Questa voce è stata curata da Chiara Bovenga
Scheda sintetica
La malattia è uno stato di alterazione della salute del lavoratore che non gli consente di lavorare poiché provoca una situazione di inidoneità (temporanea e non permanente) a svolgere l’attività lavorativa.
In applicazione dell’art. 32 Cost., che eleva a diritto costituzionalmente garantito il diritto alla salute, e dell’art. 38 Cost., co. 2 (“I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”), il Codice Civile dispone che il lavoratore che si assenta per malattia ha diritto non solo alla conservazione del proprio posto di lavoro, ma anche alla corresponsione, quando previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, della retribuzione o di un’indennità, altrimenti di una forma di previdenza o assistenza equivalente, purché l’assenza non superi il periodo stabilito (quasi sempre) dai contratti collettivi (c.d. “periodo di comporto).
Normativa di riferimento
- Art. 2110 c.c.
- Contratti collettivi di riferimento
- Statuto dei Lavoratori e D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (per le conseguenze in caso di licenziamento illegittimo)
A chi rivolgersi
- Studio legale esperto in diritto del lavoro
- Ufficio vertenze sindacali
Scheda di approfondimento
Motivi dell’assenza per malattia
- Malattia nel senso più ampio del termine: qualsiasi alterazione dello stato di salute psico-fisico del lavoratore tale da comportare una riduzione della capacità lavorativa e la temporanea impossibilità di svolgere le proprie mansioni
- Necessità di sottoporsi a terapie specifiche che rendono impossibile la presenza del lavoratore
- Periodo di convalescenza
Malattia e indennità
In caso di contratti di lavoro a tempo determinato e indeterminato, il lavoratore – per poter ottenere il trattamento economico sostitutivo – necessita di un certificato di malattia che viene rilasciato dal medico curante e inviato dal medico stesso all’INPS. È poi l’INPS a inviare il certificato medico al datore di lavoro. Anche per i certificati rilasciati a seguito di ricovero in ospedale l’invio è “automatico”. In tutti questi casi il lavoratore dovrà procedere alla consegna del certificato cartaceo solo qualora, per qualsiasi motivo, non sia possibile la trasmissione telematica.
Il lavoratore si deve poi sottoporre ad accertamenti sanitari, di competenza dell’ASL. Nel settore privato, se il lavoratore è assicurato presso l’INPS, sarà questo a effettuare i controlli. Durante le fasce di reperibilità (per tutta la durata della malattia indicata nel certificato) il lavoratore deve farsi trovare al proprio domicilio per potersi sottoporre ai controlli (le fasce di reperibilità sono – compresi il sabato, la domenica e i festivi – dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19). L’assenza alla visita di controllo (o il rifiuto di sottoporsi alla stessa) possono giustificare, come diremo più avanti, il licenziamento per giusta causa. L’assenza durante le fasce di reperibilità comporta anche la mancata corresponsione dell’indennità per massimo 10 giorni nel caso di assenza alla prima visita di controllo; l’assenza alla seconda visita di controllo comporta una riduzione del 50% dell’indennità e l’assenza alla terza visita di controllo comporta la sospensione dell’erogazione da quel giorno in avanti.
L’indennità di malattia viene erogata dall’INPS a partire dal 4° giorno di malattia e fino a un massimo di 180 giorni. Pertanto per i primi tre giorni al lavoratore non è corrisposta indennità, a meno che il contratto di lavoro non preveda che l’indennizzo sia interamente a carico del datore di lavoro per i primi 3 giorni. Dal 4° al 20° giorno al lavoratore verrà erogata un’indennità pari al 50% della retribuzione, dal 21° giorno pari al 66,66%.
Ipotesi di licenziamento per malattia
Il lavoratore ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro durante il periodo della malattia e non può essere licenziato – per ragioni soggettive – durante e al termine della stessa, se non in due ipotesi: qualora la malattia si protragga oltre il periodo di comporto stabilito (con le relative eccezioni) o qualora la malattia provochi uno scarso rendimento che causa un danno per il datore di lavoro.
Licenziamento per superamento del periodo di comporto
Il secondo comma dell’art. 2110 c.c. dispone che l’imprenditore può recedere dal contratto, e quindi licenziare il lavoratore, nel caso in cui l’assenza per malattia superi un periodo (c.d. “periodo di comporto”) stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, o in via residuale, dagli usi.
