Questa voce è stata curata da Michele Di Lecce
Scheda sintetica
È indiscutibile che la tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro non risulta in concreto ancora oggi effettiva e diffusa, ma ciò non dipende certo dal quadro legislativo di riferimento che, sul piano della normativa prevenzionale, è oggi costituito sostanzialmente dal D.Lgs. 81/2008 – nel cui Titolo I sono indicati i principi generali sempre applicabili – e dalle altre normative complementari più specifiche relative ad alcune particolari attività.
L’inosservanza degli obblighi previsti in tali leggi per i datori di lavoro, i dirigenti, i preposti e gli altri soggetti di volta in volta tenuti ad adempiere è in larga misura sanzionata in sede penale ed a volte in sede amministrativa.
A tale complesso di norme vanno naturalmente aggiunte le ipotesi di reato previste dal Codice Penale per “chiunque omette di collocare, rimuove o danneggia impianti, apparecchi, segnali destinati a prevenire infortuni sul lavoro” (art. 437); e per chiunque per colpa tenga uno dei sopra detti comportamenti (art. 451); oltre naturalmente alle specifiche fattispecie delittuose previste dagli artt. 589 e 590 dello stesso codice per tutti coloro che cagionano per colpa, con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, rispettivamente la morte o lesioni personali di un lavoratore.
Nel Codice Civile del 1942 (quello ancora in vigore) venne poi inserita la fondamentale norma di cui all’art. 2087 per la quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo le particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori d’opera” ; norma che sta alla base del dovere di sicurezza posto, allora come oggi, in capo al datore di lavoro.
Non può non ricordarsi anche che, in via più generale a seguito dell’approvazione della Carta Costituzionale, la salute è diventata un diritto fondamentale dell’individuo (cioè di tutte le persone senza alcuna distinzione) ed un interesse della collettività, per cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Infine, in sede civile esistono varie forme di indennizzo e risarcimento per i danni subiti dai lavoratori a seguito di infortunio sul lavoro o malattia da lavoro, a partire da quelle previste dalla ampia normativa sulla assicurazione obbligatoria da parte dell’INAIL.
L’evoluzione della legislazione prevenzionale
Può forse essere sufficiente, almeno al fine di indicare soltanto alcuni dei più significativi interventi normativi in questo ambito, ricordare che già con una legge del 1898 si garantì ai lavoratori infortunati una qualche forma di indennizzo, sia pure al fine di tutelare gli imprenditori dalle conseguenze di carattere economico che potevano derivare dal verificarsi di infortuni sul lavoro.
Negli anni successivi vennero emanati soprattutto dei regolamenti relativi a settori specifici che raggiunsero in qualche misura il principale obiettivo di rafforzare od estendere forme di assicurazione obbligatorie.
Solo a partire dagli anni 1955/56 vengono promulgati diversi D.P.R. ( tra i quali il 547/55 per la prevenzione degli infortuni in generale, il 303/56 per l’igiene del lavoro, il 164/56 per il settore delle costruzioni) al fine di giungere ad una più ampia disciplina di natura prevenzionale, e non più risarcitoria, che naturalmente faceva riferimento alle conoscenze tecniche e di organizzazione del lavoro, oltre che alla situazione sociale, proprie di quegli anni.
Questa normativa specifica di riferimento rimase sostanzialmente invariata fino agli anni ottanta. In tale periodo vennero anche approvate due leggi che meritano qui di essere segnalate: lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale del dicembre 1978. Lo Statuto in particolare con la previsione di cui all’art. 9, segnava l’inizio di una nuova impostazione legislativa ispirata a criteri di maggiore coinvolgimento dei soggetti da proteggere e dei loro rappresentanti nelle attività di controllo sulla effettiva e puntuale applicazione delle norme prevenzionali e di promozione della ricerca, elaborazione e realizzazione di nuove misure idonee a meglio tutelare la integrità psico-fisica dei lavoratori. La legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, tra l’altro, prevedeva la emanazione di un testo unico in materia di sicurezza sul lavoro ed un ampio decentramento sul territorio dei servizi di vigilanza trasferiti, in linea di massima, dagli ispettorati del lavoro alle unità sanitarie locali.
A partire dagli anni ottanta inizia una nuova stagione, quella di una silenziosa rivoluzione dovuta al recepimento nel nostro ordinamento di una serie di specifiche direttive comunitarie (si pensi solo ai D.P.R. n.524/82 in materia di segnaletica di sicurezza, n.962/82 per la protezione degli esposti al cloruro di vinile, n.216/88 per PCB e PCT) emanate per promuovere la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro al fine di ridurre al minimo gli infortuni e le malattie professionali che, secondo i Paesi membri, colpivano in misura ancora troppo elevata i lavoratori. Tutte queste direttive, pur prevedendo sempre e comunque solo delle prescrizioni minime comuni per ridurre le differenze di protezione ancora esistenti nei diversi Stati, senza quindi alcun pregiudizio delle eventuali norme maggiormente protettive dei beni tutelati già in vigore nei singoli Paesi, vennero recepite nel nostro ordinamento in modo sostanzialmente acritico e senza alcun coordinamento con la legislazione già esistente, creando in tal modo non pochi problemi interpretativi e di coordinamento.
Una decisiva svolta è segnata però solo dalla approvazione del D.Lgs. 626/94 (integrato, corretto e parzialmente modificato dal D.Lgs. 242/96) che, nel suo titolo I, delinea un vero e proprio nuovo modello prevenzionale, vale a dire un quadro d’assieme delle previsioni di carattere generale destinato a valere come riferimento necessario rispetto non solo alla disciplina dettata in altri titoli dello stesso testo per singoli rischi o pericoli (quali : luoghi di lavoro, uso delle attrezzature e dei dispositivi di protezione individuale, movimentazione manuale dei carichi, videoterminali, agenti cancerogeni e biologici), ma anche a quella prevista da normative prevenzionali di settore già vigenti e non ancora abrogate.
Il legislatore, dando in tal modo attuazione alla c.d. direttiva quadro, introdusse nel nostro ordinamento un sistema prevenzionale certamente innovativo non tanto per la quantità o qualità degli obblighi in esso previsti, quanto per quella che venne allora indicata come la proceduralizzazione delle attività di prevenzione e protezione divenute, in tale quadro, continue e sistematiche, cioè frutto di vere e proprie scelte di politica aziendale.
Restavano però ancora vigenti molte previsioni normative nate in epoca anteriore ed in parte di fatto superate dalla nuova prospettiva che imponeva, tra l’altro, ai datori di lavoro di effettuare una serie di comunicazioni, variamente denominate, agli organi di controllo ed individuava un nuovo ruolo, di certo più attivo e partecipativo, per i lavoratori.
