Questa voce è stata curata da Arturo Di Mario
Fonti normative
- Corte costituzionale artt. 36 e 39
- Codice Civile art. 2099
Giusta retribuzione
La Costituzione ha stabilito che il lavoratore «ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» ponendo così, a tutela del lavoratore, un limite alla pur ampia autonomia negoziale del datore di lavoro.
L’art. 36 Cost. va oltre il semplice sinallagma “prestazione lavorativa-compenso”, per introdurre una più completa nozione sulla retribuzione, la quale non deve essere solo «mero corrispettivo del lavoro, ma compenso del lavoro proporzionale alla sua quantità e qualità e, insieme, mezzo normalmente esclusivo per sopperire alle necessità vitali del lavoratore e dei suoi familiari, che deve essere sufficiente ad assicurare a costoro un’esistenza libera e dignitosa» (Corte Cost. n. 559/1987); il primo diritto stabilisce «un criterio positivo di carattere generale», il secondo «un limite negativo, invalicabile in assoluto» (Cass. n. 24449/2016).
La Carta costituzionale aveva, inoltre, previsto un’integrazione all’art. 36, con il successivo art. 39, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei Padri Costituenti, consentire alle associazioni sindacali, tramite la stipula di contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, la determinazione di parametri retributivi equi, validi per le categorie di appartenenza dei lavoratori.
La mancata emanazione della legge ordinaria di attuazione della disposizione dell’art. 39, inerente l’obbligo da parte dei sindacati di effettuare, presso uffici locali o centrali, la registrazione per acquisire personalità giuridica, ha prodotto contratti collettivi di diritto comune privi di efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti si riferiscono, perché stipulati da soggetti di diritto privato, validi quindi per chi ha aderito alle organizzazioni firmatarie.
La retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva viene considerata come corrispondente, in un certo senso, alla “retribuzione costituzionale”, tenendo presente però che nell’equivalenza proporzionalità/sufficienza quest’ultimo valore perde di peso rispetto al calcolo più lineare quantità + qualità lavoro = corrispettivo, per cui i minimi tabellari dei ccnl non sono in grado, avendo una portata generale, di soddisfare compiutamente al criterio costituzionale di sufficienza che ha invece una portata individuale, legata al singolo lavoratore, alla sua famiglia, al periodo temporale, al luogo.
Minimo contrattuale
La mancata applicazione erga omnes dei contratti collettivi e il mancato intervento legislativo per l’introduzione di un salario minimo hanno legalizzato, con l’avvallo della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, l’utilizzazione dei minimi retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva nazionale come parametro orientativo esterno per la valutazione di una equa retribuzione – applicabile a tutti i rapporti di lavoro subordinato – sintesi dei criteri costituzionali di proporzionalità e sufficienza (Cass. n. 5139/2005).
Il lavoratore che ritenga gli sia stata conferita una retribuzione non corrispondente al precetto costituzionale può rivolgersi all’autorità giudiziaria, come già contemplato dall’art. 2099 del cod. civ., nella parte in cui si afferma che «in mancanza [di norme corporative o] di un accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice».
Il giudice del lavoro interviene quindi su sollecitazione del lavoratore – che ha comunque l’onere di provare che la remunerazione percepita è insufficiente (Cass. n. 24002/2012) – per verificare la rispondenza della retribuzione conferita al lavoratore ai criteri costituzionali e, in caso negativo, determina la “giusta retribuzione” utilizzando come parametro i minimi tabellari – stabiliti per ciascuna categoria e qualifica – dei c.c.n.l. stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, indipendentemente dall’iscrizione o meno del datore di lavoro ad un’associazione sindacale stipulante; e proprio perché trattasi di “minimi” contrattuali l’applicazione va effettuata anche ad imprese di non rilevanti dimensioni, purché non sussista per queste imprese una separata contrattazione collettiva (Cass. n. 21274/2010).
