Scheda sintetica
I crediti aventi ad oggetto una somma di denaro maturano interessi, a far tempo dal momento in cui gli stessi sono divenuti liquidi (quindi certi nel loro ammontare, o comunque determinabili in forza di una semplice operazione matematica) ed esigibili.
Attualmente, gli interessi legali sono del 2.5%; erano del 5% dal gennaio 1996 al gennaio 1999, e nel periodo compreso tra l’1/1/91 e il 31/12/95, ammontavano addirittura al 10%.
Se alla sua scadenza il debito non viene pagato, cominciano a decorrere gli interessi nella misura legale.
Tuttavia, sulle retribuzioni il lavoratore matura non solo il diritto agli interessi.
Infatti, gli interessi rappresentano solamente la remunerazione che il debitore deve al creditore, una volta che il debito sia scaduto, per la disponibilità del denaro altrui.
Tuttavia, il ritardato pagamento produce anche danni derivanti dalla svalutazione monetaria.
Il legislatore ha preso in considerazione questi danni, disponendone il risarcimento nel caso dei crediti da lavoro.
Conseguentemente, alla scadenza del debito retributivo non corrisposto, il lavoratore comincia a maturare, oltre agli interessi, anche la rivalutazione monetaria, calcolata sulla base dell’indice dei prezzi elaborato dall’Istat per la scala mobile per i lavoratori dell’industria.
Se il pagamento avviene in ritardo e senza la corresponsione degli interessi e della rivalutazione, il minor pagamento effettuato deve essere imputato – salvo patto contrario – innanzi tutto agli interessi e solo nella parte residua al capitale.
Pertanto, il pagamento parziale lascia insoddisfatta una quota di capitale che continuerà a produrre interessi, nonché rivalutazione monetaria, fino al saldo.
Gli interessi devono essere calcolati sulla somma di denaro rivalutata: infatti, il credito rivalutato rappresenta il valore reale (cioè il potere d’acquisto) del debito originario, al di là del suo valore nominale; pertanto, su questa base devono essere quantificati gli interessi.
Infine, è ovvio che il calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi debba essere effettuato sull’ammontare lordo del debito.
Infatti, il datore di lavoro è debitore, verso il lavoratore, di una somma lorda; il fatto che su tale somma debbano essere pagate le imposte rappresenta un debito del lavoratore verso il fisco, che non riduce l’ammontare del debito del datore di lavoro.
Il fatto che il datore di lavoro, in quanto sostituto d’imposta, provveda direttamente a versare al fisco il debito tributario del lavoratore non sposta i termini della questione, perchè il datore di lavoro, pagando il lavoratore e il fisco, estingue comunque il suo debito complessivo nei confronti del primo.
Per quanto attiene gli aspetti legati alla cumulabilità di interessi e rivalutazione dei crediti di lavoro, è importante considerare come una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (n. 12523 del 12 dicembre 1998) sembra aver chiarito in modo definitivo la questione da tempo dibattuta nell’ambito del diritto del lavoro.
In base a quanto stabilito dall’art. 429 del codice di procedura civile, quando un giudice riconosce il diritto di un lavoratore al pagamento di importi relativi a crediti maturati nell’ambito di un rapporto di lavoro, deve altresì riconoscere al lavoratore il diritto al pagamento degli interessi maturati, nonché quello alla rivalutazione del credito.
Ciò significa, in buona sostanza, che il lavoratore ha diritto di ricevere un importo che abbia un valore (ovvero un potere di acquisto) non inferiore rispetto a quello che detto importo aveva quando il credito è maturato, nonché gli interessi legali.
Grazie a tale norma, il lavoratore che, magari solo a distanza di anni, riusciva a recuperare gli importi a lui dovuti, riceveva un capitale che non aveva perso, con il tempo, il suo valore e, in aggiunta, gli interessi nel frattempo maturati, che costituivano una sorte di risarcimento per aver dovuto attendere del tempo prima di entrare in possesso di quanto gli spettava.
