sono stati commessi, essendo invece sufficiente che il tenore della contestazione sia tale da consentire al lavoratore di individuare nella loro materialità i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari. (Trib. Milano 1/10/2007, Est. Di Leo, in Lav. nella giur. 2007, 200)
- In tema di licenziamento individuale per giusta causa, nel caso sia contestata al lavoratore la pronuncia di insulti e minacce senza la specificazione del contenuto delle frasi, affinchè sia integrata la violazione della garanzia posta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori è necessario che si sia verificata una concreta lesione del diritto di difesa del lavoratore. (Nella specie la Corte Cass. ha confermato, relativamente a tale profilo, la sentenza di merito, secondo la quale la difesa esercitata in sede di giustificazione aveva comprovato la non genericità della contestazione). (Cass. 21/4/2005 n. 8303, Pres. Senese Rel. Balletti, in Dir. e prat. lav. 2005, 2108)
- L’obbligo di comunicare al datore di lavoro di comunicare al lavoratore i motivi del licenziamento (previsto dall’art. 2, L. 15 luglio 1966, n. 604) presuppone che i suddetti motivi non siano stati portati a conoscenza del dipendente in precedenza; qualora vi sia stata una precedente contestazione disciplinare dei fatti che hanno poi determinato il licenziamento, essa di per sé assolve all’onere di indicazione dei motivi del licenziamento e, a fronte di essa, il lavoratore può richiedere l’ulteriore specificazione dei motivi, ove non li ritenga sufficientemente precisati, all’interno del procedimento disciplinare che si apre con la contestazione, senza che sia configurabile un obbligo del datore di lavoro di rispondere ad una diversa richiesta di motivi, esterna a tale procedimento. (Cass. 14/1/2003, n. 454, Pres. Mercurio, Rel. Cuoco, in Lav. nella giur. 2003, 479)
- L’esigenza di specificità della contestazione disciplinare non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale, né si ispira ad uno schema precostituito ed a una regola assoluta ed astratta, in quanto le necessità descrittive dell’atto di incolpazione si modellano in relazione al principio di correttezza che informa il rapporto di lavoro, essendo esse finalizzate alla esclusiva soddisfazione dell’interesse dell’incolpato all’esercizio pieno del diritto di difesa, all’interno del rapporto contrattuale datore/dipendente e nel contesto del più ristretto e consapevole mondo dell’azienda. (Cass. 18/6/2002, n. 8853, Pres. Mileo, Est. Di Lella, in Riv. it. dir. lav. 2003, 91, con nota di Sndro Mainardi, Vecchie e nuove questioni in materia di procedimento disciplinare, titolarità del potere e termini a difesa).
- Non costituisce motivo di illegittimità del licenziamento la mancata specificazione dei giorni delle assenze lavorative, dovendo considerarsi, già in astratto, che il requisito di specificità della contestazione disciplinare può dirsi soddisfatto dalla descrizione della condotta disciplinare in forme che consentano al lavoratore la difesa sui fatti contestatagli (Trib. Nocera Inferiore 26/5/00, pres Russo, est. Fortunato, in Lavoro giur. 2000, pag. 1159, con nota di Buonaiuto, Il licenziamento disciplinare per attività lavorativa durante la malattia)
- La contestazione dell’addebito, nel contesto di un procedimento disciplinare terminato con il licenziamento, avendo lo scopo di consentire al lavoratore un’immediata ed efficace difesa, deve rivestire il carattere della specificità, ossia deve essere enucleato il comportamento disciplinarmente significativo e non solo un evento (Trib. Roma 15/6/2000, pres. e est. Cocchia, in Lavoro giur. 2001, pag. 1076, con nota di Montanari, Specificità della contestazione dell’addebito e valutazione dell’infrazione nel licenziamento)
- È nullo il recesso intimato all’esito di un procedimento disciplinare avviato sulla base della generica contestazione di una condotta omissiva del lavoratore, senza che la lettera di contestazione indichi in maniera circostanziata la norma di diligenza violata dal trasgressore (Pret. Lecco 28/10/97, est. Cecchetti, in D&L 1998, 767)
- È nullo il recesso intimato all’esito di un procedimento disciplinare avviato sulla base di una contestazione generica dell’addebito, tale da non consentire al lavoratore l’esercizio del diritto di difesa (nel caso di specie i ricorrenti avevano tutti ricevuto lettere di contestazione aventi contenuti perfettamente identici e prive delle indicazioni necessarie ed essenziali per individuare nella loro materialità il fatto o i fatti oggetto della procedura disciplinare. Il tenore letterale delle lettere di contestazione si riferiva, infatti, per tutti i ricorrenti indistintamente e genericamente, al “compimento di atti diretti a impedire l’accesso al posto di lavoro da parte dei dipendenti non aderenti allo sciopero”) (Pret. Roma 13/7/97, est. Ciampi, in D&L 1998, 179)
Giustificazioni
- Anche se l’art. 7 l. 20 maggio 1970, n. 300, non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo del datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare la documentazione su cui essa si basa, il datore di lavoro è tuttavia tenuto a offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali nel caso in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di permettere alla controparte una difesa adeguata. (Cass. 11/9/2012 n. 15169, in Lav. nella giur. 2012, 1217)
- L’obbligo del datore di lavoro di dar seguito alle richieste del dipendente di integrare le proprie giustificazioni sussiste solo quando la stessa risponda a esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge; la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di buona fede e correttezza che devono regolare l’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro. (Trib. Gennaio 29/1/2007, Pres. Dott. Gallo Rel. Dott.ssa Calvosa, in Lav. nella giur. 2007, 948)
- L’art. 7 St. Lav, stabilendo che il datore di lavoro non possa adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza aver sentito le sue difese, concreta un preciso limite all’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro che deve rispettare il diritto di difesa del dipendente e consentire allo stesso di esercitarlo personalmente, attraverso la sua audizione, con o senza l’assistenza di un rappresentante sindacale, ovvero per iscritto. Pertanto è illegittimo il licenziamento disciplinare comminato al dipendente che a causa di uno stato mentale di scompenso psicotico e di conseguente ricovero ospedaliero coattivo di cui il datore di lavoro è a conoscenza – si trovi nella assoluta impossibilità di presentare la giustificazione ovvero di comunicare la sua eventuale volontà di presentarle. (Trib. Milano 5/2/2003 Est. Vitali, in Lav. nella giur. 2003, 1173)
- Il termine di cinque giorni dalla contestazione dell’addebito, prima della cui scadenza è preclusa, a norma dell’art. 7, quinto comma della l. 20 maggio 1970, n. 300, la possibilità di irrogazione della sanzione disciplinare, ivi compreso il licenziamento, pur essendo stabilito per consentire al lavoratore di comunicare al datore di lavoro le proprie giustificazioni, risponde ad una ratio più completa ed organica, ravvisabile non solo nella necessità di consentire al datore di lavoro di adottare la sanzione dopo aver conosciuto le difese dell’incolpato, ma anche nella necessità per lo stesso datore di fruire di un tempo, anche se molto breve, di ripensamento e di “raffreddamento”, tale comunque da fargli adottare i più gravi provvedimenti con la necessaria ponderazione; conseguentemente prima dell’intero decorso del detto termine non è consentito al datore stesso di irrogare il licenziamento. (Cass. 25/7/2002, n. 10972, Pres. Mileo, Est. Cataldi, in Riv. it. dir. lav. 2003, 92).
- Non costituisce violazione del procedimento disciplinare il comportamento del datore di lavoro che non aderisca alla richiesta del lavoratore di essere ascoltato personalmente a difesa, laddove tale richiesta sia pervenuta oltre il termine di cinque giorni dalla contestazione degli addebiti previsto dal quinto comma dell’art. 7 l. 20 maggio 1970, n. 300, e successivamente a giustificazioni scritte già rese in termini, che hanno per ciò solo consumato ed esaurito il diritto di difesa del lavoratore. (Cass. 18/6/2002, n. 8853, Pres. Mileo, Est. Di Lella, in Riv. it. dir. lav. 2003, 91, con nota di Sndro Mainardi, Vecchie e nuove questioni in materia di procedimento disciplinare, titolarità del potere e termini a difesa)
- Il diritto di difesa, nell’ambito del procedimento disciplinare, trova competa esplicazione, nel caso in cui il lavoratore abbia espressamente richiesto di essere sentito, soltanto con la sua audizione; pertanto ove la richiesta pervenga al datore di lavoro prima del licenziamento, questi non potrà esimersi dal sentire il lavoratore per il solo fatto di aver avuto conoscenza della relativa richiesta oltre i 5 giorni dalla comunicazione degli addebiti, pena la nullità dell’atto di recesso (Pret. Napoli, sex. Frattamaggiore, 28/6/95, in D&L 1996, 232, nota QUATTROMINI, In tema di richiesta di audizione del lavoratore per fornire le giustificazioni oltre i 5 giorni dalla contestazione)
Elemento psicologico
- La forte emozione non costituisce di per sé impedimento all’intendere e volere; onde anche la mancanza grave commessa sotto l’effetto di tale emozione può giustificare il licenziamento (Cass. 8/1/00 n. 143, pres. Trezza, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 764, con nota di D’Aponte, Molestie sessuali e licenziamento: è necessaria la prova del c.d. mobbing e di Izzi, Denuncia di mobbing e licenziamento per giusta causa: chi la fa l’aspetti?)