Il Decreto Legislativo 81/2008
Occorre attendere fino all’aprile del 2008 per avere quella ulteriore e più sistematica revisione ed integrazione di gran parte della normativa prevenzionale che oggi è appunto contenuta nel D. Lgs. n.81/08 (per altro già a sua volta corretto ed ampliato con i D. Lgs. n.106/09, n.19/14, n.81/15, n.151/15, n.159/16, nonché, incidentalmente, anche dalle leggi n.98 e 99 del 2013) che, sia pure in modo atecnico, è usualmente indicato ora come il testo unico delle norme sulla sicurezza ed igiene del lavoro.
Ciò perché esso, abrogando una buona parte dei testi normativi specifici all’epoca ancora vigenti, ha in qualche modo unificato la maggior parte delle norme prevenzionali, anche se alcune attività – come quelle per le aziende a rischio di incidenti rilevanti, previste dalla c.d. Direttiva Seveso, ora giunta già alla terza revisione con il D.Lgs. n.105/15 – ed alcuni settori (come ad esempio quelli delle radiazioni ionizzanti e dei lavori in ambito portuale e marittimo) sono ancora disciplinati da specifiche previsioni normative.
Il D.Lgs. 81/08 in particolare si articola in 14 Titoli ed una cinquantina di allegati (ai quali vanno aggiunti numerosi Decreti Ministeriali di attuazione, per altro ancora in larga misura non emanati, oltre ai provvedimenti adottati dalla Conferenza Stato-Regioni), riprendendo sostanzialmente nella sua formulazione una tecnica normativa di derivazione comunitaria (per altro va rilevato che ormai tutti gli interventi legislativi in questa materia sono attuativi in vario modo proprio di scelte normative intervenute in sede comunitaria).
Il Titolo I (principi comuni), il Titolo XII (disposizioni in materia penale e di procedura penale) ed il Titolo XIII (norme transitorie e finali) sono quelli che contengono previsioni di carattere generale dalle quali non si può comunque prescindere nell’applicare sia le normative proprie di alcuni settori produttivi, sia quelle riportate negli altri titoli dello stesso D.Lgs., che sono, nell’ordine del testo, relative ai luoghi di lavoro, all’uso delle attrezzature e dei dispositivi di protezione individuale, ai cantieri temporanei e mobili, alla segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro, alla movimentazione manuale dei carichi, alle attrezzature munite di videoterminali, agli agenti fisici – rumore, vibrazioni, campi elettromagnetici, radiazioni ottiche artificiali -, alle sostanze pericolose – agenti cancerogeni e mutageni, amianto-, agli agenti biologici, alla protezione delle ferite da taglio e da punta nel settore ospedaliero e sanitario, alla protezione da atmosfere esplosive.
Principi generali
Tra le indicazioni di carattere generale, vale a dire quelle di cui al Titolo I del D.Lgs. 81/08, vanno segnalate almeno alcune di quelle che maggiormente caratterizzano la attuale normativa prevenzionale e cioè, seguendo l’ordine degli articoli:
- l’elencazione delle definizioni di soggetti, funzioni e attività che si riferiscono all’intera normativa prevenzionale, anche se in ognuno dei capi successivi si trovano ulteriori specificazione in proposito relative però al solo capo nel quale sono collocate;
- l’ambito di applicazione di questa normativa, che si estende a tutti i settori di attività privati e pubblici, sia pure con qualche limitazione in alcuni specifici casi;
- le disposizioni per il contrasto del lavoro irregolare in relazione alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori occupati irregolarmente;
- le misure generali di tutela, la delegabilità di alcune funzioni da parte del datore di lavoro e gli obblighi dei diversi soggetti (dal datore di lavoro al medico competente);
- la valutazione dei rischi, attività non delegabile dal datore di lavoro, che costituisce uno strumento operativo indispensabile per adeguare costantemente le strutture produttive ai parametri di sicurezza imposti dalle normative prevenzionali, trattandosi di una attività conoscitiva rivolta ad individuare, catalogare e classificare le situazioni potenzialmente nocive esistenti in un determinato luogo di lavoro con una misurazione comparata di tutti i rischi individuati, compresi quelli da stress e quelli connessi allo stato di gravidanza, alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi, alle modalità di prestazione dell’attività lavorativa; la necessità di valutare anche il rischio da interferenza nei lavori in appalto che prevedono la presenza nello stesso luogo di più imprese;
- il servizio di prevenzione e protezione, il cui responsabile deve essere nominato dal datore di lavoro, che può essere in concreto articolato in modo diverso (interno o esterno, con uno o più appartenenti, svolto dallo stesso datore di lavoro), ma ha compiti comunque analiticamente indicati dal legislatore;
- la formazione, l’informazione e l’addestramento, che rappresentano oggi un pilastro fondamentale di questa normativa, tanto da dover essere quasi personalizzate e comunque svolte in modo sistematico;
- la sorveglianza sanitaria, che deve essere svolta, ma solo nei casi previsti dalla legge, da un medico competente attraverso una serie di atti medici (non solo visite personali) ed è, tra l’altro, finalizzata anche ad una valutazione di idoneità o non (totale, parziale, temporanea, con limitazioni) del singolo lavoratore ad una specifica mansione e mai al lavoro in generale;
- la gestione delle emergenze anche con indicazioni specifiche in tema di primo soccorso e prevenzione incendi;
- la consultazione e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori alle attività preventive le cui attribuzioni e prerogative sono puntualmente specificate;
- le sanzioni, sia di natura penale che amministrativa, previste per ogni singolo soggetto obbligato ma solo per le inosservanze delle norme contenute in questo titolo (ognuno degli altri specifici titoli successivi si chiude con l’indicazione delle sanzioni previste per la violazione delle norme in ciascuno di essi previste).
Le previsioni legislative contenute nel Titolo XII del D.Lgs. 81/08, relativo come si è detto alle disposizioni in materia penale e di procedura penale riferite all’intera normativa prevenzionale, riguardano la riaffermazione del principio di specialità nel caso di un fatto previsto da più norme incriminatrici; l’affermazione della punibilità in tale ambito anche dei soggetti che di fatto esercitano i poteri del datore di lavoro, del dirigente e del preposto; la estensione delle modalità di estinzione delle contravvenzioni e degli illeciti amministrativi previsti da queste norme a seguito di regolarizzazione.
A ciò si aggiunge la modifica dell’art. 25 septies del D.Lgs. 231/2001 relativo alla responsabilità amministrativa dell’ente per i reati colposi di omicidio e lesioni personali (gravi o gravissime) commessi appunto con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro da determinati soggetti rappresentativi in qualche modo dell’ente e nell’interesse di quest’ultimo o comunque a suo vantaggio.