È quasi sempre la contrattazione collettiva a stabilire la durata del periodo di comporto; la legge lo fa soltanto per gli impiegati, fissandola a 3 mesi se l’anzianità di servizio è inferiore a 10 anni, e a 6 mesi se invece tale anzianità è superiore a 10 anni.
Normalmente i contratti collettivi prevedono un periodo di comporto che cresce al crescere dell’anzianità di servizio e della qualifica. I contratti collettivi poi possono anche prevedere la possibilità per il lavoratore di chiedere, prima del termine del comporto, un periodo di aspettativa non retribuito (e senza decorrenza dell’anzianità di servizio, che invece durante il comporto decorre normalmente).
I contratti collettivi prevedono due tipi di comporto:
- Comporto secco: da intendersi come il numero massimo di giorni consecutivi di assenza per malattia (con riferimento dunque a un unico evento di malattia)
- Comporto per sommatoria: da intendersi come la somma del numero massimo di giorni di assenza per malattia in capo a un lavoratore in un determinato arco temporale (con riferimento quindi a una pluralità di malattie ripetute nel tempo). Se il CCNL non prevede un comporto per sommatoria, sarà il giudice di merito adito per l’impugnazione del licenziamento a stabilirlo in via equitativa.
Nel comporto si calcolano anche i giorni festivi, mentre non si calcolano i giorni di assenza per malattia determinata da gravidanza o puerperio (quest’ultimo punto è specificato in una nota del Ministero del Lavoro in risposta a un interpello proposto dalla Regione Lazio – Azienda Sanitaria Locale Roma A: nota 16.11.2006, prot. n. 6123).
Nel part time orizzontale il comporto si calcola come nel full time; nel part time verticale – se non vi è alcuna previsione contrattuale – sarà il giudice a ridurre in misura proporzionale il periodo di comporto in base alla quantità di ore di lavoro.
Il lavoratore può anche, tramite una richiesta scritta da presentarsi prima della scadenza del periodo di comporto, chiedere che l’assenza per malattia si converta in assenza per ferie. In questo modo il periodo di comporto viene interrotto. Il datore di lavoro può però rifiutarsi di convertire il periodo di malattia in periodo di ferie, purché dimostri di aver tenuto in considerazione il diritto fondamentale del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, nonostante abbia dato prevalenza e precedenza alle esigenze organizzative e produttive dell’azienda.
Decorso il periodo di comporto, il lavoratore può licenziare il dipendente se l’assenza si protrae. La caratteristica principale di questo licenziamento risiede nel fatto che il datore di lavoro può procedere al licenziamento senza dimostrare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo; il superamento del periodo di comporto è di per sé sufficiente a giustificare il recesso datoriale. È necessario però il preavviso e, se il licenziamento per superamento del periodo di comporto è legittimo, sono irrilevanti ulteriori motivi che rendono illegittimo il licenziamento.
Il datore di lavoro però non può licenziare il lavoratore che si è assentato oltre il periodo di comporto se la malattia si è verificata a causa dell’ambiente di lavoro nocivo, poiché tale evento dipenderebbe in parte dal datore di lavoro che non ha provveduto a prevenire o eliminare il fattore di rischio. Il che può comunemente avvenire qualora l’ambiente di lavoro non sia salubre, qualora vi sia stato un infortunio sul lavoro o non siano state adottate tutte le misure di sicurezza necessarie, ma anche – meno comunemente – qualora la malattia derivi da una situazione di stress psico-fisico ricollegabile a comportamenti mobbizzanti. Il lavoratore ha l’onere di dimostrare il nesso causale tra la malattia e le mansioni.
Una volta superato il periodo di comporto il datore di lavoro può ancora procedere al licenziamento anche qualora il lavoratore rientri in servizio poiché l’accettazione della prestazione non comporta rinuncia al potere di recesso. Condizione necessaria però è che il datore di lavoro dimostri il nesso tra il licenziamento e il superamento del periodo di comporto, purché il recesso sia tempestivo (il giudice potrebbe interpretare l’aver fatto trascorrere un tempo troppo lungo dal superamento del periodo di comporto come rinuncia al diritto). Il concetto di tempestività però, per orientamento della Corte di Cassazione, deve essere valutato con minor rigore, tenendo conto di tutte le circostanze.
In giurisprudenza vi sono due orientamenti riguardo l’indicazione del superamento del periodo di comporto: un primo orientamento sostiene che basta che il datore di lavoro indichi il numero massimo di giorni di assenza per malattia; un secondo orientamento ritiene invece che il datore di lavoro debba indicare i singoli giorni di malattia.