- Per stabilire la sussistenza della giusta causa di licenziamento si deve porre particolare attenzione all’intensità dell’elemento soggettivo del comportamento contestato, non essendo sufficiente l’irregolarità oggettiva della condotta del lavoratore a fondare il giudizio di proporzionalità tra l’illecito e la sanzione del licenziamento (nella specie, il lavoratore era stato licenziato per non aver formalizzato la comunicazione prevista dall’art. 34, 1° comma, c.c.n.l. lavoratori del credito del 23/11/90, a mente del quale il lavoratore che venga a conoscenza, per atto dell’autorità giudiziaria, pubblico ministero o altro magistrato competente, che nei suoi confronti sono svolte indagini preliminari, ovvero è stata esercitata l’azione penale per reato che comporta l’applicazione di pena detentiva anche in alternativa a pena pecuniaria, deve darne immediata notizia all’azienda; analogo obbligo incombe sul lavoratore che abbia soltanto ricevuto informazione di garanzia) (Cass. 29/11/99 n. 13354, pres. Trezza, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 483)
Normativa contrattuale
- Licenziamento disciplinare e norme della contrattazione collettiva.
Il caso è quello di un capo reparto licenziato per giusta causa per aver omesso di segnalare ai superiori la manomissione sistematica, da parte dei dipendenti del reparto, di dispositivi antinfortunistici, cui era conseguito anche un infortunio. Postosi in giudizio il problema della riconducibilità del fatto a una norma collettiva che esemplifica casi che meritano il licenziamento piuttosto che ad altra che indica casi apparentemente simili che meritano una sanzione conservativa, la Corte coglie l’occasione per riassumere, in maniera articolata e completa, la propria giurisprudenza in materia di interpretazione delle norme collettive e dei limiti della loro rilevanza in un giudizio relativo alla legittimità di un licenziamento. (Cass. 7/5/2020 n. 8621, Pres. Di Cerbo Rel. Boghetich, in Wikilabour, Newsletter n. 10/2020) - Il principio secondo cui i comportamenti per i quali il contratto collettivo commina una sanzione disciplinare conservativa non possono formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice di merito non trova applicazione nel caso in cui non vi sia un’integrale coincidenza tra la fattispecie contrattuale astratta e il fatto concreto oggetto di contestazione. (Cass. 3/7/2015 n. 13671, Pres. Lamorgese Rel. Nobile, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Nicolò Rossi, “Contrattazione collettiva e potere disciplinare del datore di lavoro”, 1056)
- È pienamente legittima la clausola del contratto collettivo che preveda la decadenza dall’esercizio del potere disciplinare a seguito della mancata risposta (entro un certo periodo di tempo) del datore di lavoro alle giustificazioni fornite dal lavoratore, ben potendo la contrattazione collettiva, una volta assicurato il rispetto della procedura ex art. 7 l. n. 300 del 1970, modellare poi la disciplina del potere disciplinare, prevedendo precisi termini per l’adozione dei relativi provvedimenti. (Cass. 10/6/2015 n. 12073, Pres. Lamorgese Rel. Venuti, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Nicolò Rossi, “Contrattazione collettiva e potere disciplinare del datore di lavoro”, 1056)
- La previsione, da parte della contrattazione collettiva, della recidiva in successive mancanze disciplinari come ipotesi di giustificato motivo di licenziamento, non esclude il potere del giudice di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorché connotati dalla recidiva, ai fini dell’accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva; tale potere costituisce naturale conseguenza delle norme di cui agli artt. 3 L. 15/7/66 n. 604, 7 SL e 2119 c.c., i quali sanciscono il principio secondo cui la sanzione irrogata al lavoratore deve sempre essere proporzionata al comportamento posto in essere. (Cass. 20/11/2007 n. 24132, Pres. Sciarelli Est. Mammone, in D&L 2008, con nota di Enrico U.M. Cafiero, “Termini e modalità di giustificazione della malattia”, 298)
- Qualora un contratto collettivo di lavoro preveda, nel caso in cui il dipendente venga sottoposto ad una misura restrittiva della libertà personale, la più grave sanzione disciplinare (licenziamento senza preavviso) solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna, l’esemplificazione delle condotte non è vincolante né tassativa, permanendo comunque, in capo al datore di lavoro, la facoltà di recesso di cui all’art. 2119 c.c., disposizione che, nel prevedere il recesso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto, attribuisce al giudice del merito il potere dovere di valutare l’idoneità della dedotta causa di risoluzione del rapporto. Risponde, pertanto, a criteri di coerenza l’interpretazione del giudice di merito che la correli all’art. 2119 c.c. non una semplice misura restrittiva della libertà personale, quale prevista dalla disposizione contrattuale recata dall’art. 33 del ccnl postelegrafonici, ma una misura restrittiva collegata ad un particolare comportamento di rilievo penale, già posto in essere in precedenza dalla lavoratrice, e la valutazione sull’incidenza di un comportamento, esulante dalla sfera strettamente lavorativa, sul rapporto fiduciario, in quanto sintomo di inaffidabilità e scarsa rettitudine morale; l’accertamento relativo non può essere limitato alle mansioni in concreto espletate al momento del licenziamento, ma va esteso al complesso delle mansioni affidabili nell’ambito dell’inquadramento sindacale e delle peculiarità dell’attività aziendale nel suo complesso. (Nella specie, la lavoratrice – addetta ad un ufficio postale – era stata arrestata con l’accusa di concorso in detenzione a fini di spaccio di una rilevante quantità di droga sequestrata proprio nella abitazione della stessa, dopo che aveva già subito due procedimenti per violazione della legge sugli stupefacenti, il primo concluso con sentenza di patteggiamento e il secondo con sentenza di condanna, e il giudice di merito ha ricondotto all’art. 2119 c.c. la misura restrittiva ricollegata al particolare comportamento di rilievo penale, già posto in essere dalla lavoratrice in precedenza, considerando la peculiarità del contesto aziendale, nel quale anche semplici lettere possono contenere valori ed in cui non vi è una rigida divisione tra i vari ambiti lavorativi, tale da escludere qualsiasi ingerenza di un soggetto poco affidabile in settori delicati). (Cass. 17/6/2004 n. 11369, Pres. Ciciretti Rel. Celentano, in Lav. nella giur. 2004, 1293)
- Qualora il contratto collettivo elenchi tra le sanzioni disciplinari il licenziamento senza preavviso, dovrà ritenersi applicabile allo stesso anche l’art. 7, 6° e 7° comma, SL. (Corte d’Appello Milano 30/10/2003, Pres. Mannacio Est. De Angelis, in D&L 2003, 957)
- E’ illegittimo il licenziamento disciplinare comunicato al dipendente oltre il termine massimo di 15 giorni dalla scadenza del termine allo stesso assegnato per presentare le proprie difese, in violazione di quanto stabilito dal Ccnl applicato (Tribunale Milano 19 luglio 2000, est. Atanasio, in D&L 2000, 1011)
- L’avvenuta estensione (ad opera di giurisprudenza costituzionale e di legittimità) al licenziamento disciplinare delle garanzie procedimentali previste per le sanzioni conservative non esclude che ulteriori regole fissate dai contratti collettivi possano prevedere procedimenti disciplinari diversi, rispettivamente per le sanzioni conservative e per il licenziamento disciplinare, tenuto conto che la comune appartenenza delle sanzioni in argomento al genus delle sanzioni disciplinari non ne comporta la necessaria regolamentazioni con norme procedurali identiche (nel caso si faceva questione dell’applicabilità o no al procedimento di irrogazione del licenziamento del termine di decadenza previsto nel contratto collettivo per l’irrogazione delle sanzioni conservative) (Cass. 25/11/99, n.13137, pres. D’Angelo, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 733, con nota di Marzano, Estensibilità degli obblighi procedurali contrattuali in tema di licenziamento disciplinare)
- Nel caso di previsione da parte del Ccnl di settore di un termine finale per la comunicazione del licenziamento disciplinare, entro tale termine il provvedimento deve essere non solo adottato ma altresì ricevuto dal lavoratore; con la conseguenza che il ricevimento da parte del destinatario oltre la scadenza del termine contrattualmente previsto rende illegittimo il licenziamento (Trib. Milano 29 ottobre 1999, est. Atanasio, in D&L 2000, 214)
- La sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p. che disciplina l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, non è tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini; tuttavia nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato (nella specie, come fatto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso), ben può il giudice di merito, nell’interpretare la volontà delle parti collettive espresse nella clausola contrattuale, (interpretazione a lui esclusivamente rimessa e incensurabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione e rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale), ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna” si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza cosiddetta “di patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dall’onere della relativa prova in cambio di una riduzione della pena (Nella specie, la sentenza della Cassazione ha confermato la sentenza di merito che in relazione al Ccnl, per i dipendenti delle Poste Italiane prevedente il licenziamento in tronco in caso di sentenza penale di condanna, aveva rigettato l’impugnativa di licenziamento da parte dei lavoratori che, imputati di rapine in banca, avevano “patteggiato” la pena, senza perciò pervenire ad una sentenza di condanna in senso tecnico) ( Cass. 18/11/99, n. 12804, pres. Mileo, in Dir. Lav. 2000, pag. 287, con nota di Sanci, Equiparabilità della sentenza di patteggiamento alla sentenza penale di condanna ai fini del licenziamento senza preavviso)
- E’ legittima la previsione della contrattazione collettiva che assuma quale giustificato motivo di licenziamento il ripetersi nel tempo di comportamenti inadempienti, anche quando gli stessi vari episodi di inadempimento singolarmente considerati risultino punibili con sanzioni disciplinari non espulsive (Pret. Nola, sez. Pomigliano d’Arco, 25/11/95, est. Perrino, in D&L 1996, 769, nota BALLETTI, Reiterazione di inadempimenti e valutazione della condotta complessiva del lavoratore nel licenziamento per recidiva)