Infine il Titolo XIII del D. Lgs. 81/08, contenente norme transitorie e finali, riporta un corposo elenco di provvedimenti normativi abrogati espressamente, anche se alcune parti specifiche di essi sono state sostanzialmente ed almeno in parte inserite in qualcuno dei tanti allegati al Decreto Legislativo in questione.
Il legislatore poi, in via più generale, nell’articolare le diverse previsioni, ha effettuato una chiara scelta nel senso di ritenere superata la visione tecnologica della prevenzione, che sembrava caratterizzare la preesistente normativa speciale, richiedendo in via principale al datore di lavoro, ma non soltanto a lui, comportamenti diversificati che si sostanziano in misure non più quasi esclusivamente tecniche, ma anche organizzative e procedurali, coordinate e collegate tra loro, oltre che adeguatamente programmate.
Non più quindi singole ed occasionali attività prevenzionali di natura tecnica alle quali in passato, nel migliore dei casi, se ne aggiungevano soltanto altre di diversa natura, finendo così con l’incidere molto marginalmente, e comunque solo in via secondaria, sulle scelte di volta in volta adottate.
Oggi, in altri termini, è richiesta dal complesso della normativa prevenzionale una gestione a tutti i livelli unitaria delle tante e diverse problematiche inevitabilmente presenti in ogni realtà produttiva di beni o di servizi.
Soggetti obbligati
Ai soggetti che ricoprono le tradizionali posizioni di garanzia del datore di lavoro, del dirigente e del preposto, individuate in qualche modo dal legislatore fin dagli anni ’55-56, se ne sono oggi aggiunti molti altri che risultano comunque obbligati, sia pure in misura minore o per aspetti e ruoli specifici, al rispetto della normativa prevenzionale.
In linea di massima vi è rispetto al passato una più precisa attribuzione degli obblighi ed una accentuata scansione, anche temporale, degli adempimenti e questo contribuisce a far sì che tutti i soggetti, ai diversi livelli gerarchici ed a vario titolo coinvolti nel processo decisionale, debbano attivamente operare tenendo costantemente presente anche le ricadute sul piano prevenzionale delle loro scelte.
In particolare il datore di lavoro, vale a dire il soggetto obbligato in via principale e primaria al rispetto di tutta la normativa prevenzionale, è definito ora dal legislatore come il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o comunque il soggetto che ha la responsabilità dell’impresa ovvero della unità produttiva (intendendosi per tale lo stabilimento o struttura finalizzata alla produzione di beni o all’erogazione di servizi, dotata di autonomia finanziaria e tecnico funzionale) in quanto esercita poteri decisionali e di spesa. Tale formulazione, relativa per altro al solo datore di lavoro operante nel settore privato, rappresenta il punto di arrivo di una travagliata elaborazione che, prendendo le mosse da una più drastica individuazione del datore di lavoro unicamente nel rappresentante legale della persona giuridica, si è andata via via modificando nelle successive normative fino a giungere all’odierno dettato. E’ sembrato così al legislatore di poter meglio garantire, facendo proprio per di più un consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’effettivo adempimento, da parte di soggetti non difficilmente individuabili, degli obblighi posti in capo al datore di lavoro in presenza di ogni possibile tipo di organizzazione dell’impresa.
Il datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni va invece individuato nel dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero nel funzionario non avente qualifica dirigenziale che sia preposto ad un ufficio ed abbia autonomia gestionale. Tali dirigenti e funzionari vanno naturalmente individuati dagli “organi di direzione politica o comunque di vertice“ delle diverse amministrazioni, tenendo conto della “ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali l’attività viene svolta”, fermo restando che in caso di omessa, o non conforme ai criteri sopra indicati, individuazione il datore di lavoro non potrà che coincidere necessariamente con l’organo di vertice.
I dirigenti sono ora definiti come coloro che, in ragione delle proprie competenze professionali e dei poteri gerarchici e funzionali conferiti loro in relazione all’incarico ricoperto, attuano le direttive del datore di lavoro. Essi rappresentano di certo i primi e più diretti collaboratori del datore di lavoro, tanto che usualmente vengono indicati come il suo alter ego, e perciò sono inseriti necessariamente nei livelli più alti delle gerarchie aziendali con ruoli ed attribuzioni di funzioni che inevitabilmente comportano un loro coinvolgimento anche in decisioni che incidono sulla sicurezza ed igiene del lavoro.
L’individuazione del dirigente a questi fini perciò non necessariamente coincide con quella data nella indicazione contrattuale del rapporto di lavoro; ben potrà aversi infatti quale soggetto obbligato sul piano della prevenzione perché riveste tale posizione un collaboratore del datore di lavoro non inquadrato contrattualmente (o economicamente) nella categoria dei dirigenti d’azienda.
Il preposto, infine, resta colui che sovraintende alla attività cui siano addetti altri lavoratori subordinati, garantendo l’attuazione delle direttive ricevute e controllandone la corretta esecuzione da parte loro. Egli ha perciò funzioni di controllo del lavoro altrui con il potere di impartire ordini ed istruzioni dando concreta attuazione a programmi e procedure lavorative definiti da altri gerarchicamente a lui sovraordinati, i quali devono anche apprestare le necessarie attrezzature e protezioni. Il preposto, quindi, non adotta le misure di prevenzione, ma verifica che esse vengano seguite, esercitando un funzionale potere di iniziativa. Specie in strutture di rilevante dimensione e complessità può non essere facile definire con esattezza i confini tra il ruolo del preposto ad un vasto settore e quello del dirigente, ma ogni valutazione in concreto non potrà che fondarsi sulla professionalità dei soggetti, sugli effettivi compiti svolti, sulla organizzazione della azienda e sulle prassi in essa seguite.
Del tutto peculiare poi è sempre stata la posizione del lavoratore che è certamente ed innanzitutto il soggetto da tutelare, ma che ha anche una assai limitata responsabilizzazione in relazione ad alcuni specifici obblighi prevenzionali.
La definizione che il legislatore dà di questa figura non serve quindi tanto ad una sua individuazione, quanto piuttosto a delimitare (unitamente a quella dei soggetti ad essa equiparati a questi fini) il campo di applicazione della normativa prevenzionale che, per altro, se applicabile finisce con il proteggere tutti coloro che comunque legittimamente, anche se occasionalmente e non per ragioni di lavoro, si trovano nei luoghi adibiti ad attività lavorativa.
Il medico competente è una figura entrata nel nostro ordinamento con l’affermarsi del nuovo modello prevenzionale, che però viene adesso compiutamente definita acquistando una particolare rilevanza nel quadro della globalizzazione dell’intervento prevenzionale.
Già il D. Lgs. 626/94 dava una definizione di questo soggetto in parte diversa e comunque più precisa di quelle contenute in precedenti normative (a partire dal R.D. 530/27 per giungere fino al D. Lgs. 277/91).