La giurisprudenza maggioritaria ritiene che il datore di lavoro non abbia alcun obbligo di comunicare al lavoratore l’imminente superamento del periodo di comporto; orientamento di merito minoritario (in tal senso il Tribunale di Milano) sostiene invece che, in applicazione dei doveri di buona fede e correttezza, il datore di lavoro debba comunicare con un congruo anticipo l’imminente superamento.
Nel caso però di malattie particolarmente gravi per le quali è previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva un obbligo in capo al datore di lavoro di conservare il posto di lavoro del lavoratore oltre il periodo di comporto, il lavoratore ha l’onere di informare il datore di lavoro della natura della malattia prima che questo eserciti il potere di recesso.
Licenziamento per scarso rendimento
Mentre il licenziamento per superamento del periodo di comporto trova il suo fondamento nella legge e cioè, come già detto, nell’art. 2110 c.c., il licenziamento per scarso rendimento è di origine giurisprudenziale.
Il licenziamento è possibile qualora l’assenza del lavoratore immobilizzi l’andamento e il funzionamento dell’impresa e provochi un grave danno alla stessa. Quando dunque l’assenza del lavoratore danneggia i meccanismi produttivi, immobilizza l’attività lavorativa o obbliga l’impresa a ricercare un sostituto, il licenziamento prima del superamento del periodo di comporto è legittimo. Questo licenziamento è legittimo anche nel caso di malato cronico (chi si assenta spesso, seppur magari per brevi periodi) purché questi svolga un’attività lavorativa scarsa dal punto di vista non solo quantitativo, ma anche qualitativo. In tal modo, oltre a ledere l’attività d’impresa del datore di lavoro, il lavoratore viene meno, seppur involontariamente, anche al dovere di collaborazione che è insito nel dovere di diligenza ex art. 2104 c.c.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e per giusta causa
In tutti gli altri casi, il lavoratore non può mai essere licenziato durante il periodo di malattia, se non per ragioni inerenti “all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (e quindi per giustificato motivo oggettivo) oppure per giusta causa. Fattispecie che integra la giusta causa è ravvisabile, ad esempio, qualora il lavoratore si rifiuti di sottoporsi alla visita di controllo o alla visita fiscale: in tal caso il licenziamento è giustificato. Altra fattispecie che integra giusta causa si ha qualora il lavoratore abbia violato il dovere di non compromettere il recupero del proprio stato di salute. Inoltre, ipotesi che indubbiamente integra giusta causa di licenziamento durante il periodo di malattia, è quella di una malattia simulata e inesistente.
Conseguenze nel caso di licenziamento in costanza di malattia
Bisogna distinguere tra i licenziamenti intimati da un’impresa che abbia alle dipendenze almeno sedici dipendenti e quelli intimati da un’impresa che non integri tale requisito numerico. Il D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 si applica ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e alle imprese che avevano alle dipendenze almeno sedici dipendenti prima di tale data o che raggiungano tale requisito in seguito ad assunzioni successive all’entrata in vigore della norma (in questo caso il D.Lgs. 23/2015 si applicherà a tutti i lavoratori sia che siano stati assunti prima dell’entrata in vigore della norma, sia che siano stati assunti successivamente)
- Licenziamenti afferenti lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015: il co. 7 dell’art. 18 St. Lav. espressamente prevede (per le imprese con alle dipendenze almeno sedici dipendenti) che in caso di licenziamento del lavoratore in violazione del disposto dell’art. 2110 c.c., si applichi il co. 4 del medesimo articolo il quale prevede che il giudice annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto entro il limite delle dodici mensilità, dedotto quanto il lavoratore ha ottenuto per lo svolgimento di altre attività lavorative durante il periodo di estromissione e di quanto avrebbe potuto percepire se si fosse diligentemente dedicato alla ricerca di una nuova occupazione; il datore di lavoro è condannato altresì al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra. Il lavoratore può chiedere entro trenta giorni, in sostituzione della reintegrazione, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
- Licenziamenti afferenti lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 (per imprese che abbiano alle dipendenze almeno sedici dipendenti): qui la questione è più delicata poiché il D.Lgs. 23/2015 nulla dice circa gli effetti di un licenziamento intimato in violazione dell’art. 2110 c.c. Il co. 4 dell’art. 2 del D.Lgs. 23/2015 parla solo di licenziamento per un motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli art. 4 c. 4 e 10 c. 3 L. 68/99. Si potrebbe pensare che vi rientrino anche quelle ipotesi di inabilità temporanea che configurano la malattia: pertanto, sposando tale tesi, a questo licenziamento si applicherebbero le stesse conseguenze previste per i licenziamenti nulli, discriminatori o intimati in forma orale e cioè la reintegrazione e il risarcimento del danno commisurato all’ultima retribuzione globale di fatto e nella misura minima di cinque mensilità, fatta sempre salva la facoltà del lavoratore di chiedere entro trenta giorni un’indennità pari a quindici mensilità, anziché la reintegra.