- La previsione di cui all’art. 23 del CCNL per gli addetti alle aziende metalmeccaniche private di un termine finale per la comminazione del licenziamento disciplinare, comporta decadenza dal potere disciplinare e la conseguente invalidità del provvedimento, quando lo stesso sia stato soltanto adottato ma non giunto a conoscenza del destinatario entro tale termine (Pret. Napoli, sez. Afragola, 27/4/95, in D&L 1996, 228; in senso conforme, ma in relazione all’art. 56 CCNL Gomma e plastica, v. Pret. Monza 24/10/95, est. Padalino, in D&L 1996, 228. In senso sempre conforme, v. ancora Cass. 22/3/95 n. 5642, pres. Alvaro, est. Toriello, in D&L 1995, 1047)
Immutabilità della contestazione
- In tema di licenziamento disciplinare, il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e può dirsi violato solo ove venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove o diverse rispetto a quelle contestate, così da determinare una concreta menomazione del diritto di difesa dell’incolpato, e non quando il datore di lavoro proceda a un diverso apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo fatto, come accade nell’ipotesi di modifica dell’elemento soggettivo dell’illecito. (Cass. 15/6/2020 n. 11540, Pres. Di Cerbo Est. Boghetich, in Lav. nella giur. 2020, 1100)
- Il principio dell’immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, ricompreso in quello originario, purché ciò avvenga nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione. (Cass. 9/6/2016 n. 11868, Pres. Macioce Est. Di Paoloantonio, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2017, II, con nota di A. Allamprese, “Il licenziamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni davanti alla Corte di Cassazione”, 78)
- Il principio della immutabilità della contestazione dell’addebito disciplinare mossa al lavoratore ai sensi dell’art. 7 Stat. Lav. preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non viene di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro. (Trib. Milano 18/7/2013, Giud. Scarzella, in Lav. nella giur. 2013, 1047)
- Il principio della immutabilità della contestazione disciplinare preclude al datore di lavoro di far valere, a sostegno della legittimità del licenziamento stesso, circostanze nuove e diverse rispetto a quelle contestate, tali da implicare una diversa valutazione dell’infrazione anche diversamente tipizzata dal codice disciplinare apprestato dalla contrattazione collettiva, dovendosi garantire l’effettivo diritto di difesa che la normativa sul procedimento disciplinare di cui all’art. 7 L. n. 300/1970 assicura al lavoratore. (Trib. Milano 15/10/2012, Giud. Colosimo, in Lav. nella giur. 2013, 98)
- Nel licenziamento disciplinare, il principio di immutabilità, che presidia la contestazione degli addebiti, a fini di garanzia del diritto di difesa del lavoratore incolpato, non preclude successive modificazioni nei fatti contestati che riguardino circostanze prive di valore identificativo della fattispecie di illecito disciplinare. (Cass. 7/6/2003 n. 9167, Pres. Ciciretti Est. De Luca, in Foro it. 2003, parte prima, 26379
- È nullo il licenziamento disciplinare adottato in violazione del principio noto come “cristallizzazione dei motivi di licenziamento”, secondo il quale rispetto agli addebiti contestati il datore di lavoro non può successivamente muovere più alcun addebito (in ipotesi anche veritiero e fondato), poiché su quel nuovo profilo il dipendente non ha avuto al momento opportuno possibilità di replica (Pret. Lecco 28/10/97, est. Cecchetti, in D&L 1998, 767)
- Per il principio di immutabilità – volto a salvaguarda il diritto di difesa del lavoratore – nella causa di licenziamento (ai fini della verifica della legittimità dello stesso) al datore di lavoro è preclusa la possibilità di addurre fatti diversi da quelli dedotti nella contestazione preventiva e poi posti a base del licenziamento, salvo che questi configurino circostanze dell’addebito già contestato (Pret. Trento 25/6/96, est. Flaim, in D&L 1997, 179, nota PANDURI, Ancora sull’immutabilità dei fatto contestati osti a fondamento di un licenziamento disciplinare)
- È nullo il licenziamento disciplinare adottato in violazione del principio noto come “cristallizzazione dei motivi di licenziamento”, secondo il quale rispetto agli addebiti contestati il datore di lavoro non può successivamente muovere più alcun addebito (in ipotesi anche veritiero e fondato), poiché su quel nuovo profilo il dipendente non ha avuto al momento opportuno possibilità di replica (Pret. Lecco 28/10/97, est. Cecchetti, in D&L 1998, 767)
Sottrazione di materiale aziendale
- Non si giustifica il licenziamento del cassiere di banca impossessatosi, per necessità personali, di modesta somma (lire 500.726 ), a condizione che il medesimo ripiani al termine della giornata, ove in tal senso viga in azienda una prassi di tolleranza; ma non giustifica il licenziamento neppure il fatto che il ripianamento non sia avvenuto spontaneamente a fine lavoro, ove questo sia dovuto, secondo la motivata valutazione incensurabile del giudice di merito, a mera dimenticanza, da attribuirsi alle precarie condizioni di salute fisica e psichica del lavoratore (Cass. 30/10/00, n. 14311, pres. De Musis, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 389, con nota di Pera, Il “furto temporaneo” del cassiere di banca si può tollerare)
- La raccolta di biglietti di pedaggio di corta percorrenza, inutilizzati dagli utenti durante lo sciopero degli esattori, e loro registrazione, in sostituzione dei biglietti di lunga percorrenza, con appropriazione dei maggiori importi, costituisce un’infrazione che deve essere contestata con il provvedimento disciplinare del licenziamento, tenuto conto del carattere fiduciario connesso alle mansioni di cassa affidate al dipendente (Cass. 11/2/00, n. 1558, pres. Trezza, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 456, con nota di Forte, L’atto illecito compiuto dal dipendente e la sua influenza sul rapporto fiduciario con il datore di lavoro)
- Nel caso di licenziamento per giusta causa a norma dell’art. 2119 c.c., in conseguenza dell’abusivo impossessamento di beni aziendali da parte del dipendente, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebitato e recesso viene in considerazione non l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale (rilevanti in sede penale) ovvero la circostanza che il fatto illecito sia stato commesso fuori dall’orario di lavoro o (come, in specie) dal posto di lavoro, ma la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento – in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti – specie quando non sia possibile per il datore di lavoro apprestare sicure difese idonee a impedire furti o comunque manomissioni di materiali aziendali (nella specie, il datore di lavoro aveva licenziato un suo dipendente che era stato sorpreso manomettere – al fine di asportare un buono sconto – un prodotto in vendita in un grande magazzino) (Cass. 8/2/00 n. 1412, pres. Lanni, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 479)
- La sottrazione di un bene al proprio datore di lavoro, considerata in sé e per sé e non nei suoi riflessi patrimoniali, può essere idonea a incidere irrimediabilmente sull’elemento fiduciario che costituisce il presupposto fondamentale della collaborazione tra le parti nel rapporto di lavoro, specie con riguardo alle delicate mansioni di pilota di aerei passeggeri svolte nella specie dal lavoratore licenziato (Cass. 27/12/99 n.14567, pres. Amirante, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 456, con nota di Forte, L’atto illecito compiuto dal dipendente e la sua influenza sul rapporto fiduciario con il datore di lavoro)
- Il furto in azienda di un bene di valore modestissimo, commesso da un dipendente senza alcun precedente disciplinare e non investito di specifiche mansioni di sorveglianza e custodia, anche se può incidere sul rapporto fiduciario tra datore e prestatore di lavoro deve essere valutato alla luce del principio di proporzionalità della sanzione ex art. 2106 c.c., potendo perciò comportare l’irrogazione di una sanzione conservativa, ma non del licenziamento per giusta causa (Trib. Milano 30/11/96, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 392)
Fatti estranei all’attività lavorativa
- Ai fini della determinazione della consistenza dell’illecito, in relazione all’irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare, se è vero che non rileva tanto la qualificazione del fatto fattane dal punto di vista penale-essendo necessario che i fatti addebitati rivestano il carattere di negazione degli elementi del rapporto di lavoro, e specialmente dell’elemento essenziale costituito dalla fiducia, e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto agli obblighi lavorativi-è altresì vero che dall’art. 654 c.p.c. si desume che è doveroso ritenere accertati anche nel giudizio civile gli stessi fatti materiali ritenuti rilevanti in un precedente giudizio penale conclusosi con una sentenza di condanna ritenuta definitiva. (Trib. Roma 6/2/2003, Pres. Cortesani, Rel. Blasutto, in Lav. nella giur. 2003, 688)
- La condotta inerente alla vita privata del lavoratore, di norma irrilevante ai fini della lesione del rapporto fiduciario tra dipendente e datore di lavoro, assume rilevanza a tale fine e può integrare giusta causa di licenziamento qualora fatti e comportamenti estranei alla sfera del contratto siano tali, per la loro gravità e natura, da far venir meno quella fiducia che integra presupposto essenziale della collaborazione tra datore e prestatore di lavoro (nella specie, il lavoratore era stato sottoposto a procedimento penale per detenzione illegittima di fucile a canne mozze e con matricola abrasa oltre a munizionamento da guerra) (Cass. 19/12/00, n. 15919, pres. Trezza, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1055)
- I comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata ed estranei perciò all’esecuzione della prestazione, se in genere sono irrilevanti, possono tuttavia costituire giusta causa di licenziamento allorché siano di natura tale da far ritenere il dipendente inidoneo alla prosecuzione del rapporto lavorativo – specialmente quando lo stesso, per le sue caratteristiche, richiedeva, come nella specie, un peculiare margine di fiducia e di affidamento, rientrando in tale ambito anche i comportamenti del lavoratore potenzialmente pregiudizievoli per il datore di lavoro nonostante l’assenza di un concreto danno patrimoniale a suo carico (nel caso di specie, è stato ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa – disposto dalla società una volta sciolto il segreto istruttorio che copriva gli elementi di responsabilità contenuti nella sentenza del Gip – del lavoratore che, dopo essere stato riammesso al lavoro durante la fase degli arresti domiciliari con espressa riserva dell’adozione delle opportune misure ad esito finale del procedimento penale, è stato condannato a 3 anni e 8 mesi di reclusione per detenzione e spaccio abituale di cocaina) (Cass. n. 9354/99; Cass. n. 7768/96; Cass. n. 6814/91) (Cass. 7/11/00, n. 14457, pres. De Musis, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2295)