L’utilizzazione delle tariffe sindacali dei contratti collettivi come parametri orientativi, non sono vincolanti per il giudice, che se ne può quindi anche discostare: in melius quando il lavoratore dimostri l’inadeguatezza del trattamento retributivo rispetto al parametro costituzionale di sufficienza (Cass. 11437/2006) o in peius, fornendo però una motivazione non fondata sulla “scienza privata”, ma legata a elementi oggettivamente validi, come: zona depressa con potere di acquisto della moneta superiore alla media nazionale (Cass. n. 10260/2001), crisi economica, tariffe sindacali, carattere artigianale e dimensioni dell’impresa (Cass. n. 14211/2001, Cass. n. 17250/2004; contra Cass. n. 896/2011) ecc.
Il magistrato generalmente interviene nei seguenti casi:
- Non applicazione di un contratto collettivo
- Assenza di contratto collettivo in una specifica categoria
Il giudice di merito in mancanza di un contratto collettivo che regoli una determinata categoria, può fare riferimento alla disciplina collettiva di un altro settore, magari affine a quello in cui opera il datore di lavoro, come parametro o raffronto per determinare unicamente la retribuzione base spettante al lavoratore subordinato senza tener conto degli altri istituti contrattuali. (Cass. n. 3184/2000, n. 9759/2002; n. 14791/2008, n. 7528/2010) - Presenza di più contratti collettivi in una specifica categoria
In presenza di più contratti che regolino lo stesso settore, il giudice può autonomamente richiamarsi alla retribuzione base di uno dei contratti collettivi di riferimento (anche territoriale o aziendale, seppure peggiorativo rispetto a quello nazionale) che più soddisfi il parametro costituzionale della giusta retribuzione (Cass. n. 3218/1998, n. 19467/2007, n. 1415/2012).
- Assenza di contratto collettivo in una specifica categoria
- Applicazione di un contratto collettivo di un altro settore di attività
Quando il datore di lavoro applica un contratto collettivo non corrispondente al settore di attività dell’impresa, il lavoratore non può richiedere l’applicazione di un contratto collettivo diverso (Cass. S.U. n. 2665/1997), se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma può richiedere l’intervento del giudice unicamente deducendo «la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato». (Cass. n. 16340/2009, n. 26742/2014, n. 24160/2015)Il giudice quindi nel valutare orientativamente un contratto collettivo non vincolante per le parti, come termine di riferimento per una giusta retribuzione, può prendere in esame esclusivamente gli elementi e gli istituti retributivi che costituiscono il cosiddetto “minimo costituzionale”, senza considerare gli altri istituti contrattuali. (Cass. n. 19467/2007, n. 14791/2008; n. 7528/2010) - Pluralità di contratti collettivi per il medesimo settore
Il pluralismo sindacale e la comparsa dei c.d. “contratti collettivi pirata” hanno prodotto il proliferare di più contratti collettivi applicabili in un medesimo ambito, aprendo così un nuovo fronte per l’intervento del giudice, che viene sollecitato dal lavoratore nel momento in cui il parametro minimo retributivo applicato dal contratto utilizzato dal datore non risponde al principio di proporzionalità, rispetto alla quantità e qualità del lavoro e/o di sufficienza ad assicurare a lui ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.Il Tribunale di Torino (sent. n. 1128/2019) – così anche il Trib. di Milano (sent. n. 1977/2016) e App. Milano (sent. n. 104/2022) – si è occupato di uno dei settori più inflazionati dalla presenza di Ccnl, quello della vigilanza (non armata), dove può essere applicata per le stesse figure professionali (in questo caso receptionist) una pluralità di contratti collettivi: Ccnl SAFI-Servizi ausiliari fiduciari e integrati (UIL), Ccnl Vigilanza privata e servizi fiduciari (CIGL/CISL/UGL), Ccnl Vigilanza privata, investigativa e servizi fiduciari (CISAL), Ccnl Vigilanza privata (CONFIAL), Ccnl Multiservizi (CONFSAL) e Ccnl Portieri e proprietari di fabbricati.Il problema che si è posto dinnanzi al giudice è stato duplice:
– l’ampiezza della forbice dei minimi contrattuali applicati dai vari Ccnl, a parità di ore lavorative e di mansione;
– la stipulazione dei contratti da parte di Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.L’applicazione del Ccnl, firmato da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative, di per sé dovrebbe essere sufficiente per considerare il minimo contrattuale individuato pienamente conforme ai dettami dell’art. 36 Cost., ma il lavoratore-ricorrente ha rilevato come il trattamento salariale, a parità di ore lavorate e di mansione, tra il Ccnl applicato e gli altri risultasse nettamente inferiore (oltre il 30%) e che il valore netto, individuato dall’Istat, risultasse al di sotto del tasso-soglia di povertà assoluta, venendo così a contrastare con il valore costituzionale sia di proporzionalità che di sufficienza, concetti questi – afferma il giudice – autonomi e ben distinti dalla volontà delle parti sociali che si esprime nella contrattazione collettiva. Non si può quindi escludere a priori che «il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di ogni crisma di rappresentatività possa risultare in concreto lesivo del principio di proporzionalità … e/o di sufficienza».