Ora il D. Lgs. 81/08, riprendendo la stessa, precisa che questo medico deve essere in possesso di determinati titoli e requisiti professionali e formativi e deve collaborare con il datore di lavoro nella effettuazione della valutazione dei rischi, oltre che svolgere naturalmente la sorveglianza sanitaria ogni volta che essa è prevista dalla legislazione in materia di sicurezza ed igiene del lavoro (con l’unica eccezione costituita dalla previsione, nel D.Lgs. 230/95 in materia di radiazioni ionizzanti, di un medico autorizzato avente un suo particolare profilo professionale).
Molteplici sono le funzioni del medico competente, che non è certo un semplice consulente del datore di lavoro, visto che è prevista una specifica sanzione penale per la inosservanza da parte sua di alcuni almeno degli obblighi posti a suo carico analiticamente indicati dal legislatore.
Il sanitario che, nominato dal datore di lavoro, svolge tale ruolo deve necessariamente conoscere i rischi presenti nei luoghi di lavoro interessati e deve avere un rapporto continuo ed intenso con i lavoratori sottoposti a sorveglianza sanitaria nel cui ambito effettua tra l’altro gli accertamenti preventivi, volti a constatare la eventuale presenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori sono destinati, e quelli periodici per valutare lo stato di salute degli stessi e la loro idoneità alla mansione specifica, con la conseguente valutazione anche della eventuale inidoneità (totale, parziale, temporanea) e della necessità di un allontanamento (definitivo o temporaneo) dalla esposizione ad uno o più rischi.
Il medico competente, quindi, pur essendo legato all’impresa da un rapporto di natura privata (quale dipendente della stessa, o dipendente da una struttura esterna pubblica o privata convenzionata con essa, o libero professionista) svolge in un tale contesto una funzione con valenza sicuramente pubblicistica che impone la assoluta imparzialità nello svolgimento della attività prestata.
La normativa prevenzionale annovera poi tra i soggetti obbligati anche altre figure estranee al rapporto di lavoro che, in ragione della loro specifica attività, hanno un ruolo di certo meno ampio, ma non per questo meno significativo.
Innanzitutto vi sono i progettisti dei luoghi (o posti) di lavoro e degli impianti che hanno l’obbligo di rispettare i principi generali indicati nelle norme prevenzionali fin dal momento delle scelte progettuali e tecniche riferite anche alle macchine ed ai dispositivi di protezione; gli installatori e montatori (di macchine, impianti o altri mezzi tecnici) poi devono attenersi, naturalmente nello svolgimento del loro specifico lavoro, alle norme sulla sicurezza ed igiene del lavoro, oltre che alle istruzioni fornite obbligatoriamente di volta in volta dai fabbricanti; per i fabbricanti e fornitori a qualunque titolo (vendita, noleggio, concessione in uso) di attrezzature di lavoro, di dispositivi di protezione e di impianti vi è naturalmente il divieto di produrre e mettere comunque in circolazione tali beni se non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
Infine occorre ricordare che nel novero degli attori della prevenzione, così come delineato nella normativa vigente, vi sono altre due figure, vale a dire il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ed il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, alle quali sono attribuiti determinati compiti, anche se per esse non sono previste specifiche responsabilità di natura penale o amministrativa.
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) deve essere necessariamente designato dal datore di lavoro, che non può delegare tale attività, e deve possedere precisi requisiti professionali e capacità adeguati alla natura dei rischi presenti, essendo chiamato a coadiuvare il datore di lavoro nell’assolvimento dei suoi doveri in questo campo.
Il servizio, la cui creazione è obbligatoria in ogni azienda od unità produttiva, può essere perciò strutturato dal datore di lavoro a suo piacimento, tanto che egli può anche decidere, sia pure assoggettandosi a determinati adempimenti non solo formali, di svolgere direttamente i compiti dello stesso, e può essere formato da persone interne od esterne all’azienda (salvo le ipotesi dettagliatamente indicate nelle quali deve essere creato necessariamente all’interno delle stesse).
Sarà, con ogni evidenza, interesse del soggetto obbligato, cioè del datore di lavoro, avere un servizio formato da un numero adeguato di soggetti professionalmente qualificati per poter contare su una effettiva e valida attività di consulenza in grado di orientare al meglio le sue decisioni.
I compiti del servizio, infatti, possono sostanzialmente ricondursi alla individuazione e valutazione dei fattori di rischio, alla individuazione ed elaborazione (anche su sollecitazione e con l’ausilio dei diretti interessati) delle misure preventive e protettive da adottare, alla elaborazione di procedure di sicurezza, alla individuazione di misure necessarie per far fronte a emergenze, alla formulazione di programmi di informazione e formazione per i lavoratori, alla informazione degli stessi ed alla partecipazione alle riunioni periodiche.
Di qui la mancata previsione per il responsabile del servizio, che è evidentemente tale in termini organizzativi e che non ha in quanto tale poteri decisionali, di una qualsivoglia responsabilità per la inosservanza della normativa prevenzionale.
Questo non significa naturalmente che il responsabile del servizio goda di una assoluta impunità. Da un lato egli potrà sempre essere chiamato a rispondere, magari insieme ad altri, ai sensi degli artt. 589 e 590 c.p., dei comportamenti in concreto tenuti quando questi siano causalmente collegati al verificarsi di un infortunio o di una tecnopatia, dall’altro egli potrà andare incontro ad una responsabilità di natura civile o disciplinare, a seconda che si tratti di un soggetto esterno alla azienda avente con essa un rapporto di tipo professionale o di un dipendente della stessa.
Un ruolo centrale, di garanzia e non negoziale, ai fini della realizzazione dell’attuale modello prevenzionale partecipato ha la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RSP-RLS) che dovrà essere eletto o designato direttamente dai lavoratori nell’ambito delle rappresentanze sindacali aziendali eventualmente già esistenti.
Per la individuazione dei compiti, delle modalità operative e della tutela di questa figura si rimanda alla specifica voce.
Aspetti sanzionatori
Per illustrare a grandi linee il sistema sanzionatorio previsto dalla normativa prevenzionale, che si articola in numerosi reati contravvenzionali ed un certo numero di illeciti amministrativi, è bene partire dalla scontata constatazione che la stessa nel nostro Paese è sempre stata fondamentalmente giurisdizionalizzata.
Poco importa rilevare che forse in un corretto dispiegamento dei diversi interventi pubblici dovrebbero o potrebbero avere un peso maggiore le forme di autotutela e gli interventi degli organi amministrativi, visto che l’azione giudiziaria penale in questo settore, sia pure con inevitabili limiti, sembra ancora avere un alto tasso di incisività specie in ragione di un significativo mutamento della stessa funzione giurisdizionale che a finalità di prevenzione indiretta, attuata attraverso forme più immediatamente repressive, è andata progressivamente sostituendo forme di prevenzione diretta perseguita attraverso nuovi strumenti processuali tra i quali in particolare la generalizzata procedura di estinzione delle contravvenzioni prevenzionali di cui al D.Lgs. 758 del 1994.