Un regime analogo vigeva anche con riferimento ai crediti previdenziali (quali, per esempio, i crediti pensionistici), e ciò sino a quando, nel 1991, è stata emanata una norma (L. 412/91) in forza della quale la perdita di valore del credito doveva ritenersi, in sostanza, già compensata dal riconoscimento degli interessi, con conseguente venir meno della possibilità di cumulare interessi e rivalutazione.
Nel dicembre del 1994 è stata emanata una nuova disposizione di legge (art. 22 L. 724/94) che, apparentemente, sanciva il divieto del cumulo tra interessi e rivalutazione anche per i crediti di lavoro. Poiché, però, tale norma era inserita nell’ambito di provvedimenti che riguardavano il pubblico impiego, la stessa era stata, inizialmente, interpretata come riferita ai soli dipendenti pubblici.
Disattendendo tale interpretazione, la Cassazione, con la sentenza in precedenza indicata, ha invece affermato che la norma che ha stabilito il divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione anche per i crediti di lavoro, non può essere intesa come riferita ai soli dipendenti pubblici, poiché altrimenti si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che vieta ogni discriminazione tra i cittadini.
Pertanto, secondo la Cassazione, per i crediti di lavoro maturati successivamente al gennaio 1995 non è più possibile rivendicare la rivalutazione, se non per la parte eventualmente eccedente gli interessi legali; peraltro, considerato che l’attuale tasso di inflazione è piuttosto contenuto, è difficile che tale ipotesi si possa verificare.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di rivalutazione e interessi
- Il principio contenuto nell’art. 429, terzo comma, c.p.c. in tema di rivalutazione monetaria dei cerditi di lavoro trova applicazione anche nel caso di crediti liquidati, ai sensi dell’art. 18, L. 20 maggio 1970, n. 300 a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, i quali, sebbene non siano sinallagmaticamente collegati con una prestazione lavorativa, rappresentano pur sempre l’utilità economica che da questa il lavoratore avrebbe tratto ove la relativa esecuzione non gli fosse stata impedita dall’ingiustificato recesso della controparte. (Cass. 23/1/2003, n. 1000, Pres. Dell’Anno, Rel. Dell’Anno, in Lav. nella giur. 2003, 577)
- A seguito della sentenza n. 459/2000 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost., dell’art. 22, comma trentaseiesimo, L. 23 dicembre 1994, n. 724, nella parte in cui ha esteso ai crediti di lavoro dei dipendenti dei datori di lavoro privati la medesima regola della non cumulabilità tra rivalutazione ed interessi già prevista per i crediti previdenziali, gli interessi relativi ai crediti di lavoro dei dipendenti da datori di lavoro privati, maturati in epoca sia precedente che successiva all’entrata in vigore delle leggi n. 412/1991 e n. 794/1994 devono essere calcolati sul capitale rivalutato, con scadenza periodica dal momento dell’inadempimento fino a quello del soddisfacimento del creditore, atteso che, da un lato, la rivalutazione ex art. 429 c.p.c., mediante il meccanismo della indicizzazione del credito, tende ad annullare, al pari del “maggior danno” ex art. 1224 c.c., la perdita patrimoniale del creditore soddisfatto tardivamente (danno emergente), mentre gli interessi liquidano in misura fofettaria e senza bisogno di prova il mancato guadagno della liquidità (lucro cessante), e che, dall’altro, per il perseguimento di tale duplice finalità non è necessario né è previsto da alcuna norma, calcolare gli interessi su un credito superiore a quello che via via matura per effetto della svalutazione monetaria. Né il calcolo degli interessi sul capitale comunque rivalutato porta ad un eccesso di tutela del creditore, nel senso che tale calcolo verrebbe ad imporre al debitore un aggravio aggiuntivo-rispetto all’obbligo risarcitorio-incompatibile con la funzione meramente riequilibratrice degli interessi legali (cosiddetto principio di indifferenza), posto che il legislatore, nella formulazione della disposizione di cui al terzo comma dell’art. 429 c.p.c., ha proprio voluto aggiungere ad una ragione risarcitoria una concorrente ragione compulsiva di pena privata, ossia lo scopo di dissuadere il datore di lavoro dalla mora debendi e dalla speranza di investire la somma dovuta e non ancora pagata al lavoratore in impieghi più lucrosi della perdita dipendente dal risarcimento del danno da mora. (Cass. 2/10/2002, n. 14143, Pres. Ravagnani, Rel. Lamorgese, in Lav. nella giur. 2003, 180)