Bisogna aspettare di vedere l’orientamento dei giudici sul merito. - Nell’ipotesi di impresa che non rientri all’interno dei requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18, per il lavoratore non sarà possibile la reintegrazione nel caso di licenziamento illegittimo, ma solo la corresponsione di un’indennità dimezzata rispetto a quelle previste per le imprese con almeno sedici dipendenti e comunque non superiore a sei mensilità. Questo è quanto disposto dall’art. 9 del D.Lgs. 23/2015.
Casistica della magistratura in tema di licenziamento per malattia
- Non computabili nel periodo di comporto le assenze per infortunio solo se ne è responsabile il datore di lavoro.
L’addetta a una mensa aziendale aveva impugnato il licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto, lamentando che in tale periodo fossero state computate le giornate di assenza per un infortunio occorsole in azienda e sostenendo comunque che la responsabilità dell’infortunio doveva essere attribuita alla datrice di lavoro. La Cassazione, confermando il rigetto delle domande disposto dai giudici di merito, (i) ribadisce la propria giurisprudenza, secondo cui le assenze del lavoratore dovute a infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono in linea di principio riconducibili all’ampia e generale nozione contenuta nell’art. 2110 c.c. e sono pertanto normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro; (ii) perché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto non basta, quindi, che si tratti di malattia di origine lavorativa, ma è altresì necessario che in relazione a tale malattia sussista la responsabilità del datore di lavoro; (iii) nel caso di specie, in giudizio era emersa l’assoluta imprevedibilità dell’evento (lo scoppio della vetrinetta termica), alla luce del grado di diligenza esigibile in base alle norme tecniche e precauzionali del tempo, per cui la Corte d’appello aveva correttamente escluso che la responsabilità dell’infortunio risalisse al datore di lavoro. (Cass. 27/4/2023 n. 11136, ord., Pres. Doronzo Rel. Pagetta, in Wikilabour, Newsletter n. 9/23) - Licenziamento per eccessiva morbilità legittimo solo se si supera il periodo di comporto.
Un lavoratore era stato licenziato per giustificato motivo oggettivo, in ragione della scarsissima utilità per l’impresa della sua prestazione a cagione delle numerose, imprevedibili assenze per malattia negli ultimi sei anni. Nel giudizio di impugnazione di tale licenziamento, la Cassazione, respingendo il ricorso della società, ricorda che in relazione alle assenze per malattia è possibile unicamente, secondo la disciplina speciale di cui all’art. 2110 cod. civ. il licenziamento per superamento del periodo di comporto. Secondo la Corte, infatti, in caso di eccessiva morbilità del dipendente, il contemperamento dei confliggenti interessi del datore di lavoro e del lavoratore si realizza con la rilevanza oggettiva delle assenze per malattia, che comportano il licenziamento solo se sia superato il periodo di tolleranza stabilito dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. (Cass. 27/4/2023 n. 11174, Pres. Raimondi Rel. Garri, in Wikilabour, Newsletter n. 9/23) - È nullo il licenziamento per superamento del comporto se parte delle assenze sono imputabili alle mansioni svolte e dunque a colpa del datore di lavoro, anche se ha fatto affidamento sulla valutazione del medico del lavoro.