Con questo provvedimento infatti il legislatore, nel dare attuazione alla parte più importante della delega ricevuta per ridisegnare quasi tutto il diritto penale del lavoro, provvide a decriminalizzare molti tra i tanti illeciti minori allora ancora presenti nel nostro ordinamento ed a dare appunto un nuovo assetto all’intero sistema sanzionatorio in materia di sicurezza ed igiene del lavoro.
La procedura estintiva in questione applicabile a tutte le contravvenzioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, o con la sola ammenda, si concretizza attraverso alcune fasi (sostanzialmente : accertamento, contestazione, comunicazione di notizia di reato, prescrizione da parte dell’organo di vigilanza, verifica della ottemperanza a quanto prescritto, pagamento di somma ridotta in sede amministrativa) che possono portare ad una graduale diminuzione della risposta punitiva, che giunge fino al punto massimo della rinuncia a far valere la medesima da parte dell’ordinamento, in relazione al grado, alle modalità ed alla tempestività della eliminazione da parte dei soggetti obbligati delle situazioni di pericolo derivanti dalle constatate violazioni delle regole cautelari.
Molto ancora si discute in dottrina sulla natura di quello che è stato da alcuni definito come un sofisticato procedimento estintivo a struttura complessa, o a formazione progressiva, nel quale l’estinzione del reato contravvenzionale è subordinata al verificarsi di due condizioni : il puntuale adempimento delle prescrizioni impartite dall’organo di vigilanza ed il pagamento di una certa somma in via amministrativa. Diverse sono le opzioni avanzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza per l’inquadramento dommatico di questa procedura e cioè che si tratti di una condizione di procedibilità speciale, che si tratti di una condizione obiettiva di punibilità, che si tratti di una causa estintiva del reato, o da ultimo che si tratti di una ipotesi di non punibilità sopravvenuta.
Quale che sia la classificazione ritenuta preferibile, resta fermo che la Corte Costituzionale ha ormai ripetutamente (12.2.1998 n. 19 e 16.12.1998 n. 416) e sotto diversi profili rigettato le eccezioni di incostituzionalità della normativa in questione.
La Corte di Cassazione inoltre ha anche avuto modo di affermare la possibile coesistenza tra la procedura estintiva in questione ed il sequestro preventivo, attese le diverse finalità dei due istituti (il primo volto ad una sollecita rimozione delle situazioni antigiuridiche, il secondo volto ad impedire l’aggravamento od il protrarsi delle conseguenze del reato contravvenzionale accertato) e l’autonomia dei due procedimenti incidentali.
L’esperienza giudiziaria, poi, ha confermato che questo meccanismo estintivo si è rivelato di larghissimo impiego ed assolutamente funzionale, consentendo di raggiungere completamente le finalità che il legislatore voleva perseguire, e cioè a un lato accentuare gli effetti prevenzionali della normativa penale speciale in esame e dall’altro giungere ad una deflazione del carico di lavoro degli uffici giudiziari mantenendo comunque il controllo di legalità da parte della autorità giudiziaria in un così delicato, complesso e rilevante settore.
Tutto ciò ha indotto il legislatore a prevedere un meccanismo estintivo sostanzialmente analogo anche per i reati contravvenzionali più gravi per i quali vi è la sola pena dell’arresto che può essere sostituita da una pena pecuniaria, determinata secondo i più generali parametri di conversione, sempre che siano state eliminate le fonti di rischio e le conseguenze dannose del reato e la accertata violazione non abbia avuto un contributo causale nel verificarsi di un infortunio sul lavoro dal quale siano derivate lesioni gravi o la morte di un lavoratore.
Per altro oggi anche per le violazioni della normativa prevenzionale sanzionate solo in via amministrativa è prevista, sempre che vi sia stata la eliminazione della riscontrata irregolarità, la estinzione dell’illecito con il pagamento di una somma pari al minimo di quella ipotizzata come sanzione.
Il codice penale
I delitti previsti dal codice penale in tema di tutela della salute nei luoghi di lavoro sono specificamente quelli di cui agli artt. 437 e 451, inseriti tra i reati contro l’incolumità pubblica, e quelli di cui agli artt. 589 e 590, inseriti tra i reati contro la persona.
I primi puniscono, tra l’altro, coloro che con dolo (art. 437) o per colpa (art. 451) con un comportamento omissivo (non collocare) o commissivo (rimuovere o rendere inservibili) in relazione ad apparecchi, mezzi o segnali contro gli infortuni sul lavoro o destinati a prevenire gli stessi, fanno si che non possano essere prevenuti (art.437) infortuni sul lavoro o non possano limitarsi i loro effetti (art.451) una volta che essi si siano verificati. Entrambe le previsioni sono state quasi completamente ignorate di fatto almeno fino agli anni settanta e tutt’ora non sono molte le decisioni in materia.
Certo, è stato di grande portata per una loro maggiore effettività il contributo che la giurisprudenza, segnatamente di legittimità, ha dato specie sul punto inerente la non necessità che la condotta prevista dal legislatore ponga in pericolo una massa indefinita di persone, essendo sufficiente per la sussistenza del reato di cui all’art. 437 la messa in pericolo di una comunità anche ristretta di lavoratori che siano in numero tale da rendere possibile una diffusività del pericolo, rilevando a tal fine solo la indeterminatezza dei soggetti che possono essere esposti ai rischi. Si tratta comunque di un reato di mera condotta e di pericolo presunto che, nella sua forma omissiva, può essere commesso solo da soggetti gravati da obblighi prevenzionali, mentre nella sua forma commissiva può evidentemente essere commesso, come dice la stessa norma, da chiunque.
È stato pacificamente riconosciuto che il delitto di cui all’art. 437 può concorrere con le contravvenzioni prevenzionali, specie se per queste ultime è in concreto ravvisabile la esistenza della sola colpa; se venissero contestate più contravvenzioni prevenzionali commesse con dolo sarebbe ben possibile configurare solo il delitto, anziché, come pure qualche volta è stato fatto, ritenere la continuazione tra le dette contravvenzioni.
Va anche ricordato che al di là della entità, pure rilevante (specie nella ipotesi aggravata per il verificarsi di un disastro o di un infortunio), della pena edittale risulta particolarmente incisiva la previsione della pena accessoria del divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione (previsto dall’art. 32 quater c.p.) che consegue di diritto alla affermazione di colpevolezza, sempre che il delitto sia commesso in occasione dell’esercizio di una attività imprenditoriale. Ciò attribuisce pure un diverso valore prevenzionale a questa norma che ha soprattutto, se non esclusivamente, un carattere punitivo.