- Comune va considerata la connotazione dei crediti di lavoro e previdenziali – i primi derivanti in via diretta dall’art. 36 Cost., i secondi ad esso ricollegabili, in via mediata ex art. 38 Cost. – costituita dalla loro destinazione al soddisfacimento dei bisogni primari della vita, di talché le stesse esigenze che ispirano la regola dell’art. 429 c.p.c. per i crediti di lavoro (cioè adeguare, in dipendenza della ratio dell’art. 36 Cost., la retribuzione al valore reale della moneta e su tale adeguamento corrispondere gli interessi), valgono per il credito previdenziale (o assistenziale). Meglio si può dire che tali esigenze sono più immediate per il trattamento previdenziale che, di regola, è sensibilmente inferiore al trattamento retributivo ed è conseguito da chi è ormai privo di capacità produttiva di reddito e quindi di possibilità di procurarselo aliunde. Il legislatore della l. n. 533/73, prima, e la Corte Cost., poi (n. 156/91 e n. 196/93), hanno stabilito che non è sufficiente ex art. 36 Cost. quella retribuzione o quel trattamento previdenziale od assistenziale che sia corrisposto in ritardo, senza la rivalutazione delle somme e gli interessi calcolati sulla somma rivalutata. Da ultimo con la l. n. 724/94 – e anteriormente con la l. n. 412/91, cui la prima fa riferimento – il legislatore introduce il divieto di cumulo fra interessi e rivalutazione monetaria (considerato incostituzionale per il solo settore privato: cfr. Corte Cost. n. 459/00) e la Corte Cost. (n. 361/96 e n. 459/00), mentre lo legittima evidenzia come le ragioni del divieto in questione risiedano tutte nelle esigenze (contingenti) di tutela della finanza pubblica e che, per la Corte Cost., non dovrebbe essere tanto la natura giuridica del credito a contare quanto la qualità soggettiva del debitore. Ci si deve chiedere – ad avviso di questo giudice – se l’operazione di “franchigia” in favore degli enti pubblici sia costituzionalmente corretta o se il legislatore prima di sacrificare redditi di mera sopravvivenza (pensioni) non sia onerato a dimostrare che si tratti di una vera e propria extrema ratio, poiché la finanza pubblica non è altrimenti tutelabile. E’ sotto gli occhi di tutti come la linea di tendenza attuale del legislatore (alcune volte con l’avallo del Giudice delle leggi) è quella di richiedere sacrifici sempre con maggior frequenza ed incisività proprio a quei soggetti per i quali la Costituzione appronta strumenti finalizzati a garantire la sopravvivenza, in linea con le istanze liberistiche che sempre di più mirano ad emarginare dalla vita pubblica e civile chi non sia in grado di produrre efficienza, ancorché la abbia prodotta, prima di invecchiare, per moltissimi anni. Istanze che trascurano ogni profilo di umanità, confinando l’individuo a mero meccanismo di un incalzante (e mortificante) processo produttivo ed immolandolo sull’altare di queste pressanti esigenze di risanamento della finanza pubblica che, sembra, non possano trovare soluzioni alternative a quella di elidere o contenere redditi di sopravvivenza. Le norme fondamentali della nostra Carta Costituzionale – dotate di valenza di “impegno prioritario” – che affermano il principio di solidarietà sociale, di eguaglianza sostanziale, di tutela della retribuzione sufficiente, di tutela dei soggetti totalmente o parzialmente privi di capacità lavorativa (come altri, quali la tutela della salute, la tutela della