Al fine della verifica dell’effettivo superamento del comporto da parte del lavoratore, occorre sottrarre dai giorni di assenza per malattia quelli causati dall’assegnazione a mansioni incompatibili con il suo stato di salute. Nel caso di specie, la consulenza medico-legale ha riscontrato che la patologia sofferta dal ricorrente trovava un peggioramento nelle stesse mansioni assegnate dal datore di lavoro. Il CTU nominato dal Tribunale ha criticato i giudizi di idoneità del medico competente, per non aver tenuto conto delle particolari attività di movimentazione di carichi svolte dal ricorrente, indicate come cause dell’ingravescenza della patologia. Il Tribunale ha dunque accertato che le assenze per malattia erano imputabili al datore di lavoro, poiché quest’ultimo, nel fare affidamento sulle valutazioni del medico competente, sopporta il rischio delle conseguenze derivanti dal giudizio errato di quest’ultimo. (Trib. Parma 18/4/2023, Giud. Moresco, in Wikilabour, Newsletter n. 14/2023) - Discriminatorio conteggiare in maniera eguale, ai fini del comporto, le assenze per malattia di lavoratori disabili e non disabili.
Si rafforza l’orientamento sulla tutela dei soggetti disabili nel comporto per malattia, quando quest’ultima è connessa alla disabilità: sulla scorta della recente giurisprudenza anche della Corte di Cassazione (Cass. 9095/2023), il Tribunale dichiara nullo il licenziamento subito da una lavoratrice per superamento del comporto, in quanto discriminatorio in via indiretta perché le era stato applicato il medesimo termine dei lavoratori non disabili, senza escludere le assenze dovute alla sua disabilità. È stata ritenuta irrilevante la circostanza che il datore di lavoro non conoscesse lo stato di disabilità della ricorrente, in quanto la discriminazione opera su un piano esclusivamente oggettivo. (Trib. Milano 6/4/2023, Giud. Saioni, in Wikilabour, Newsletter n. 11/23) - Nel caso di licenziamento del lavoratore per l’avvenuto superamento del periodo di comporto, il giudizio sulla tempestività del recesso non può derivare da un’applicazione rigida dei criteri cronologici predeterminati, dovendo il giudice verificare caso per caso le circostanze significative in concreto mediante apposita valutazione di congruità. Sarà il lavoratore a dover provare che l’intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso ha superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto. (Cass. 11/9/2020 n. 18960, ord., Pres. Raimondi Est. Garri, in Lav. nella giur. 2020, 1208)
- Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c. (Corte app. Roma 12/6/2020, Pres. Nunziata Rel. Trementozzi, in Lav. nella giur. 2020, 1105)
- In caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto non sussiste, così come nel caso di licenziamento disciplinare, un rigoroso e stringente obbligo di tempestiva comunicazione della causa motivo di risoluzione del rapporto, di talché non costituisce motivo di illegittimità del licenziamento la procrastinazione della comunicazione del licenziamento. (Trib. Livorno 22/5/2020, Giud. Maffei, in Lav. nella giur. 2020, 1106)
- Il licenziamento intimato prima del termine finale del periodo di comporto è nullo e comporta il diritto al ripristino del rapporto di lavoro secondo le norme di diritto comune, quando non sia applicabile la tutela reale.
Il Tribunale dichiara la nullità del licenziamento per asserito superamento del periodo di comporto, poiché adottato prima dello spirare del termine del periodo di conservazione del posto di lavoro previsto dal CCNL. Ai fini della normativa applicabile, il Tribunale ritiene che la violazione del dettato di cui all’art. 2110 c.c., qualora si versi in rapporti di lavoro non tutelati dall’art. 18 poiché privi del requisito dimensionale, debba individuarsi nelle norme civilistiche di diritto comune senza che sia possibile un’estensione analogica dell’art. 8 della L. 604/1966. Secondo le ordinarie norme in tema di nullità degli atti, il recesso nullo è “tamquam non esset” e dunque improduttivo di effetti. (Trib. Busto Arsizio 11/3/2020, Giud. Fumagalli, in Wikilabour, Newsletter n. 10/2020) - In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, la responsabilità del datore di lavoro, di natura contrattuale e non oggettiva, va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti da conoscenze tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso causale tra l’una e l’altra; solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie a impedire il verificarsi del danno. Inoltre, l’unico caso in cui le assenze del lavoratore, imputabili a malattia professionale, possono detrarsi dal computo del comporto è quello in cui detta malattia sia riconducibile ad una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (Cass. 27/2/2019 n. 5749, Pres. Nobile Est. Arienzo, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di F. Simeone, “Malattia professionale e periodo di comporto: quando sussiste la responsabilità del datore di lavoro, 461)
- In tema di licenziamento per giusta causa, lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione, ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, ferma restando la necessità che, nella contestazione dell’addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore (massima Cass., sez. IV lav., 23 maggio 2017, n. 12902, in www.pluris.it)
- Lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l’esercizio del potere di recesso solo quando si tratta di licenziamento per giustificato motivo; esso non impedisce, invece, l’intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d’essere la conservazione del posto di lavoro in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione neppure in via temporanea del rapporto (massima Cass., sez. IV civ., 4 gennaio 2017, n. 64, in www.pluris.it)
- In tema di controlli sulle assenze per malattia dei lavoratori dipendenti, basati sull’introduzione di fasce orarie entro le quali devono essere effettuati, dai servizi competenti, accessi presso le abitazioni degli assenti dal lavoro, ai sensi dell’art. 5, comma 14, del d.l. n. 496 del 1983, conv., con modif., dalla l. n. 638 del 1983, la violazione da parte del lavoratore dell’obbligo di rendersi disponibile per l’espletamento della visita domiciliare entro tali fasce assume rilevanza di per sé, a prescindere dalla presenza, o meno, dello stato di malattia, e può anche costituire giusta causa di licenziamento (massima Cass., sez. IV lav., 2 dicembre 2016, n. 24681, in www.pluris.it)
- In tema di licenziamento per superamento del comporto, il datore di lavoro può recedere non appena terminato il periodo suddetto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, ma ha, altresì, la facoltà di attendere la ripresa del servizio per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda. Ne deriva che solo a decorrere dal rientro del lavoratore, l’eventuale prolungata inerzia datoriale può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al licenziamento e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente, e che, in mancanza di detto rientro, non può prospettarsi alcun ritardo nell’intimazione del recesso (massima Cass., sez. IV lav., 20 settembre 2016, n. 18411, in www.pluris.it)
- Nell’ipotesi di concessione di un periodo di aspettativa, successivo a quello di malattia, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell’aspettativa di talché, non può parlarsi in alcun modo di rinuncia tacita al recesso per superamento del periodo di comporto (soprattutto nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia invitato la lavoratrice a riprendere servizio appena scaduto il periodo di aspettativa), essendo a tal fine necessario valutare il comportamento del datore di lavoro dal momento della ripresa del servizio (a seguito della fruizione del comporto e di aspettativa comunque concessa e sempre connessa allo stato di malattia) che si traduca in una prolungata inerzia datoriale, sintomatica della volontà di rinuncia al potere di licenziamento e tale da ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente gravando peraltro su quest’ultimo l’onere di provare tale circostanza (massima Cass., sez. IV lav., 6 aprile 2016, n. 6697, in www.pluris.it)
- Il lavoratore ha la facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, dovendosi escludere una incompatibilità assoluta tra ferie e malattia (massima Cass., sez. IV lav., 7 giugno 2013, n. 14471, in www.iusexplorer.it)
- Nel caso di assenza dal lavoro per malattia, è possibile che, su richiesta del lavoratore interessato, un periodo di assenza venga imputato, al fine di sospendere l’ulteriore decorso del comporto, alla fruizione delle ferie già maturate, anche se ciò implica la rinunzia al diritto di fruire delle suddette ferie secondo la destinazione cui queste sono preordinate. Tale richiesta deve recare l’indicazione del momento a decorrere dal quale si intende convertire l’assenza per malattia in assenza per ferie, momento che deve precedere la scadenza del periodo di comporto, atteso che con la suddetta scadenza il datore di lavoro acquista il diritto di recedere ai sensi dell’art. 2110 c.c. Ove peraltro manchi una previsione collettiva che, nel regolamentare la fruizione delle ferie nell’ambito annuale, consenta al lavoratore l’esercizio del diritto di scelta dell’epoca di fruizione delle stesse, con la conseguenza che la suddetta scelta è riservata, a norma dell’art. 2109 c.c., al datore di lavoro, il quale deve contemperare le esigenze di un ordinato e proficuo svolgimento dell’attività produttiva con gli interessi del prestatore di lavoro, incombe sul datore, ove venga investito della suddetta richiesta, l’onere di provare di aver tenuto conto, nell’assumere la relativa decisione, del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore di evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto (massima Cass., sez. IV lav., 28 gennaio 1997, n. 873, in www.iusexplorer.it)
- In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l’infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell’ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell’obbligo di sicurezza (art. 2087 c.c.) o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l’onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l’assenza e le mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento (massima Cass., sez. IV lav., 7 aprile 2011, n. 7946, in www.iusexplorer.it)