Quanto ai delitti di lesioni personali ed omicidio colposi (artt. 590 e 589) si tratta di reati comuni che però si caratterizzano in maniera del tutto peculiare allorché essi vengano commessi con la violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o abbiano comunque determinato una malattia professionale o lavoro correlata.
In tali ipotesi essi risultano di solito caratterizzati dalla presenza di una colpa specifica in relazione appunto alla inosservanza di una regola cautelare ed anche, secondo il costante orientamento della corte di cassazione, dell’ampio dettato dell’art. 2087 c.c. che, come è noto, impone all’imprenditore di adottare le misure che per la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
In particolare poi per il reato di lesioni personali colpose da infortunio sul lavoro o malattia da lavoro sono previste pene maggiori rispetto al reato comune e la perseguibilità di ufficio per le lesioni gravi e gravissime; mentre per il reato di omicidio colposo commesso con violazione della normativa prevenzionale è previsto non solo un aumento della pena, ma anche un raddoppio dei termini di prescrizione dello stesso. Per entrambi i reati inoltre è previsto che la proroga del termine di sei mesi dato al Pubblico Ministero per esercitare l’azione penale possa essere concessa per non più di una volta.
Infine merita qualche considerazione in questa sede, anche se non si tratta di una previsione contenuta nel codice penale, la affermazione della responsabilità degli enti, società o associazioni anche prive di personalità giuridica (con esclusione dello Stato e degli enti pubblici) derivante dai reati di omicidio colposo o lesioni personali colpose gravi o gravissime commessi proprio con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro da coloro che hanno funzioni di rappresentanza, di amministrazione, di direzione o di gestione dell’ente o da soggetti comunque sottoposti alla loro direzione o vigilanza.
L’ampliamento dell’ambito di applicazione della specifica normativa contenuta nel D. Lgs. 231/2001 era stato già previsto dalla L. 123/2007, con la quale il Parlamento aveva conferito tra l’altro la delega al Governo per emanare il TU sulla sicurezza, ed è stato poi riportato nel D. Lgs. 81/2008.In vero dalla entrata in vigore della norma ad oggi non risultano molti casi di contestazione di questa ipotesi ad opera delle Procure della Repubblica e ciò di certo non solo per la novità della disposizione, ma anche e forse soprattutto, per la difficoltà di sostenere l’accusa tenuto conto della formulazione della stessa. Il legislatore infatti si è limitato ad integrare il testo del D. Lgs. 231 aggiungendo appunto con uno specifico articolo, il 25 septies (le aggiunte alle originarie ipotesi di reato presupposto si sono nel tempo ampliate più volte), le due ipotesi in questione, lasciando per il resto immutato il testo dello stesso D. Lgs., per cui tutta la disciplina dell’istituto è rimasta quella che era, anche se l’allargamento in questione per la prima volta ha inserito nel catalogo dei reati in questione due ipotesi colpose, mentre tutti gli altri già indicati erano tutti reati dolosi. Anche per questo risulta non facilmente spiegabile la non inclusione tra gli stessi del delitto di cui all’art. 437 c.p. (per non dire di quello di omicidio doloso eventualmente ravvisabile in particolari casi di infortuni sul lavoro).
Ciò determina notevoli problemi dal momento che il rappresentante dell’ente deve commettere il reato di base nell’interesse od a vantaggio dell’ente stesso condizione di non difficile accertamento per tutti quelli preesistenti, ma molto problematica con riferimento alle lesioni o all’omicidio colposi da infortunio sul lavoro o malattia professionale. Per superare tale indubbia difficoltà qualche autore ha ipotizzato che l’interesse od il vantaggio non vada riferito agli eventi, ma alla condotta che la persona fisica ha tenuto nello svolgimento della attività svolta per l’ente, per cui il requisito in questione non dovrebbe essere riferito al reato di lesioni personali od omicidio colposi, ma alla violazione della norma cautelare.
Le specifiche sanzioni previste sono naturalmente di tipo pecuniario ed interdittivo, graduate in relazione alle tre specifiche ipotesi (due per le lesioni ed una per l’omicidio), con la possibilità della confisca e della pubblicazione della sentenza. Quelle interdittive, che si aggiungono a quelle derivanti dalla responsabilità penale personale dei singoli soggetti, consistono nel divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione e nell’interdizione dall’esercizio di una attività e sembrano poter avere un grado di effettività piuttosto elevato in considerazione del quadro complessivo nel quale esse sono collocate e quindi della reale possibilità di incidere sulle situazioni aziendali di volta in volta prese in esame.
Ma, proprio sotto questo ultimo profilo, desta ancor maggiore interesse la disciplina del modello di organizzazione e gestione al quale il legislatore riconosce una efficacia esimente della responsabilità amministrativa dell’ente, sempre che esso sia adottato ed efficacemente attuato. Senza esaminare qui il dettagliato elenco dei requisiti formali e sostanziali che tale nodello deve avere in base al dettato dell’art. 30 D. Lgs. 81/08, basterà ricordare che esso, almeno nella prima fase di applicazione della normativa in proposito potrà essere ritenuto idoneo se sarà conforme alle specifiche linee guida nazionali o straniere, mentre in seguito sarà compito della commissione consultiva quello di elaborare apposite procedure standardizzate.
Ciò ovviamente vale per la fase dell’adozione del modello che però dovrà poi essere concretamente attuato non potendo quindi l’ente limitarsi a fare riferimento ad un certo modello senza poi seguire in concreto le procedure necessarie per rendere operativo il modello scelto. Appare certamente difficile e molto opinabile il compito di chi dovrà nella realtà controllare entrambi gli aspetti sopra indicati, giacché gli attuali organi di controllo sono in possesso di adeguate professionalità per verificare gli ambiti più vicini alla normativa prevenzionale, mentre per quelli di tipo più organizzativo occorrerà individuare altri soggetti ed altri mezzi in grado di supportare il giudice, che in definitiva avrà una ampia discrezionalità nella valutazione complessiva, pur dovendosi comunque evitare di giungere ad una sorta di responsabilità oggettiva dell’ente.
La attuale normativa non impone agli enti l’adozione dei modelli di cui sopra; adozione che rappresenta solo un onere per gli stessi, anche se diversi autori hanno già osservato che essi finiranno inevitabilmente con l’avere una funzione ed una valenza più vasta di quella meramente esimente potendo se non altro essere indicati come strumento di reale organizzazione dell’ente stesso anche sotto il profilo meramente prevenzionale il che viene oggi richiesto in misura di gran lunga maggiore di quanto poteva accadere allorché non si parlava ancora di un sistema di prevenzione da gestire adeguatamente e continuativamente in attuazione di una vera e propria politica aziendale della sicurezza. Significativa in tal senso è la previsione secondo la quale si intende assolto l’obbligo di sorveglianza, gravante sul datore di lavoro che ha validamente delegato alcune funzioni, se l’azienda ha appunto adottato ed efficacemente attuato un modello di verifica e controllo.