- Una volta accertato che il ricorrente era coinvolto con ruolo di protagonista in una attività illecita (lotto clandestino in ambiente di lavoro) – anche a prescindere dal fatto che tale attività avvenisse con l’utilizzo del tempo di lavoro e/o delle strutture aziendali – è legittima la sanzione espulsiva del dipendente (nella specie dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato postulante per finalità istituzionale un rigoroso senso del dovere, correttezza ed onestà da parte del personale) in considerazione del consolidato principio per cui se il comportamento extralavorativo del dipendente è, di regola, irrilevante ai fini della lesione del vincolo fiduciario (che è alla base del rapporto di lavoro), può acquistare rilievo al richiamato effetto qualora presenti una particolare gravità oppure esiga, in ragione di peculiari caratteristiche della prestazione, un più ampio margine di fiducia, esteso anche alla serietà della condotta privata, il cui venir meno menoma l’idoneità professionale, cui si riferisce l’art. 8 S.L. (nella fattispecie, è stata ritenuta irrilevante la mancata previsione – nel Regolamento per il Personale – della infrazione commessa tra le trasgressioni sanzionabili con il licenziamento, atteso che, a differenza delle sanzioni conservative, il potere di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo deriva direttamente dalla legge, e segnatamente dagli artt. 2119 c.c. e 3 L. 604/66, i cui precetti sono all’uopo dotati di sufficiente determinatezza, né è ipotizzabile che debbano formare oggetto di codice disciplinare tutti i possibili comportamenti atti ad integrarne gli estremi) (Cass. 30/8/00, n. 11430, pres. Mileo, in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2093)
- Deve essere disposta la reintegrazione provvisoria del dipendente licenziato a seguito di denunzia penale per atti di esibizionismo sessuale nei confronti di una viaggiatrice in una sala d’aspetto ferroviaria, qualora tali comportamenti siano stati posti in essere fuori dall’orario di lavoro, in località diversa e distante da quella di lavoro, senza divisa ferroviaria e il dipendente svolga mansioni che non comportano alcuna possibilità di contatto con l’utenza (Trib. Milano 1 agosto 2000 (ord.), est. Santosuosso, in D&L 2000, 1008)
- Poiché il rapporto di dipendenza del lavoratore non comporta un vincolo che investa l’intera sua persona, è da escludersi la configurabilità di una giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro nel caso di condotte estranee all’attività lavorativa e attinenti alla vita privata del lavoratore medesimo (nella fattispecie, il lavoratore, recatosi ad acquistare un modesto quantitativo di sostanze stupefacenti, era stato oggetto di un procedimento penale con l’imputazione di commercio e spaccio di sostanze stupefacenti, imputazione, peraltro, dalla quale era stato assolto per insussistenza del fatto dal giudice dell’udienza preliminare) (Pret. Lecco 2/6/95, est. Pazzi, in D&L 1995, 1023)
- E’ illegittimo il licenziamento intimato, ai sensi dell’art. 81 lett. i) CCNL F.S., per condanna penale comportante interdizione dai pubblici uffici, laddove il provvedimento espulsivo sia stato irrogato prima del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna (Pret. Milano 13/2/95, est. Porcelli, in D&L 1995, 711)
Molestie sessuali
- Una serie di comportamenti offensivi a sfondo sessuale tenuti dal dipendente nei confronti di altre lavoratrici gerarchicamente subordinate, pur non potendosi configurare come vere e proprie molestie sessuali per difetto, in relazione ad ogni singola “vittima”, di un comportamento insistente e reiterato, possono configurare giustificato motivo di licenziamento se, in concreto, rivestano nel loro insieme un carattere di gravità per il contenuto e perché percepiti come offesa alla persona (Trib. Milano 4/11/00, est. Curcio, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 151)
- Comporta la definitiva lesione dell’elemento fiduciario – con la conseguente legittimità del licenziamento intimato per giusta causa – la condotta del lavoratore che arrechi molestie sessuali ad un cliente dell’impresa datrice di lavoro (Trib. Milano 17/10/00, pres. Mannacio, est. Gargiulo, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1093)
- Le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.; deve ritenersi pertanto legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando la mancata previsione della suddetta ipotesi nel codice disciplinare, e senza che, in contrario, possa dedursi che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, e non può perciò essere chiamato ad un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi, giacché, per un verso, le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi, e, per altro verso, il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo, a norma dell’art.2087 cit., di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali può certamente ricomprendersi anche l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali (Cass. 18/4/00 n. 5049, pres. Lanni, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 505)
Lavoro in costanza di malattia
- Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (in applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la decisione di merito, la quale aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore – guardia giurata – che, nel periodo di malattia dovuto a vertigini, aveva svolto attività di disc-jockey, in presenza di giochi di luce, ambiente caotico e musica ad alto volume, nonché con perdita del riposo notturno). (Cass. 23/2/2021 n. 4876, Pres. Doronzo Rel. Esposito, in Lav. nella giur. 2021, 656)
- Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio. (Cass. 2/9/2020 n. 18425, Pres. ed est. Raimondi, in Lav. nella giur. 2021, con nota di C. De Marco, Attività extralavorativa durante la malattia: obblighi del lavoratore e contestazione disciplinare, 737)
- Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ferma restando la necessità che, nella contestazione dell’addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore. (Cass. 2/9/2020 n. 18425, Pres. ed est. Raimondi, in Lav. nella giur. 2021, con nota di C. De Marco, Attività extralavorativa durante la malattia: obblighi del lavoratore e contestazione disciplinare, 737)
- Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla Suprema Corte, aveva riconosciuto legittimo il licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli nel circolo ricreativo gestito dalla moglie durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione al ginocchio). (Cass. 1/7/2005 n. 14046, Pres. Ciciretti Rel. Cuoco, in Lav. e prav. Oggi 2005, 1837)
- Al dipendente assente per malattia è vietato prestare altra attività lavorativa, dovendosi presumere un rapporti di contraddizione fra tutela della salute e prestazione lavorativa; in sede giudiziale tale presunzione deve tuttavia essere verificata in concreto, esaminando il tipo di malattia e valutando se l’attività di fatto svolta presenti o meno identità o forte somiglianza con quella sospesa (nella fattispecie, è stata ritenuta sproporzionato, quindi illegittimo, il licenziamento in tronco comminato al dipendente che, in fase di convalescenza da una malattia reale, ha collaborato con i familiari, a titolo gratuito, alla gestione di una sala giochi, non svolgendo attività paragonabile, per impegno e natura, a quella del rapporto di lavoro sospeso) (Trib. Milano15/7/95, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1995, 1055)
- L’espletamento di altra attività lavorativa in pendenza di malattia può assurgere a condotta giustificatrice di licenziamento, ove il comportamento del lavoratore, in occasione delle assenze per malattia, appaia in contrasto con i doveri di correttezza e buona fede e ciò anche a prescindere dalla compatibilità tra il lavoro svolto e lo stato di malattia (Trib. Nocera Inferiore 26/5/00, pres Russo, est. Fortunato, in Lavoro giur.2000, pag. 1159, con nota di Buonaiuto, Il licenziamento disciplinare per attività lavorativa durante la malattia)
Violazione dell’obbligo di fedeltà
- In tema di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà, il principio secondo cui il carattere extralavorativo di un comportamento non ne preclude la sanzionabilità in sede disciplinare, quando la natura della prestazione dovuta richieda un ampio margine di fiducia esteso ai comportamenti privati del lavoratore, non trova applicazione ove il comportamento del prestatore si estrinsechi in atti che siano espressione della libertà di pensiero, in quanto la tutela di valori tutelati costituzionalmente (art. 21 Cost.) non può essere recessiva rispetto ai diritti-doveri connaturati al rapporto di lavoro (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la legittimità del licenziamento irrogato, per violazione dell’obbligo di fedeltà, a un direttore esecutivo di testata giornalistica che aveva pubblicato presso altre case editrici un volume relativo ad argomenti trattati anche dalla rivista della quale era dipendente). (Cass. 16/2/2011 n. 3822, Pres. Roselli Est. Arienzo, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Maria Valentina Casciano, “Ancora un’eclissi dell’obbligo di fedeltà”, 29)
- Il licenziamento intimato al lavoratore per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. – avendo questi prodotto in giudizio fotocopie di documenti aziendali – è illegittimo, stante la prevalenza del diritto alla difesa rispetto alle esigenze di segretezza aziendali, così come sancito anche dalla normativa che tutela il diritto alla riservatezza. (Cass. 7/12/2004 n. 22923, Pres. Mileo Est. De Renzis, in D&L 2005, con nota di Andrea Bordone, “Sul licenziamento per produzione in giudizio di documentazione aziendale”, 223)