manifestazione della personalità in sede associativa, le garanzie dettate a protezione dei diritti personali assoluti) non possono – come oggi costantemente si fa – parametrarsi e subordinarsi ad esigenze di cassa, sia pure di cassa pubblica, quantomeno qualora l’ordinamento possa procurarsi aliunde (tramite ad esempio la lotta all’evasione fiscale) quanto necessiti per il risanamento dei bilanci. Ne consegue che la regola che esprime il divieto di liquidare anche la rivalutazione monetaria nei crediti previdenziali od assistenziali (e, qui solo accademicamente, nei crediti del pubblico dipendente) è in contrasto con gli art. 2, 3, 24, 36 e 38 Cost., sia in ragione della violazione del sistema protezionistico relativo alla retribuzione (e, conseguentemente, alla pensione) sufficiente, sia in quanto sorretta da esigenze di contenimento della spesa pubblica in un contesto ordinamentale di radicata tolleranza nei confronti di chi sottrae deliberatamente alla collettività ingentissime risorse, da sole sufficienti a consentire la piena realizzazione dei principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale previsti dalla parte prima della nostra Costituzione. (Trib. Pisa 17/10/01, ordinanza, pres. e est. Nisticò, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag 1580, con nota di Dalmasso, Ancora una eccezione di incostituzionalità in tema di cumulo di interessi e rivalutazione delle prestazioni previdenziali)
- Gli interessi legali sui crediti di lavoro tardivamente soddisfatti vanno calcolati sulla somma capitale rivalutata di anno in anno (Cass. 4/7/2001, n. 9036, pres. De Musis, est. D’Agostino, in Lavoro giur. 2001, pag. 1152, con nota di Pizzoferrato, La Suprema Corte aderisce al termine annuale di rivalutazione del capitale ai fini del conteggio degli interessi legali)
- L’art. 429 c.p.c. nel far decorrere gli interessi e la rivalutazione monetaria dalla maturazione del diritto di credito del lavoratore si riferisce alla esigibilità del credito – che si verifica quando non vi siano ostacoli alla sua riscossione -che può sussistere anche nel caso in cui il credito stesso non sia ancora liquido non essendo il relativo “quantum” determinato o determinabile sulla base di calcoli i cui dati siano già esistenti. Ne consegue che la parziale illiquidità del credito, al momento della cessazione del rapporto di lavoro (momento dal quale il credito relativo al trattamento di fine rapporto diventa esigibile, per disposizione inderogabile dell’art. 2120 c.c.), non preclude la decorrenza degli interessi e della rivalutazione. (Cass. 12/3/01, n. 3563, pres. Trezza, est. Balletti, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 435)
- In caso di tradivo adempimento dei crediti di lavoro subordinato, gli interessi legali devono essere calcolati sul capitale rivalutato con scadenza periodica dal momento dell’inadempimento fino a quello di soddisfacimentso del credito. (Cass. S.U. 29/1/01, n. 38, pres. Vela, est. Roselli, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 443, con nota di Ludovico, Modalità di calcolo degli interessi legali sui crediti di lavoro: le Sezioni Unite adottano il criterio del cumulo “disgiunto”)
- Con riferimento ai crediti previdenziali e di lavoro maturati in epoca precedente all’entrata in vigore della l. n. 412/91 e n. 724/94, che introdussero per tali crediti il divieto di cumulo fra interessi e rivalutazione (divieto venuto meno, peraltro, per i crediti di lavoro dei dipendenti privati, per effetto della sentenza della Corte Cost. n. 459/00, che ha dichiarato illegittimo l’art. 22, comma 36, l. n. 724/94 limitatamente all’estensione del divieto ai dipendenti privati in attività di servizio e in quiescenza), gli interessi legali devono essere calcolati sul capitale rivalutato, con scadenza periodica dal momento dell’inadempimento fino a quello del soddisfacimento del creditore, atteso che, da un lato, la rivalutazione ex art. 429 c.p.c., mediante il meccanismo dell’indicizzazione