Il giudice, in conclusione, ha stabilito l’inadeguatezza della retribuzione corrisposta al lavoratore rispetto al parametro costituzionale e ha determinato la condanna al risarcimento.
Il legislatore è comunque intervenuto direttamente sul trattamento retributivo minimo per alcune categorie di lavoratori:
- o rinviando direttamente alla contrattazione collettiva:
- socio lavoratore: viene applicato «un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo» (art. 3, c. 1, L. n. 142/2001) e in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria si applicano «i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria» (art. 7, c. 4, D.L. n. 248/2007, conv., con modificazioni, dalla L. n. 28 febbraio 2008, n. 31/2008);
- lavoratore distaccato: «Le disposizioni … di contratto collettivo in materia … di trattamento retributivo minimo, … non si applicano nel caso di lavori di assemblaggio iniziale o di prima installazione di un bene …» (art. 4, c. 2, L. n. 136/2016);
- collaboratore coordinato etero-organizzato (co.co.org.): si applica «la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro» (art. 2, c. 1, L. n. 81/2015; Cass. n. 1663/2020);
- rider: «1. I contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale possono definire criteri di determinazione del compenso complessivo che tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del committente. 2. In difetto della stipula dei contratti di cui al comma 1, i lavoratori di cui all’articolo 47-bis non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.» (art. 47-bis, L. n. 81/2015 introdotto dall’art. 1, c. 1, lett. c), D.L. n. 101/2019 conv., con modificazioni, dalla L. n. 128/2019; Cass. n. 1663/2020);
- lavoratore agile: ha diritto ad un trattamento economico – derivante dai contratti collettivi nazionali, territoriali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dai contratti aziendali stipulati dalle RSA o dalla RSU – «non inferiore a quello complessivamente applicato nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda» (art. 20, c. 1, L. n. 81/2017);
- lavoratore dell’impresa sociale: ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di cui all’art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015 (art. 13, c. 1, D.Lgs. n. 112/2017);
- giornalisti con rapporto di lavoro non subordinato: in attuazione dell’art. 36, c. 1, Cost., la L. n. 233/2012 ha definito l’equo compenso dei giornalisti iscritti all’albo, non titolari di rapporto di lavoro subordinato, come la «corresponsione di una remunerazione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, tenendo conto della natura, del contenuto e delle caratteristiche della prestazione nonché della coerenza con i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria in favore dei giornalisti titolari di un rapporto di lavoro subordinato». Il salario minimo viene determinato da un’apposita Commissione (art. 1 e art. 2, c. 3, lett. a, L. n. 233/2012);
- apprendistato: possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto a quello spettante in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro (art. 42, c. 5, lett. b, D.Lgs. n. 81/2015);
- lavoro negli appalti pubblici: «è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quelli il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente.» (art. 30, c. 4, D.Lgs. n. 50/2016);
- lavoro dei detenuti: la remunerazione dei detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria è stabilita, in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, in misura pari ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi (art. 22 L. n. 354/1975 come sostituito dall’art. 2, c. 1, lett. f, D.Lgs. n. 124/2018; Corte cost. n. 1087/1988);
- lavoro a progetto: nell’ultima novellazione introdotta dall’art. 63 del D.Lgs. n. 276/2003, prima dell’abrogazione (D.Lgs. 81/2015, art 52), veniva disposto che il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto doveva essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e che non poteva essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
In assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non poteva essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza fosse analogo a quello del collaboratore a progetto.