- Lo svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di una impresa concorrente con il datore di lavoro può configurare la violazione del divieto di cui all’art. 2105 c.c., sotto il profilo del divieto della “trattazione di affari per conto terzi in concorrenza con l’imprenditore”, solo ove tale concorrenza consista in atti rientranti in prestazioni di carattere intellettuale di notevole autonomia e discrezionalità, dato che proprio coloro che fanno parte del personale impiegatizio più altamente qualificato sono in grado – al di fuori dell’ipotesi di divulgazione di notizie riservate o di metodi di lavoro peculiari – di porre in essere quella concorrenza piu’ intensa che il legislatore ha inteso reprimere (nel caso di specie di una lavoratrice con contratto di formazione a part-time, addetta all’immissione di dati in computer, che per realizzare una retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost., aveva svolto la stessa attività esecutiva presso azienda concorrente del datore di lavoro, la Suprema Corte ha ritenuto insussistente la violazione dell’obbligo di fedeltà invocato dalla prima azienda oltre che sul principio di diritto sopra enunciato anche sulla base della ragionevole considerazione per cui una “lavoratrice con mansioni esecutive non può certo ritenersi vincolata ad espletare le corrispondenti attitudini in imprese aventi attività completamente distinte da quelle della datrice di lavoro e quindi non in concorrenza con la stessa, in quanto risulterebbe ingiustificatamente ristretta la possibilità di impiego di lavoratrice avente già, in ragione del modesto livello professionale, occasioni di lavoro limitate”) (Cass. 26/10/01, n. 13329, pres. Spanò, est. Vigolo, in Lavoro e prev. oggi 2002, pag. 138, con nota di Canali De Rossi, Part-time caratterizzato da mansioni esecutive ed obbligo di fedeltà: elementi per ravvisare gli estremi della illegittima concorrenza)
- L’utilizzo da parte del lavoratore, per la produzione in giudizio, di documentazione aziendale a fini, non già di screditare l’azienda, ma solo per supportare le proprie pretese, costituisce violazione dei doveri di lealtà e correttezza verso l’azienda imposti al lavoratore dall’art.2105 c.c., ma non divulgazione di notizie riservate aziendali a terzi – anche in ragione della ristretta cerchia (giudice e difensori, tenuti al segreto d’ufficio) dei destinatari della cognizione della documentazione prodotta – abuso ed infrazione sanzionabile disciplinarmente ma non con la massima sanzione espulsiva, per asserita e presunta vulnerazione del vincolo fiduciario. Infatti i principi asseriti dalla Cassazione (nelle decisioni n. 10591/91, n. 2560/93 e n. 4328/96), seppur condivisibili, vanno contemperati con il più ampio criterio della valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore, atteso che il giudice del merito, adito per la dichiarazione di illegittimità di un licenziamento per giusta causa,deve necessariamente procedere alla valutazione della proporzionalità della sanzione, rispetto alla gravità della mancanza del lavoratore; e tale valutazione – che si risolve in un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione adeguata e logica – va condotta non già in astratto ma con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto e, quindi, non solo inquadrando l’addebito nelle specifiche modalità del rapporto, ma anche tenendo conto della natura del fatto contestato, da esaminare non solo nel suo contenuto obiettivo ma anche in quello soggettivo ed intenzionale, nonché di tutti gli altri – elementi idonei a consentire l’adeguamento della disposizione normativa dell’art. 2119 c.c. – richiamato dall’art. 1, l. 15/7/66, n. 604 – alla fattispecie concreta (giurisprudenza consolidata della Corte, per la quale cfr. tra le tante, la sentenza 2/2/00, n. 1144) (Cass. 25/10/01, n. 13188, pres. Saggio, est. Mammone, in Lavoro e prev. oggi 2002, pag. 151)
- Rientra nei combinati obblighi di diligenza, ai sensi dell’art. 2104 c.c., e di fedeltà, ai sensi dell’art. 2105 c.c., di un dipendente dotato di particolari responsabilità nella scala gerarchica (nella specie, vicedirettore della filiale di una banca), allertare il datore di lavoro, in persona degli ulteriori superiori gerarchici o degli organi ispettivi, delle gravi irregolarità commesse dal suo immediato superiore gerarchico. L’inosservanza di tale obbligo può costituire di per sé, secondo la gravità del caso, soggetta alla valutazione del giudice di merito, anche giustificato motivo soggettivo o giusta causa di licenziamento. (Cass.8/6/2001, n. 7819, Pres. Trezza, Rel. De Matteis, in Argomenti dir. lav. 2003, 351)
- L’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. e quelli, ad esso collegati, di correttezza e buona fede, cui è tenuto il dipendente nell’esecuzione del contratto di lavoro devono essere riferiti esclusivamente ad attività lecite dell’imprenditore, non potendosi certo richiedere al lavoratore l’osservanza di detti obblighi, nell’ambito del dovere di collaborazione con l’imprenditore, anche quando quest’ultimo intenda perseguire interessi illeciti (nella specie, la sentenza impugnata, confermata sul punto dalla S.C., aveva escluso che costituisse inadempimento dei suddetti obblighi l’aver un lavoratore fotocopiato la distinta di una spedizione di merce venduta a terzi dalla società datrice di lavoro senza la relativa documentazione fiscale e l’aver poi trasmesso la suddetta fotocopia alla Guardia di finanza, la quale aveva avviato un accertamento fiscale nei confronti dell’azienda) (Cass. 16/1/01, n. 519, pres. Trezza, est. Lamorgese, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 453, con nota di Di Paola, Una interessante pronuncia della Cassazione in tema di obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro; in Lavoro giur. 2001, pag. 648, con nota di Banzola, Obbligo di fedeltà e attività illecita del datore di lavoro; in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 367)
- Non costituisce violazione dell’obbligo di fedeltà o non concorrenza aver trattato affari per conto di un’impresa concorrente di una società del gruppo, non avendo il c.d. “gruppo” nessuna rilevanza giuridica, in materia di controversie relative ai rapporti di lavoro, e non potendosi dunque far rivivere questo soggetto “economico” al solo fine di pretendere, anche se indirettamente, obblighi nei suoi confronti (nella fattispecie il lavoratore – addetto alla vendita di autovetture – era stato licenziato per aver utilizzato, in un’operazione di finanziamento di una vendita rateale, un’impresa concorrente della società finanziaria del gruppo, ricevendo dalla stessa impresa una somma di danaro a titolo di provvigione) (Pret. Milano 17/2/97, est. Curcio, in D&L 1997, 831)
Casi pratici
- Il caso del licenziamento di un medico ospedaliero ritenuto sproporzionato.
La Corte d’appello aveva dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare intimato da una ASL nei confronti di un medico che, mentre svolgeva il turno di guardia, si era rifiutato di soccorrere una paziente giunta in reparto in procinto di portare a termine un aborto farmacologico, avviato con l’assistenza di altro medico e aveva fatto chiamare quest’ultimo, anch’egli appartenente al medesimo reparto, ma in quel momento fuori servizio. La decisione dei giudici di merito è annullata con rinvio dalla Cassazione, la quale osserva che: (i) il comportamento tenuto dal medico integra senz’altro un inadempimento degli obblighi lavorativi, essendo evidente che, nella sua qualità di sanitario di guardia, egli aveva il dovere di farsi carico dal punto di vista medico della situazione; (ii) nel valutare la gravità della condotta del ricorrente, la Corte d’appello ha tuttavia trascurato di considerare che da tale condotta non sono conseguiti (e, ex ante, se erano conseguibili) danni alla salute della paziente, ma meri disagi, né un tangibile discredito per l’azienda, oltre a non avere considerato che la scelta di far chiamare il medico di fiducia della paziente non possa reputarsi un comportamento del tutto incongruo: tutti elementi che il giudice del rinvio sarà chiamato a tenere in debito conto al fine di valutare, ex novo, se il licenziamento costituisca una sanzione davvero proporzionata rispetto al comportamento tenuto dal medico. (Cass. 12/6/2023 n. 16551, Pres. Manna Rel. Bellè, in Wikilabour, Newsletter n. 12/23) - Giustificato il licenziamento del lavoratore che rifiuta di procedere a un aggiornamento professionale.
Nel confermare la decisione della Corte d’appello, che aveva riconosciuto la legittimità del licenziamento disciplinare di un tecnico informatico che si era rifiutato di approfondire la conoscenza di due sistemi operativi, come richiestogli dal suo diretto superiore gerarchico e di collaborare attivamente nell’aggiornamento di sistemi di un cliente, la Cassazione osserva che il comportamento tenuto dal dipendente integra gli estremi della grave insubordinazione, ponendosi in aperto contrasto con l’obbligo di diligenza, qui inteso anche con riguardo alle esigenze di formazione e accrescimento professionale necessarie per il proficuo impiego del dipendente. (Cass. 9/5/2023 n. 12241, ord., Pres. Doronzo Rel. Ponterio, in Wikilabour, Newsletter n. 10/23) - Il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al prestatore d’opera rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni specifiche del dipendente, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (confermata, nella specie, la decisione della Corte d’Appello che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare irrogato ad un lavoratore che aveva utilizzato abusivamente una vettura concessa ufficialmente da un partner commerciale al capo della società, anche in considerazione del fatto che la condotta del lavoratore, palesemente violativa dell’obbligo di fedeltà, era stata posta in essere con modalità tali da mettere in dubbio la futura correttezza dell’adempimento da parte del dipendente). (Cass. 4/11/2020 n. 24601, Pres. D’Antonio Est. Leo, in Lav. nella giur. 2021, 199)
- Fumare in ufficio fa male alla salute, ma non comporta sempre il licenziamento disciplinare.
In un caso in cui un dipendente era stato licenziato perché colto a fumare in un ambiente isolato e privo di macchinari, la Corte ha ritenuto sproporzionata la sanzione espulsiva e, poiché il contratto collettivo applicato prevedeva per la violazione semplice al divieto di fumo in azienda (senza pericolo per macchinari e persone) una sanzione conservativa, ha applicato la tutela reintegratoria, a norma dell’art. 18, comma 4° S.L., come modificato dalla legge Fornero. L’esame della questione ha poi costituito l’occasione per riassumere la giurisprudenza della Corte in materia di rispettivi apporti della legge e del contratto collettivo nella definizione della giusta causa di licenziamento. (Cass. 26/6/2020 n. 12841, Pres. Di Cerbo Rel. Boghetich, in Wikilabour, Newsletter n. 13/2020) - Il ripetuto uso del telepass aziendale per ragioni extra lavorative come causa di licenziamento disciplinare.