Su questa prospettiva si apriranno certamente scenari molto interessanti nei quali dovrà, ad esempio, esaminarsi il rapporto e le reciproche ricadute tra i modelli in questione e la valutazione dei rischi (con la conseguente stesura del documento di sicurezza), che naturalmente restano obblighi primari del datore di lavoro.
Rinvio ad altre voci del Dizionario
Molte sono le voci già presenti in Wikilabour che fanno riferimento alla categoria Salute e Sicurezza; in particolare sembra utile indicare qui solo le principali, raggruppandole in ordine alfabetico e in relazione agli argomenti trattati in via prevalente.
Sistema prevenzionale (D.Lgs. 81/08)
- Benessere organizzativo
- Indagini di clima
- Lavoro usurante
- Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
- Stalking occupazionale
- Stress lavoro correlato
- Videosorveglianza
Codice Penale
- Amianto
- Infortunio sul lavoro
- Malattie professionali e diritto penale
- Mesotelioma
- Mobbing
- Tumori amianto e diritto penale
- Tumori nasali da polveri di legno e diritto penale
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di Salute e Sicurezza
- La responsabilità del committente o del sub-committente per i danni derivati al lavoratore nel corso dell’attività lavorativa concessa in sub-appalto, a causa dell’inosservanza delle misure di tutela delle condizioni di lavoro, è configurabile, ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 7, D.Lgs. n. 626 del 1994, a prescindere dalla conoscenza dell’esistenza del sub-appalto, atteso che il citato art. 7 (ora art. 26, D.Lgs. n. 81 del 2008) pone a carico del committente-datore di lavoro, in caso di affidamento dei lavori ad altre imprese, l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, nonché quello di cooperare nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata, nell’ambito dell’intero ciclo produttivo, obblighi rispetto al cui adempimento il dovere di sapere del sub-appalto costituisce una essenziale precondizione. (Cass. 24/6/2020 n. 12465, ord., Pres. Esposito Rel. Riverso, in Lav. nella giur. 2020, 1102)
- In caso di infortunio sul lavoro, al di fuori dei casi di rischio elettivo nei quali la responsabilità datoriale è esclusa, qualora ricorrano comportamenti colposi del lavoratore, trova applicazione l’art. 1227, comma 1, c.c.; tuttavia, la condotta incauta del lavoratore non comporta concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento del danno ogni qualvolta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro risulti aver avuto un’incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell’evento dannoso, il che si verifica, tra l’altro, quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all’adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, l’evento dannoso non si sarebbe verificato, nonostante l’imprudenza del lavoratore. (Cass. 25/11/2019 n. 30679, Pres. Napoletano Rel. Bellè, in Lav. nella giur. 2020, con nota di S. Caffio, Infortuni sul lavoro (anche da Covid-19) e concorso colposo del lavoratore: la chimera dell’applicabilità dell’art. 1227 c.c., 1166)
- Le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori nell’esercizio delle loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi che si trovino nell’ambiente di lavoro, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di dipendenza con il titolare dell’impresa. Ne consegue che, ove in tali luoghi vi siano macchine non munite dei presidi antinfortunistici e si verifichino, perché possa ravvisarsi l’ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l’evento dannoso un legame causale. (Cass. Pen. 26/2/2019, n. 13583, Pres. Montagni Est. Cappello, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di G. Fava e E. Aschedemini, “Sicurezza sul lavoro: tutelato chi è impegnato in attività lavorativa ancorché estraneo all’organizzazione del titolare dell’impresa”, 392)
- Una condotta vessatoria di tipo episodico integra la fattispecie di straining, fonte di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., allorché il lavoratore subisca una modificazione negativa e permanente della propria situazione lavorativa, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (nella specie, la S.C. ha considerato straining un demansionamento disposto con finalità emarginatoria unito ad alcune isolate azioni ostili e di scherno). (Cass. 29/3/2018 n. 7844, Pres. Manna Rel. Piccone, in Riv. it. dir. lav. 2018, con nota di S. Renzi, “Lo straining e la progressiva emersione giurisprudenziale dei suoi connotati”, 564)
- In tema di infortuni sul lavoro, in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali, la sussistenza del nesso causale non può essere esclusa sulla sola base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo, che si limiti a prendere atto della ricorrenza di un elemento causale alternativo di innesco della malattia, dovendosi procedere a una puntuale verifica – da effettuarsi in concreto e in relazione alle peculiarità della singola vicenda – in ordine all’efficienza determinante dell’esposizione dei lavoratori a specifici fattori di rischio n/el contesto lavorativo nella produzione dell’evento fatale. (Cass. 14/3/2017, n. 12175, Pres. Blaiotta Est. Dovere, in Riv. It. Dir. Lav. 2018, con nota di S. Tordini Cagli, “Morti d’amianto: la Cassazione ancora una volta annulla con rinvio le condanne inflitte in primo grado”, 162)
- L’interpretazione che riconduce ontologicamente il rischio di caduta dall’alto al novero dei rischi non specifici, secondo la nozione valevole ai fini dell’applicazione delle norme del Titolo IV, d.lgs. n. 81/2008 non è condivisibile. L’analisi dei rischi individualmente nominati dal punto 2.2.3. dell’Allegato XV, d.lgs. n. 81/2008 mostra che si tratta di rischi che il coordinatore prende in esame per la loro derivazione dalle lavorazioni considerate nella loro interazione con il cantiere; quando uno di questi rischi attiene strettamente alla singola lavorazione va inteso quale rischio specifico. La specificità del rischio non è data dalla maggiore o minore difficoltà di esecuzione della lavorazione ma dalla riconduzione di esso all’attività per la quale si è fatto ricorso alla ditta esecutrice. (Cass. 23/1/2017, n. 3288, Pres. Ciampi Est. Dovere, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di A. Rota, “Sicurezza sul lavoro nei cantieri: la responsabilità del coordinatore in fase di esecuzione e il rischio infrastrutturale”, 579)