del credito, tende ad annullare, al pari del “maggior danno” ex art. 1224 c.c., la perdita patrimoniale del creditore soddisfatto tardivamente (danno emergente), mentre gli interessi liquidano in misura forfettaria e senza bisogno di prova il mancato vantaggio della liquidità (lucro cessante), e che, dall’altro, per il perseguimento di tale duplice finalità non è necessario, né è previsto da alcuna norma, calcolare gli interessi su un credito superiore a quello che via via matura per effetto della svalutazione monetaria. Né il calcolo degli interessi sul capitale comunque rivalutato porta ad un eccesso di tutela del creditore, nel senso che tale calcolo verrebbe ad imporre al debitore un aggravio aggiuntivo – rispetto all’obbligo risarcitorio – incompatibile con la funzione meramente riequilibratice degli interessi legali (cosiddetto principio di indifferenza), posto che il legislatore, nella formulazione della disposizione di cui al terzo comma dell’art. 429 c.p.c., ha proprio voluto aggiungere ad un ragione risarcitoria una concorrente ragione compulsiva di pena privata, ossia lo scopo di dissuadere il datore di lavoro dalla mora debendi e dalla speranza di investire la somma dovuta e non ancora pagata al lavoratore in impieghi più lucrosi della perdita dipendente dal risarcimento del danno da mora (Cass. S.U. 29/1/01, n. 38, pres. Vela, est. Roselli, in Lavoro giur. 2001, pag. 333, con nota di Pizzoferrato, Gli interessi legali sui crediti di lavoro: le Sezioni Unite scelgono la “via intermedia”; in Foro it. 2001, I, 845, con nota di Pardolesi; in Argomenti dir. lav. 2001, pag. 339; in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 345; in Orient. giur. lav. 2001, pag. 191)
- È costituzionalmente illegittimo, e va pertanto dichiarato incostituzionale per evidente contrasto con l’art. 36 Cost., l’art.22, comma 36, L. 23/12/94, n. 724, nella parte in cui poneva la regola della non cumulabilità di rivalutazione ed interessi per i crediti di lavoro e che in buona sostanza riconosceva al lavoratore la maggior somma tra l’ammontare degli interessi e quello della rivalutazione monetaria (nella specie, la dichiarazione di incostituzionalità è stata limitata ai crediti di lavoro derivanti da rapporti di diritto privato – rispetto ai quali esclusivamente rileva la questione sollevata – per cui non sono state ritenute valide le ragioni di contenimento della spesa pubblica) (Corte Cost. 2/11/00, n. 459, pres Mirabelli, rel. Marini, in Lavoro giur. 2000, pag. 1131, con nota di Miscione, Cumulo di rivalutazione e interessi per i crediti di lavoro privato, in Foro it. 2001, I, 35, con nota di Pardolesi; in D&L 2000, 881; in Lavoro e prev. oggi 2000, pag. 2262; in Argomenti dir. lav. 2001, pag. 348; in Riv. Giur. Lav. 2001, pag.41)
- L’art. 22, comma 36, l. n. 724/94 non trova applicazione in relazione ai crediti dei dipendenti da datori di lavoro privati. È pertanto legittimo il cumulo tra rivalutazione monetaria e interessi di legge (Trib. Firenze 5/7/00, pres. Franco, est. D’Amico, in Lavoro giur. 2001, pag. 163, con nota di Damiani, Prova del rapporto di volontariato e nesso tra contratto di lavoro e rapporto previdenziale)
- L’art. 22, 36° comma, L. 23/12/94 n. 724, sia per la sua collocazione sistematica, sia per la terminologia usata, sia per l’espresso richiamo ai crediti di natura pensionistica e assistenziale, già da tempo soggetti, per i dipendenti privati, al divieto di cumulo, deve ritenersi applicabile ai soli dipendenti (pubblici o privati) della pubblica amministrazione, con la conseguenza che sui crediti di lavoro dei dipendenti privati continua a maturare la rivalutazione monetaria prevista dall’art. 429, 3° comma, c.p.c., che non può ritenersi implicitamente abrogato dalla precisata normativa (Trib. Milano 23 dicembre 1999, est. Mascarello, in D&L 2000, 442)