Nel caso esaminato, la Corte ha ritenuto che il fatto, in quanto commesso da un soggetto in posizione di direzione e controllo di altri dipendenti e operante in maniera autonoma e senza controlli da parte dell’impresa, fosse di gravità tale da far venir meno la fiducia sulla correttezza futura della prestazione, confermando la legittimità del licenziamento. (Cass. 3/6/2020 n. 10540, Pres. Di Cerbo Rel. De Marinis, in Wikilabour, Newsletter n. 11/2020) - È correttamente motivata la sentenza del giudice di merito che consideri privi di rilievo disciplinare, perché espressivi di atteggiamenti semmai contrari alle regole della compostezza e degli usi mondani, i comportamenti dei lavoratori consistenti a) nella mancata risposta al direttore finanziario, che lo sollecitava a esaminare la sua posizione, e la pretesa di discuterne direttamente con l’amministratore delegato, b) nella segnalazione a un dirigente della società dell’intenzione dell’amministratore delegato di passare alle dipendenze di altra società, avendo appreso tale fatto mediante l’accesso diretto e non autorizzato alle informazioni personali del medesimo. (Cass. 13/10/2015 n. 20540, Pres. e Rel. Roselli, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Oronzo Mazzotta, “Fatti e misfatti nell’interpretazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori”, 102)
- È illegittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo soggettivo da una società di autotrasporti ad un autista che, nel condurre un autoarticolato di proprietà del datore di lavoro, a causa dell’alta velocità sostenuta, del tutto inadeguata allo stato dei luoghi, abbia perso il controllo del mezzo e in tal modo causato un sinistro stradale con connessi danni anche al carico trasportato. (Cass. 5/5/2014 n. 9597, Pres. Roselli Est. Napoletano, in Lav. nella giur. 2014, 817)
- Il comportamento del dipendente che neghi di aver scaricato senza autorizzazione sul personal computer dell’ufficio un programma software (nella specie si trattava di “eMule”), in assenza di specifica e preventiva contestazione disciplinare, non può assurgere esso stesso al rango di illecito disciplinare legittimante il licenziamento. (Cass. 26/11/2013 n. 26397, Pres. Stile Rel. Fernandes, in Lav. nella giur. 2014, 285)
- Non costituisce violazione del divieto di trattamenti discriminatori il licenziamento disciplinare per “culpa in vigilando” disposto dal datore di lavoro nei confronti del dirigente, appartenente a un’associazione religiosa, che abbia incautamente autorizzato quest’ultima a somministrare ai dipendenti un test attitudinale invasivo nei riguardi della loro vita privata, non essendovi alla base del recesso l’orientamento etico religioso dell’associazione di appartenenza, ma solo i riflessi negativi della vicenda sul contesto aziendale e sulla serenità dei dipendenti. (Cass. 16/2/2011 n. 3821, Pres. Roselli Est. Arienzo, in Orient. Giur. Lav. 2011, 161, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Pasquale Dui, 903)
- È giustificato il licenziamento disciplinare del lavoratore che, in violazione di normative bancarie specifiche sulla sicurezza, abbia consentito l’utilizzo a un soggetto terzo della propria postazione informatica affidatagli in via esclusiva, a sessione avviata con le proprie credenziali e, quindi, con la possibilità di accedere indebitamente ad aree del tutto riservate. (Cass. 27/1/2011 n. 2056, Pres. Battimiello Est. Bandini, in Orient. Giur. Lav. 2011, 143)
- È illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore che si introduce in azienda in giorno non lavorativo in assenza di apposita autorizzazione da parte dei vertici aziendali, atteso che tale provvedimento si appalesa comunque sproporzionato rispetto alla entità e alla portata dei comportamenti contestati. (Cass. 3/1/2011 n. 35, Pres. Foglia Est. Zappia, in Lav. nella giur. 2011, 317)
- Deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato a un lavoratore per essersi rifiutato, anche se con espressioni irriguardose, di eseguire un ordine di lavoro su un impianto e con modalità pericolose, che avrebbero messo a rischio la sua integrità fisica. (Trib. Ravenna 16/1/2009, ord., Pres. Giani Est. Riverso, in D&L 2009, 831)
- In tema di licenziamento disciplinare, integra gli estremi della giusta causa la condotta del dipendente addetto al piccola manutenzione degli impianti autostradali che, adducendo motivi irragionevoli per prendere il posto di un altro lavoratore addetto alle mansioni di operatore di casello, determini confusione e l’interruzione del servizio per circa quarantacinque minuti, dovendosi ritenere, avuto riguardo alla natura dell’attività di impresa, non compatibile la persistenza del rapporto di lavoro e proporzionata la sanzione espulsiva (nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto adeguatamente motivata la decisione del giudice di merito secondo il quale la sanzione era proporzionata atteso che il dipendente, già addetto alle funzioni di esattore e destinato ad altri compiti per ragioni di salute, indossati gli abiti dell’operatore del casello aveva preteso, per una affermata nostalgia delle vecchie mansioni, di esercitare nuovamente il lavoro di esattore, provocando in tal modo, il blocco del traffico autostradale). (Cass. 29/7/2008 n. 20573, Pres. Senese Est. Roselli, in Lav. nella giur. 2008, 1275, e in Dir. e prat. lav. 2009, 460)
- Il comportamento di una lavoratrice che falsifica un certificato medico retrodatandolo di due giorni, al fine di coprire i primi due giorni di una propria assenza per malattia, costituisce colpa di gravità sufficiente a giustificare il licenziamento disciplinare in tronco. (Corte app. Milano 27/9/2007, Pres. Ruiz Est. De Angelis, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Ichino, “Quando la presunzione di simulazione della malattia può fondarsi sul comportamento scorretto del lavoratore: un caso di alterazione del certificato medico e un caso di ingegneria certificatizia”, 130)
- Il licenziamento per giusta causa di un gruppo di lavoratori intimato senza la preventiva contestazione degli addebiti ex art. 7 SL e in violazione delle norme del Ccnl di settore costituisce comportamento antisindacale, in quanto impedisce all’organizzazione sindacale di perseguire lo scopo di garantire il rispetto delle disposizioni contrattuali e normative poste a tutela dei lavoratori (fattispecie relativa al licenziamento per giusta causa dell’intera redazione editoriale di un periodico, intimata senza la previa contestazione di addebito e in violazione degli obblighi di preventiva consultazione e nulla osta sindacali previsti dall’art. 34 Cnlg). (Trib. Milano 31/7/2007, decr., in D&L 2007, con nota di Alberto Vescovini, “Sul licenziamento discriminatorio: considerazioni in materia di cooperative di lavoro ed elementi indiziari della natura antisindacale”, 1032)
- E’ illegittimo il licenziamento per giusta causa irrogato come sanzione per un illecito che, pur essendo stato posto in essere da un dipendente preposto a una filiale dell’azienda e nonostante la violazione contestata sia stata accertata dai giudici di merito, non sia tale da compromettere in maniera grave il necessario livello della fiducia che il datore deve poter riporre nel dipendente medesimo (nel caso di specie, la Corte ha confermato la sentenza di appello che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento sul presupposto che la falsa registrazione della presenza sul posto di lavoro da parte del lavoratore nel giorno festivo era stata, tra l’altro, compensata da una maggiore resa nel giorno successivo). (Cass. 20/4/2007 n. 9414, Pres. Senese Est. Celentano, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Mariorosario Lamberti, “La falsa registrazione di presenza sul posto di lavoro e le sue conseguenze: quel che resta della giusta causa di licenziamento”, 949)
- E’ illegittimo il licenziamento del lavoratore motivato dalle critiche espresse nei confronti del datore di lavoro qualora dette critiche rispettino la verità oggettiva dei fatti eil contesto in cui le dichiarazioni sono state rilasciate abbia evitato ogni possibile fraintendimento sul contenuto delle medesime (fattispecie relativa a dichiarazioni di un rappresentante sindacale in un dibattito televisivo con immediato diritto di replica da parte dei controinteressati, anch’essi presenti). (Trib. Varese 20/3/2007, Est. Fedele, in D&L 2007, con nota di Enrico U.M. Cafiero, “Obbligo di fedeltà del prestatore di lavoro subordinato e diritto di critica”, 510)
- Il lavoratore è tenuto al rispetto del dovere fondamentale di buona fede nel rapporto di lavoro: ne consegue che è legittimo il licenziamento irrogato alla lavoratrice la quale abbia protratto la propria assenza per un lungo lasso di temp, laddove il suo comportamento durante il periodo di assenza consenta di presumere che l’assenza medesima non corrisponda a un impedimento effettivo (nel caso di specie, la lavoratrice era rimasta assente dal lavoro per quattro anni mediante un “collage” di motivi di impedimento diversi, spostando addirittura la propria residenza in un luogo lontanissimo da quello di lavoro). (Trib. Milano 22/1/2007, Est. Frattin, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Ichino, “Quando la presunzione di simulazione della malattia può fondarsi sul comportamento scorretto del lavoratore: un caso di alterazione del certificato medico e un caso di ingegneria certificatizia”, 130)