Il Ministero del lavoro aveva poi puntualizzato che il riferimento normativo alle “retribuzioni minime”, era da intendersi ai minimi tabellari determinati dai contratti collettivi di categoria e non a tutto il complesso delle voci retributive eventualmente previste da tali contratti (Lett.-circ. Ministero del lavoro n. 7258/2013).
- o determinando una retribuzione minima:
- lavoro somministrato: per i periodi in cui il lavoratore non presta la propria attività presso le imprese utilizzatrici percepisce un’indennità di disponibilità, prevista dal Ccnl applicabile al somministratore, pari a 800 euro mensili, al lordo delle ritenute di legge e comprensiva del Tfr (art. 34, c. 1, D.Lgs. n. 81/2015; art. 32, c. 1, Ccnl 15 ottobre 2019);
- lavoro occasionale (contratto di prestazione occasionale e libretto di lavoro): il compenso non può essere inferiore a 9 euro per ogni ora di lavoro (art. 54-bis, c. 16, D.L. n. 50/2017 conv., con modificazioni, dalla L. n. 96/2017).
Precedentemente, prima della sua abrogazione, il lavoro accessorio veniva compensato con un buono orario (voucher) del valore nominale di 10 euro.
Minimo costituzionale
Il giudice di merito nell’individuare la retribuzione da conferire al lavoratore, il c.d. “minimo costituzionale”, deve prendere a riferimento il contratto collettivo applicabile e considerare la c.d. “retribuzione parametro”: paga base, contingenza e tredicesima mensilità (c.d. terzo elemento). (Ex multis: Cass. n. 3362/1992, n. 3749/2000, n. 10465/2000, n. 2144/2004, n. 17250/2004; n. 20765/2005, n. 19467/2007, n. 15148/2008, n. 26589/2008, n. 17399/2011).
Restano esclusi gli altri elementi della retribuzione (c.d. istituti indiretti) che però una parte minoritaria della giurisprudenza ammette quando la valutazione «sia dimostrata essenziale e imprescindibile per rendere la retribuzione adeguata e giusta ai sensi della norma costituzionale»: la quattordicesima mensilità (Cass. n. 2144/2004, 15148/2008), i compensi aggiuntivi, le indennità accessorie (ex multis: Cass. n. 13093/1999, Cass., n. 10029/1994), le maggiorazioni per lavoro straordinario (Cass. n. 5934/2004), gli scatti di anzianità (Cass. n. 7379/1996, n. 11293/2000, n. 18584/2008), le ferie, i permessi.
Salario minimo legale
Nel 2019 Ursula von der Leyen, presidente della Commissione UE, dichiarava che si sarebbe battuta «per l’introduzione di un salario minimo in ogni Paese della UE», come auspicato nel “Pilastro europeo dei diritti sociali”, approvato a Goteborg il 17 novembre 2017, dove si afferma che devono essere garantite «retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali».
Naturalmente non è possibile fissare una retribuzione minima universale per tutti gli Stati dell’UE vista l’enorme divergenza tra le economie dei vari Paesi, tant’è che nel gennaio 2020 le retribuzioni minime negli Stati membri dell’UE variavano da un minimo di 312 euro (Bulgaria) a un massimo di 2.142 euro mensili (Lussemburgo).