- La funzione di alta vigilanza che grava sul coordinatore della sicurezza in fase di esecuzione si svolge esclusivamente sul rischio generico del cantiere, risultante dalle fonti di pericolo dell’ambiente di lavoro, dall’organizzazione delle attività, dalle procedure di lavoro e dalla convergenza di più imprese. Ne consegue che tale soggetto non risponde degli eventi riconducibili al c.d. rischio specifico, proprio dell’attività dell’impresa appaltatrice o del singolo lavoratore autonomo coinvolto nell’esecuzione del contratto. (Cass. 23/1/2017, n. 3288, Pres. Ciampi Est. Dovere, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di A. Rota, “Sicurezza sul lavoro nei cantieri: la responsabilità del coordinatore in fase di esecuzione e il rischio infrastrutturale”, 579)
- Nel caso di lavoratori esposti al rischio rapine, l’osservanza del generico obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro l’adozione delle correlative misure di sicurezza c.d. “innominate”, sicché incombe su quest’ultimo l’onere di far risultare l’adozione di comportamenti specifici che, pur non dettati dalla legge o da altra fonte equiparata, siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe. (Cass. 28/10/2016 n. 21901, Pres. Macioce Rel. Blasutto, in Lav. nella giur. 2017, 197)
- È legittimo il provvedimento con la quale la P.A. ha rigettato una istanza ostensiva, avanzata da un proprio dipendente, tendente a ottenere l’accesso al documento di valutazione dei rischi (DVR), per verificare la effettiva applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute nel luogo di lavoro, che sia motivato con riferimento al fatto che, secondo gli artt. 18 e 50 del D.Lgs. n. 81 del 2008, l’accesso al DVR è consentito unicamente al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS), tramite il quale il lavoratore può, ai sensi dell’art. 18, comma 1, lett. N), D.Lgs. n. 81 del 2008, anche verificare l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute. (TAR Marche, Sez. I, 7/9/2016 n. 506, Pres. Filippi Est. De Mattia, in Lav. nella giur. 2016, con commento di D. de Magistris, 1102)
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di tutela dal rischio contagio da Covid-19
- Se è vero che il Protocollo nazionale auspica solo che i protocolli aziendali siano condivisi e cioè che le parti sociali concordino le misure da adottare e che non v’è, sulla base della normativa vigente, un obbligo per il datore di lavoro di raggiungere un accordo sulle misure di sicurezza con i sindacati, è altrettanto vero che la loro consultazione preventiva è necessaria e non può essere bypassata in ragione di una malintesa responsabilità esclusiva del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c. (Trib. Matera 14/9/2020, decr., Giud. Quartarella, in Lav. nella giur. 2021, con nota di G. Schiraldi, La sicurezza e la salute del lavoratore ai tempi del Covid-19. I profili di natura sindacale, 279)
Le segnalazioni della Newsletter di Wikilabour in tema di salute e sicurezza sul lavoro
- Tutto il mondo è paese: Amazon condannata in via d’urgenza dai giudici francesi al rispetto di più stringenti misure di sicurezza anti contagio.
Anche in Francia, come in Italia, la Giustizia viene chiamata a intervenire d’urgenza per garantire maggiore sicurezza ai lavoratori che continuano a lavorare nonostante la pandemia del Corona Virus (per l’Italia v. le ordinanze urgenti sul caso dei rider emesse dai Tribunali di Firenze e Bologna: Newsletter n. 7 e n. 8/2020 di Wikilabour). Hanno destato scalpore i provvedimenti del Tribunale di Nanterre e della Corte d’appello di Versailles, nell’area parigina, emanati sulla base di ricorsi proposti da un’associazione sindacale contro Amazon, per tutelare la condizione dei lavoratori impiegati nei diversi stabilimenti francesi. Entrambi i provvedimenti, a seguito di approfondita analisi delle misure adottate dalla Società, la condannano a una più attenta e continua valutazione dei rischi (con il coinvolgimento costante dei comitati di rappresentanza dei lavoratori), all’adozione di ulteriori misure preventive e soprattutto, al fine di ridurre il numero di lavoratori impiegati, a limitare l’attività operativa al ricevimento, preparazione e spedizione soltanto di prodotti appartenenti ad alcune categorie. (Trib. Jud. Nanterre 14/4/2020; Cour app. Versailles 24/4/2020, in Wikilabour, Newsletter n. 10/2020) - Anche il Tribunale di Bologna condanna l’impresa titolare della piattaforma di consegna dei cibi ad applicare ai propri rider le misure anti-contagio: ai fattorini si applica la stessa disciplina di tutela della salute dei Lavoratori subordinati.
Dopo il Tribunale di Firenze (v. Newsletter n. 7 del 6.4.2020) anche quello di Bologna accoglie il ricorso d’urgenza di un rider al quale venivano affidate le corse di consegna senza dotarlo di dispositivi di protezione individuale. Ai rider si applica l’intera disciplina di tutela dei lavoratori subordinati in forza dell’art. 2 d.lgs. 81/2015, dunque anche l’obbligo di garantire la sicurezza del lavoro. Questo discende anche dal d.P.C.M. 11.3.2020 che, nel consentire la prosecuzione delle attività di ristorazione con consegna a domicilio, prevede che la stessa, anche a tutela dei clienti, avvenga nel rispetto delle norme igienico-sanitarie, implicitamente onerando l’impresa che svolge tale attività a garantire il rispetto delle prescrizioni anche con riguardo alla condizione degli operatori. Ordinata l’immediata consegna di mascherine, guanti monouso, gel disinfettanti e prodotti per la pulizia dello zaino. (Trib. Bologna 14/4/2020, Giud. Zompi, in Wikilabour, Newsletter n. 8/2020) - Imposte le misure di sicurezza per i rider rispetto al rischio di contagio da Covid-19: l’impresa che gestisce la piattaforma è tenuta a munire il rider di mascherine, guanti monouso, gel disinfettanti e prodotti per la pulizia dei contenitori.
Con un provvedimento d’urgenza concesso immediatamente e senza contraddittorio, il Tribunale di Firenze ha ordinato a una nota impresa di delivery di alimenti e cibi da asporto di disporre misure di sicurezza per i propri rider. Uno di essi era ricorso in giudizio per lamentare che, nonostante avesse fatto richiesta dei dispositivi di protezione dal contagio, la piattaforma si fosse limitata a raccomandarne l’utilizzo. La Giudice, richiamando la nota sentenza della Cassazione n. 1663/2020 (sul caso Foodora), afferma che al rider, anche se lavoratore autonomo, devono applicarsi le stesse tutele del lavoro subordinato, aggiungendo che in ogni caso il rispetto delle misure di sicurezza è imposto alle imprese che utilizzano piattaforme digitali dalle recenti disposizioni inserite al Capo V-bis del d.lgs. 81/2015. Dunque l’impresa di delivery non può limitarsi a un invito all’utilizzo degli strumenti di protezione dal rischio di contagio, ma deve essa stessa metterli a disposizione e imporne l’utilizzo. (Trib. Firenze 1/4/2020, Giud. Gualano, in Wikilabour, Newsletter n. 7/2020)