- In ipotesi di licenziamento disciplinare per fatti di rilevanza penale, il datore di lavoro, qualora disponga nell’immediatezza dei fatti di elementi di conoscenza che facciano ragionevolmente supporre la responsabilità del dipendente, deve procedere immediatamente alla contestazione disciplinare; conseguentemente è illegittimo il licenziamento disciplinare a seguito di contestazione formulata solo all’esito del giudizio penale. (Cass. 18/1/2007 n. 1101, Pres. De Luca Est. Curcuruto, in D&L 2007, con nota di Stefano Muggia, “Attesa della sentenza penale e tardività della contestazione”, 523)
- Nell’ipotesi di dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore e a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, rilevando la lesione dell’affidamento che non solo il datore di lavoro, ma anche il pubblico ripongono nella lealtà e correttezza dei funzionari. In relazione a tale attività, comunque, la mera irregolarità oggettiva dell’operazione non può ex se dar fondamento al giudizio di proporzionalità tra l’illecito commesso e la sanzione del licenziamento senza la necessaria valutazione dell’elemento psicologico della condotta posto in essere dal lavoratore, e in particolare senza l’accertamento della sussistenza del dolo o anche di un grado elevato di colpa. (Cass. 22/9/2006 n. 20601, Pres. Senese Rel. Miani Canevari, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Marcello Lupoli, 489)
- E’ illegittimo il licenziamento disciplinare di guardia giurata addetta al trasporto di valori, motivato da ritenuto diverbio litigioso nella stessa giornata con un collega durante il servizio, di violenza tale da costringere il lavoratore a farsi medicare al Policlinico, in assenza di affissione del codice disciplinare, non essendo riferibile tale fattispecie alla violazione di norma di legge o comunque di doveri fondamentali del lavoratore (come quelli della fedeltà e del rispetto del patrimonio e della reputazione del datore di lavoro), riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione). (Cass. 21/6/2006 n. 14305, Pres. Mercurio Est. Miani Canevari, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Carlo Pisani, “Davvero occorre il codice disciplinare per avvertire il lavoratore che mandare un collega al pronto soccorso è inadempimento notevole degli obblighi contrattuali?”, 224)
- Il comportamento di allontanarsi dal posto di lavoro, in assenza di prova in ordine al fatto che il datore di lavoro fosse effettivamente a conoscenza della circostanza e che abbia tollerato tale condotta, costituisce giusta causa di recesso (nel caso di specie il Tribunale ha negato la sussistenza del fumus boni iuris rispetto alla domanda cautelare proposta da un operaio termoidraulico, con mansioni di sorveglianza-custodia-controllo, licenziato per aver abbandonato per 45 minuti il posto di lavoro). (Trib. Roma 29/5/2006, Dott. Miglio, in Lav. nella giur. 2007, 320)
- E’ illegittimo il licenziamento disciplinare motivato da colluttazione sul luogo di lavoro con altro collega e con rottura della protesi dentaria di quest’ultimo, in quanto il codice disciplinare non prevede specificatamente, tra le cause giustificatrici del licenziamento, la colluttazione o la zuffa con vie di fatto, ma le diverse ipotesi del contegno scorretto o offensivo verso gli altri dipendenti nonchè quella degli atti, comportamenti, molestie nei confronti di altro personale, non potendo il datore di lavoro infliggere al lavoratore una sanzione più grave di quella prevista per un determinato comportamento dal contratto collettivo. (Trib. Tivoli, 20/9/2005, Giud. Giordano, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Carlo Pisani, “Davvero occorre il codice disciplinare per avvertire il lavoratore che mandare un collega al pronto soccorso è inadempimento notevole degli obblighi contrattuali?”, 224)
- Nell’ambito delle tutele procedimentali stabilite dall’art.7 Stat. Lav., a garanzia dei lavoratori ai quali sia stato intimato un licenziamento disciplinare, non risulta possibile procedere ad un’applicazione immediata di quanto in esse previsto nel caso di licenziamento di dirigenti cosiddetti apicali, in quanto investiti di un ruolo paragonabile a quello assunto dal datore di lavoro tale da farli apparire quale alter ego di esso e, dunque, improbabile fruitore delle garanzie poste a tutela del contraente più debole. (Trib. Vasto 25/2/2005, Est. Paolitto, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Mariele Cottone, 1078)
- L’uso costante e quantitativamente non indifferente da parte del lavoratore della posta aziendale per scopi propri, con impegno di tempo ed attenzione, nonché l’utilizzazione occasionale della fotocopiatrice e del fax aziendali per corrispondenza personale sono comportamenti non commendevoli ma non sufficienti a giustificare la sanzione espulsiva del licenziamento disciplinare. (Trib. Milano 31/7/2004, Est. Punzo, in Lav. nella giur. 2005, 292)
- Va dichiarata l’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato in relazione a contestazione di addebiti secondo cui il lavoratore aveva presentato, per rimborso spese di pernottamento in trasferta, ricevute alberghiere di importo superiore a quello effettivamente pagato, presupponendo che egli, pur avendo negato la veridicità del fatto, si fosse in realtà comportato analogamente ad altri lavoratori, i quali, trovatisi nelle medesime circostanze (stesso periodo di tempo, stesso albergo e stesso prezzo indicato nelle ricevute), avevano invece ammesso il fatto. (Corte d’appello Catanzaro 19/6/2003, Pres. Ammirata Rel. Velea, in Foro it. 2003, parte prima, 3150)
- Deve ritenersi illegittima per violazione del principio di proporzionalità la sanzione del licenziamento adottata per assenza a visita domiciliare di controllo nei confronti di lavoratrice affetta da sindrome ansioso-depressiva che soffra di amnesie, attesa da un lato la differenza, sul piano della gravità, dell’assenza ingiustificata dal servizio rispetto all’assenza a visita di controllo; dall’altro l’esigenza di valorizzare lo stato soggettivo della lavoratrice (in particolare il giudice di merito aveva rilevato che la patologia di cui sopra e l’esistenza di controlli ambulatoriali positivi deponevano per la mancanza di qualsiasi intenzione di sottrarsi ai controlli). (Cass. 17/8/2002 n. 11153, Pres. Sciarelli Est. Toffoli, in D&L 2002, 189, con nota di Stefano Muggia, “Ancora sull’assenza a visita domiciliare di controllo”)
- È illegittimo per violazione del principio di proporzionalità il licenziamento irrogato per accertata violazione del regolamento aziendale che vieta l’utilizzo del sistema informatico per fini non lavorativi qualora la misura di tale violazione non sia rilevante in rapporto alla prestazione lavorativa e vi sia l’assenza di precedenti disciplinari, oltre che un’espressa previsione del Ccnl nel far rientrare la trasgressione dei regolamenti interni tra le sanzioni conservative. (Trib. Milano 14/8/2002, ord., Est. Cincotti, in D&L 2002, l 995)
- Il recesso per giusta causa intimato al pubblico dipendente per lo svolgimento di attività incompatibile, in quanto diretto a sanzionare mancanze del lavoratore, ha natura di provvedimento disciplinare e va quindi intimato -a pena di nullità- in contraddittorio con lo stesso e previa attivazione della procedura prevista dall’art. 59 D. Lgs. 3/2/93 (ora art. 55 D. Lgs. 165/01). (Trib. Novara 12/7/2002, Est. Mariani, in D&L 2002, 1000, con nota di Alberto Guariso, “Sul licenziamento ontologicamente disciplinare nel rapporto di pubblico impiego”)
- Non sussiste l’obbligo del lavoratore di ottemperare a disposizioni datoriali nulle perché determinate da motivo illecito ed è conseguentemente illegittimo il licenziamento irrogato come sanzione a tale mancata ottemperanza. (Trib. Agrigento 11/6/2002, ord., Pres. D’Angelo Est. Occhipinti, in D&L 2002, 712, con nota di Massimo Aragiusto, “Buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro e nullità del licenziamento”)
- In tema di licenziamento ontologicamente disciplinare, il principio cardine della materia deve essere individuato nella proporzionalità oggettiva e soggettiva. Ne consegue che un violento alterco in orario di lavoro tra dipendenti non può di per sé giustificare il licenziamento ove i fatti siano avvenuti in luogo non aperto al pubblico e senza testimoni e la reazione fisica si sia risolta in tempi brevissimi, senza provocare danni e senza determinare uno specifico turbamento dell’attività lavorativa. (Trib. Roma 12/3/2002, Est. Buonassisi, in Lav. nella giur. 2003)
- E’ illegittimo il licenziamento irrogato per assenza arbitraria al dipendente che abbia unilateralmente deciso di usufruire di un periodo di ferie, laddove lo stesso abbia comunicato con congruo anticipo la richiesta di ferie ed il datore di lavoro – dopo aver opposto a lungo un irragionevole ed immotivato silenzio, in violazione dei principi di correttezza e buona fede – abbia rifiutato altrettanto immotivatamente di concedere l’autorizzazione, pur nella verificata assenza di alcuna valida ragione aziendale ostativa. (Trib. Milano 17/1/2002, ord., Pres. Sala Est. Atanasio, in D&L 2002, 413, con nota di Giuseppe Bulgarini D’Elci, “Quale rimedio se il datore di lavoro tenta di impedire la fruizione delle ferie?”)