Attualmente nell’Unione Europea solo 6 Stati su 22 sono privi di misure legali a salvaguardia del minimo salariale (minimum wage) e tra questi rientra Italia.
L’Italia si è affidata alla giurisprudenza e alla contrattazione collettiva, come auspicato dalla Convenzione OIL n. 117/1962, che all’art. 10 incoraggiava la «fissazione di salari minimi mediante contratti collettivi liberamente negoziati tra i sindacati rappresentativi dei lavoratori interessati e le organizzazioni dei datori di lavoro o dei datori di lavoro».
Per arginare il dumping salariale, il working poor, l’enorme produzione di contratti collettivi (attualmente quasi 900) e la competizione salariale al ribasso, attuata soprattutto dai c.d. “contratti pirata”, la politica ha riconsiderato l’introduzione anche in Italia del salario minimo legale ovvero di un parametro al di sotto del quale (paga oraria o mensile) non si possa scendere, pur mantenendo inalterata la libertà di azione delle Parti sociali.
D’altronde il fatto che nel tempo sia stato attribuito alla contrattazione collettiva il ruolo di fonte regolatrice nell’attuazione della garanzia costituzionale «non impedisce al legislatore di intervenire a fissare in modo inderogabile la retribuzione sufficiente, attraverso, ad esempio, la previsione del salario minimo legale, suggerito dall’OIL come politica per garantire una “giusta retribuzione”» o «attraverso il rinvio alla contrattazione collettiva» (Cass. n. 4951/2019).
La Legge-delega n. 183/2014 (art. 1, c. 7) aveva previsto, nell’ambito del c.d. “Jobs act”, l’emanazione di un decreto che contemplasse, per le categorie di lavoratori esclusi dalla copertura di contratti collettivi, l’introduzione, eventualmente anche in “via sperimentale”, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti di lavoro subordinato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, fino al loro superamento.
Nei decreti attuativi la questione del compenso orario minimo è stata accantonata e successivamente sono state invece presentate una serie di proposte per l’istituzione del salario minimo:
- Disegno di legge n. 658/2018: il trattamento retributivo, proporzionato alla qualità e quantità di lavoro prestato, per il lavoro subordinato e i rapporti di collaborazione etero-organizzata, non può essere inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali (retribuzione proporzionata e sufficiente), per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulati dalle Organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative, e comunque non può essere inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali, con un incremento annuale stabilito sulla base dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’U.E. al netto della dinamica dei prezzi dei valori energetici importati. In presenza di più contratti collettivi applicabili il salario minimo non può essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e in ogni caso non inferiore a 9 euro all’ora. Qualora manchi un contratto collettivo applicabile cui fare riferimento, il trattamento economico complessivo è quello previsto dal contratto collettivo territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente, e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali. Qualora, per scadenza o disdetta, manchi un contratto collettivo applicabile cui fare riferimento il trattamento economico complessivo di riferimento è quello previsto dal previgente contratto collettivo fino al suo rinnovo e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali;
- Disegno di legge n. 1132/2019: il trattamento minimo tabellare stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato dalle associazioni di rappresentanza si applica a tutti i lavoratori del settore, ovunque impiegati nel territorio nazionale. Per le attività non coperte dai ccnl stipulati dalle associazioni di rappresentanza è previsto, per i lavoratori a cui si applica la disciplina del lavoro subordinato, un salario minimo di garanzia determinato da un’apposita Commissione;
- Disegno di legge n. 310/2018: è prevista, per tutti i rapporti aventi per oggetto una prestazione lavorativa, una retribuzione minima oraria pari a 9 euro, al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, incrementata ogni anno secondo i parametri dell’ISTAT;
- Proposta di legge n. 947/2018: è prevista l’istituzione sperimentale di un salario minimo orario pari a 9 euro, al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, nei settori non regolati da contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché per i lavoratori ai quali il datore di lavoro non applica il contratto collettivo di lavoro di riferimento.