- Nell’ipotesi di licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto, non è operante il criterio della tempestività del recesso, ma difettando gli estremi dell’urgenza che si impongono nell’ipotesi di giusta causa, la valutazione del tempo decorso tra la data di detto superamento e quella di licenziamento con apprezzamento – al fine di stabilire se la durata di esso sia tale da risultare oggettivamente incompatibile con la volontà di porre fine al rapporto – va condotta con criteri di minor rigore, apprezzando l’intero contesto delle circostanze all’uopo significative, in modo tale da poter contemperare le esigenze del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale e valutare la gravità di tale comportamento, soprattutto con riferimento alla sua compatibilità o meno con la continuazione del rapporto (Cass., sez. IV lav., 23 gennaio 2008, n. 1438, in www.iusexplorer.it)
- Le reiterate assenze del lavoratore possono configurare uno scarso rendimento idoneo a giustificare il licenziamento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, onde non potrebbe più configurarsi in specie alcun licenziamento discriminatorio o illecito, in considerazione del costante insegnamento di questa Corte di legittimità che nega la possibilità di qualificare come illecito o discriminatorio un licenziamento sorretto da giusta causa o da giustificato motivo (Cass., sez. IV lav., 17 giugno 2016, n. 12592, in www.iusexplorer.it)
- È legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (Cass., sez. IV lav., 12 giugno 2014, n. 18678, in www.iusexplorer.it)
- La fattispecie del recesso del datore di lavoro – per l’ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (c.d. eccessiva morbilità) – si inquadra nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate (dall’art. 2110 c.c.), che prevalgono – per la loro specialità – sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa (art. 1256, comma, e 1464 c.c.), sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali (leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 e successive modifiche) omissis. Il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (c.d. periodo comporto) – predeterminato dalla legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi oppure, nel difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa – e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso – nel senso che non è all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo (art. 3 della legge n. 604 del 1966), né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa (art. 1256, comma 2, e 1464 c.c.), né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse omissis – senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (Cass., sez. IV lav., 7 aprile 2003, n. 5413, in www.iusexplorer.it)
- Lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l’esercizio del potere di recesso solo quando si tratta di licenziamento per giustificato motivo; esso non impedisce, invece, l’intimazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d’essere la conservazione del posto di lavoro in periodo di malattia di fronte alla riscontrata esistenza di una causa che non consente la prosecuzione neppure in via temporanea del rapporto (massima Cass., sez. IV lav., 1° giugno 2005, n. 11674, in www.iusexplorer.it)
- La tesi che la permanenza del lavoratore malato al proprio domicilio si configura come mero onere del dipendente e non obbligo e che l’assenza non costituisca inadempimento del lavoratore è erronea. La assenza, rendendo di fatto impossibile il controllo sulla sussistenza della malattia, costituisce non solo inadempimento di un obbligo nei confronti dell’Istituto previdenziale, sanzionato dalla perdita della, indennità ma anche nei confronti del datore di lavoro, essendo evidente l’interesse di questi a ricevere regolarmente la prestazione lavorativa ed al controllo della effettiva sussistenza della causa impediente la prestazione. L’assenza del lavoratore, costituendo pertanto inadempimento di un obbligo di collaborazione intesa in senso ampio, può ben essere sanzionata disciplinarmente della contrattazione collettiva (Cass., sez. IV lav., 21 maggio 1998, n. 5090, in www.iusexplorer.it)
- La prestazione da parte del dipendente, di attività lavorativa a favore di terzi durante il periodo di malattia, pur non essendo in linea generale vietata in modo assoluto, concreta, tuttavia, un inadempimento degli obblighi imposti al lavoratore – e in particolare del dovere di fedeltà, inteso in senso ampio e comprensivo non soltanto delle specifiche previsioni di cui all’art. 2105 C.C. ma anche degli obblighi non codificati conseguenti al generale dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375 C.C.) – allorché evidenzi la simulazione dell’infermità o concreti una violazione del divieto di concorrenza ovvero comprometta la guarigione del lavoratore per inosservanza del dovere di porre in atto le cautele necessarie ad un rapido reimpiego delle proprie energie fisiche (Cass., sez. IV lav., 19 febbraio 1991, n. 1747, in www.iusexplorer.it)
Si veda anche la casistica di giurisprudenza della voce Comporto per malattia (superamento del periodo di comporto)