- L’uso sul luogo di lavoro di una sostanza stupefacente leggera, quale l’hashish, non legittima il licenziamento per giusta causa in mancanza di previa contestazione di concrete conseguenze negative sulla prestazione lavorativa. (Trib. Milano 30/11/2001, Est. Attanasio, in D&L 2002, 186)
- Nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, la dipendenza da alcool non è di per sé motivo sufficiente a far venir meno la fiducia del datore di lavoro, essendo necessario accertare di volta in volta la condotta del dipendente, nella concretezza dello svolgimento del rapporto, così come per ogni altro lavoratore, alla stregua degli ordinari criteri stabiliti dalla legge e dal contratto collettivo, al fine di valutare la legittimità o meno della sanzione irrogata (nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo il licenziamento irrogato ad un dipendente bancario, avendo accertato che il provvedimento non era stato adottato per il fatto in sé della patologia da cui questi era affetto, ma per taluni comportamenti particolarmente gravi dello stesso dipendente che, ancorchè favoriti dal suo stato psichico, avevano comportato discredito e disordine anche nei confronti della clientela) (Cass. 26/5/01, n. 7192, pres. Trezza, est. Foglia, in Lavoro giur. 2001, pag. 832, con nota di Mannaccio, Alcolismo e licenziamento per giusta causa)
- E’ sorretto da giusta causa il licenziamento del lavoratore che sia sorpreso a fumare in violazione di un chiaro divieto correlato all’alto rischio di incendio nei locali di lavoro in presenza di materiali infiammabili (Corte Appello Milano 30/3/01, pres. e est. Mannaccio, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 155)
- Nella controversia concernente la validità di un licenziamento intimato per insubordinazione del lavoratore consistita nel rifiuto di svolgere le nuove mansioni affidategli dal datore di lavoro, ove il dipendente deduca l’illegittimo esercizio dello “ius variandi” in relazione all’art. 2103 c.c., con ciò formulando un’eccezione di inadempimento nei confronti della controparte, il giudice adito deve procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti, verificando in primo luogo la correttezza dell’operato del datore di lavoro in relazione all’eventuale illegittimità dell’esercizio dello “ius variandi” e, tenendo conto della rispondenza a buona fede del comportamento del lavoratore, occorrendo valutare alla luce dell’obbligo di correttezza ex art. 1460 c.c. il rifiuto di quest’ultimo. (Sulla base dell’enunciato principio, la S.C ., premesso che non può definirsi quale inadempimento – ovvero quale adempimento in contrasto con il requisito della buona fede – l’adibizione temporanea del lavoratore a diverse mansioni, seppure non strettamente equivalenti a quelle di appartenenza, al fine dell’acquisizione di una più ampia professionalità, ha ritenuto esente da censure la sentenza del giudice di merito che, sulla base della cennata valutazione complessiva, aveva giudicato sussistente la giusta causa del licenziamento a fronte del rifiuto del lavoratore di espletare comunque le nuove mansioni). (Cass. 1/3/01, n. 2948, pres. Amirante, est. Balletti, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 364)
- Il rifiuto del lavoratore di svolgere mansioni inferiori, assegnategli transitoriamente al fine di fargli acquisire nuove tecniche lavorative, integra notevole inadempimento degli obblighi lavorativi e rende legittimo il suo licenziamento (nella specie, come rimarcato dalla S.C., il lavoratore stesso si era rifiutato di svolgere qualsiasi attività ed era anzi rimasto ostentatamente a braccia conserte in prossimità della postazione di lavoro) (Cass. 1/3/01, n. 2948, pres. Amirante, est. Balletti, in Foro it. 2001, pag. 1869)
- Il lavoratore che, assunto per le sue particolari conoscenze tecniche in relazione alle mansioni assegnate, si rifiuti di mettere a disposizione dell’impresa datrice di lavoro il proprio specifico “know-how” dà luogo ad un comportamento gravemente inadempiente che legittima il licenziamento e ove, come nella specie, tale rifiuto di collaborazione cagioni un danno alla produzione, il lavoratore è tenuto al risarcimento dello stesso (Corte Appello Milano 20/12/00, pres. Mannacio, est. Accardo, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 980)
- E’ legittimamente disposta la destituzione dal servizio del dipendente del ministero del lavoro e della previdenza sociale, in servizio presso l’ufficio di collocamento, che sia stato condannato con sentenza emessa a seguito di patteggiamento per il reato di favoreggiamento della prostituzione (nella specie, cittadine extracomunitarie), in tal modo venendo meno ai doveri di fedeltà e compromettendo gravemente la fiducia dell’amministrazione (Consiglio di Stato, 1/9/00, n. 4647, pres. Ruoppolo, est. De Nictolis, in Foro it. 2001, pag. 129, parte terza)
- Il livello culturale e le abitudini lessicali del lavoratore e degli altri addetti all’azienda non rilevano ai fini di escludere che l’aver proferito espressioni ingiuriose nei confronti del superiore gerarchico sia qualificabile come giusta causa di licenziamento (Cass. 19/6/00, n. 8313, pres. Prestipino, est. Picone, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 112, con nota di Vallauri, Espressioni ingiuriose, abitudini lessicali e giusta causa di licenziamento. Alcune osservazioni sulla natura di giusta causa e giustificato motivo)
- E’ nullo il licenziamento disciplinare intimato a una lavoratrice a causa di una sua assenza dal luogo di lavoro, laddove questa costituisca reazione alla perdurante mancata corresponsione della retribuzione dovutale da parte della società datrice di lavoro (Trib. Roma 10 maggio 2000, est. Battagliese, in D&L 2000, 1006)
- E’ da ritenere giustificato il licenziamento del lavoratore dipendente di una casa di cura per malati di mente, adibito a mansioni di infermiere, sulla base della sola condotta posta in essere (rasatura a zero dei capelli di un malato), dalla quale derivino gravi conseguenze di ordine psicologico all’infermo. A tal fine, infatti, non assume rilevanza alcuna l’elemento soggettivo (intento punitivo), essendo il gesto (taglio di capelli arbitrario) in sé e per sé connotato da una gravità oggettiva tale da giustificare il licenziamento in tronco (Cass. 8/5/00, n. 5806, pres. Trezza, est.Vidiri, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 107, con nota di D’Arcangelo, Licenziamento giustificato per particolare gravità della condotta: il caso dell’infermiere che rapa a zero un malato di mente)
- Rientra nel potere direttivo del datore di lavoro la predisposizione unilaterale di norme interne di regolamentazione attinenti all’organizzazione tecnica e disciplinare del lavoro nell’impresa, con efficacia vincolante per i prestatori di lavoro, ma tali prescrizioni, ove non realizzino alcun apprezzabile interesse per l’impresa e arrechino danno o siano di ingiustificato disagio per i lavoratori, devono ritenersi arbitrarie e la loro violazione non configura una mancanza disciplinare tale da legittimare il licenziamento per giusta causa del lavoratore (Nella specie, il datore di lavoro aveva previsto il rimborso dei solo pasti consumati nell’intervallo lavorativo e ha pertanto licenziato in tronco il lavoratore che, contravvenendo alle prescrizioni aziendali, ha usato i buoni pasto al di fuori della pausa prevista e per l’acquisto di generi alimentari da consumare altrove) (Cass. 18/2/00, n. 1892, pres. Priscoli, in Mass. giur. lav. 2000, pag. 389 con nota di De Marinis, La valutazione della giusta causa di licenziamento: dalla Corte criteri ulteriori e piu’ rigidi)
- In tema di imputabilità di una manipolazione di dati informatici in un sistema “aperto” – e cioè accessibile sia dall’interno, da parte di altri dipendenti, che dall’esterno – l’incarico a un documentalista di elaborare un testo da inserire in un archivio informatico, non può comportare automaticamente l’attribuzione di responsabilità diretta per eventuali manipolazioni, che devono essere oggetto di prova positiva da parte del datore di lavoro (Cass. 6/8/99 n. 8489, pres. Trezza, est. Coletti, in D&L 1999, 902)
- E’ illegittimo il licenziamento disciplinare comminato al lavoratore che, in forza dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c., abbia rifiutato l’adibizione a mansioni inferiori offrendo contestualmente di eseguire le prestazioni originarie (Pret. Monza, sez. Desio, 26 maggio 1999, est. Magelli, in D&L 1999, 917)
- Il procedimento penale non è di per sé motivo di irrogazione di sanzione disciplinare (tanto meno di licenziamento) nei confronti di un lavoratore che sia incorso in responsabilità penale. È ammesso il ricorso alla sospensione cautelare in attesa di sentenza di condanna definitiva (Corte Costituzionale 17/12/97 n. 405, pres. Granata, rel. Guizzi, in D&L 1998, 321, n. PANDURI, Infondatezza della questione di legittimità sollevata e irragionevolezza della norma denunciata; conseguenze della condanna penale nel rapporto di lavoro; procedimento e sospensione cautelare)
- Ripetute manifestazioni di insubordinazione e di inosservanza delle regole di correttezza nei rapporti all’interno dell’azienda e con i superiori, allorché poste in essere da lavoratore sofferente per una grave forma di depressione comportante in certi momenti non tanto la perdita della capacità di intendere e di volere quanto un’alterazione della capacità di percezione di quanto accade intorno, e in quanto tale non in condizione di rendersi conto delle conseguenze sul piano disciplinare dei suoi comportamenti, non possono essere ritenute idonee a integrare gli estremi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo (Trib. Milano 23/7/97, pres. Gargiulo, est. Ruiz, in D&L 1998, 177)
- Ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, ai sensi dell’art. 25 D.G. sez. III CCNL metalmeccanici, intimati per avere il dipendente utilizzato il computer aziendale per l’esecuzione di lavori personali estranei all’attività aziendali, il datore di lavoro deve provare che l’attività contestata sia stata svolta durante l’orario di lavoro e, per la configurabilità della giusta causa, che tale utilizzo sia stato di entità rilevante, poiché il semplice utilizzo del computer aziendale è circostanza di per sé insufficiente a giustificare il licenziamento disciplinare (Pret. Milano 18/4/96, est. Porcelli, in D&L 1996, 1026, nota Portera)
- E’ illegittimo il licenziamento inflitto a seguito del comportamento doloso del lavoratore, consistito in false attestazioni documentali finalizzate al rimborso di spese non effettuate, qualora il danno patrimoniale arrecato sia esiguo, anche in riferimento alle dimensioni dell’impresa (Cass. 27/5/95 n. 5967, pres. Taddeucci, est. Roselli, in D&L 1996, 487, nota Muggia, Licenziamento per giusta causa e funzione della pena)