- In base al dettato dell’art. 22, 36° comma, L. 23/12/94 n. 724 l’importo dovuto a titolo di interessi per crediti di lavoro va portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a titolo di maggior danno per la diminuzione del valore del credito (Pret. Nola, sez. Pomigliano d’Arco, 25/2/99, est. Perrino, in D&L 1999, 607, n. Pavone)
- Mentre in forza dell’art. 429 c.p.c. i crediti di lavoro avevano natura di crediti indicizzati, nel senso che la rivalutazione monetaria partecipava della medesima natura della sorte capitale, e gli interessi legali costituivano diritto autonomo, di natura risarcitoria, a calcolarsi separatamente sul capitale rivalutato, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 22, 36° comma, L. 23/12/94 n. 724, che ha esteso la disciplina di cui all’art. 16, 6° comma, L. 30/12/91 n. 412 a tutti i crediti di natura retributiva pensionistica e assistenziale dei dipendenti pubblici e privati, in attività di servizio o in quiescenza, maturati successivamente al 31/12/94, è da ritenersi che l’art. 429 c.p.c. sia stato abrogato, nella parte in cui regola gli effetti del ritardo nell’adempimento dei crediti di lavoro, e sostituito con una nuova disciplina che, sebbene presenti ancora tratti di specialità (come la liquidabilità d’ufficio) è tuttavia omogenea rispetto alla generale disciplina della responsabilità contrattuale da inadempimento, dettata dall’art. 1224 c.c. (Cass. 18/1/99 n. 440, pres. Buccarelli, est. Dell’Anno, in D&L 1999, 629, n. Tagliagambe, La clandestina abrogazione dell’art. 429 c. 3 cpc. Nuovi dubbi e profili di incostituzionaità)
- In ipotesi di ritardato pagamento delle quote integrative della pensione, previste dalla L. 11/3/88 n. 67, interessi e rivalutazione spettano a partire dal 121° giorno successivo alla data di maturazione del diritto, valendo per il riconoscimento delle integrazioni medesime la domanda amministrativa inizialmente proposta (Pret. Milano 3/6/98, est. Gerli, in D&L 1998, 1022, nota Tagliagambe, Applicabilità dell’art. 429 cpc ai crediti previdenziali)
- Il ritardato pagamento di un credito previdenziale, anche se originato da una dichiarazione di illegittimità costituzionale, o, come nel caso di specie, da una legge di interpretazione autentica (L. 11/3/88 n. 67), comporta la rivalutazione ex art. 429 c.p.c., dovuta, per i crediti sorti prima della entrata in vigore dell’art. 16, 6° comma, L. 30/12/91 n. 412, a prescindere dalla imputabilità soggettiva del ritardato pagamento (Pret. Milano 3/6/98, est. Gerli, in D&L 1998, 1022, nota Tagliagambe, Applicabilità dell’art. 429 cpc ai crediti previdenziali)
- In ipotesi di fallimento di datore di lavoro privato, il credito verso il Fondo di garanzia, avente a oggetto la liquidazione del Tfr maturato, costituisce credito di lavoro, e non credito previdenziale, sul quale maturano cumulativamente, ai sensi dell’art. 429 c.p.c., sia gli interessi legali, sia la rivalutazione monetaria, indipendentemente dalle previsioni dell’art. 22, 36° comma, L. 23/12/94 n. 724, da ritenersi applicabile ai soli dipendenti (pubblici o privati) di enti pubblici non economici (Pret. Milano 20/3/97, est. Ianniello, in D&L 1997, 625)
- Sui crediti di lavoro maturati dai dipendenti privati, anche successivamente al 31/12/94, competono sia gli interessi legali, sia la rivalutazione monetaria, ex art. 429 c. 3 cpc, dovendosi ritenere che l’art. 22 c. 36 L. 724/94 si applichi ai soli dipendenti pubblici, e non anche ai dipendenti privati (Pret. Parma 27/5/96, est. Ferraù, in D&L 1996, 1007)
- Decorsi 120 giorni dalla maturazione di n credito di natura previdenziale, si verifica, ai sensi dell’art. 7 L. 11/8/73 n. 533, la costituzione in mora automatica dell’ente previdenziale, che legittima il creditore a percepire, su quanto dovutogli, interessi legali e rivalutazione monetaria (Pret. Milano 23/9/94, est. Salmeri, in D&L 1995, 241)
- La rivalutazione del credito di lavoro è compresa ex lege nell’oggetto della domanda giudiziale, per cui non deve formare oggetto di pretesa specifica (Cass. 27/6/94 n. 6172, pres. De Rosa, est. Picone, in D&L 1995, 429)