Questa voce è stata curata da Francesca Ajello
Scheda sintetica
Il lavoro accessorio è stata una particolare tipologia di contratto di lavoro avente a oggetto le attività lavorative di natura meramente occasionale che davano luogo a compensi annui non superiori a una soglia di modesta entità predefinita dal legislatore e caratterizzata da un meccanismo di remunerazione del lavoratore basato sull’uso di voucher.
Introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento nel 2003, la disciplina normativa del lavoro accessorio è stata più volte modificata nel corso degli anni, per poi essere definitivamente abrogata nel 2017, a opera del d.lgs. 25/17. Nello stesso anno, con il d.l. 50/17, il legislatore ha introdotto un nuovo tipo di rapporto lavorativo, il contratto di lavoro occasionale, che, insieme al c.d. Libretto famiglia, è andato di fatto a sostituire il lavoro accessorio nella regolazione delle prestazioni di lavoro saltuario e marginale.
In sostanza, quando si parlava di lavoro accessorio, ci si riferiva a quei rapporti di lavoro che avevano a oggetto tutte quelle attività lavorative che non potevano essere ricondotte a tipologie contrattuali tipiche di lavoro subordinato o di lavoro autonomo, in quanto venivano prestate in via saltuaria e si ponevano in posizione ausiliaria e funzionale rispetto a una attività o situazione principale.
La principale peculiarità del lavoro accessorio era senz’altro rappresentata dal meccanismo di pagamento del corrispettivo, fondato sul sistema dei buoni: il credito dovuto al lavoratore veniva, infatti, cartolarizzato in voucher aventi un valore nominale totale, comprendente, oltre al compenso spettante al lavoratore, anche quote per la gestione separata INPS, per l’assicurazione INAIL e una quota ulteriore a favore dell’INPS per la gestione del servizio.
Il legislatore si è occupato del lavoro occasionale accessorio, per la prima volta, nel 2003, introducendo una serie di norme finalizzate a intervenire, contrastandole, sulle forme di lavoro marginali generalmente caratterizzate da pagamenti in nero.
Il D.Lgs. 276/03, oltre a dettare una prima definizione dell’istituto, ne aveva individuato i confini applicativi, prevedendo che il lavoro accessorio potesse essere svolto solo relativamente a determinati tipi di attività (ad esempio, piccoli lavori domestici a carattere straordinario, collaborazioni per lo svolgimento di lavori di emergenza, realizzazione di manifestazioni, ecc.) e la sua disciplina fosse applicabile solo ad alcune tipologie di lavoratori (ad esempio, casalinghe, studenti, pensionati, disabili, ecc.).
Successivamente alla sua introduzione, l’istituto ha subito numerose modifiche che ne hanno gradualmente ridisegnato i confini, estendendone significativamente i limiti e il campo di applicazione.
Prima della sua abrogazione, la disciplina del lavoro accessorio era contenuta nel decreto legislativo n. 81 del 2015 – uno dei decreti attuativi della legge delega n. 183 del 2014, c.d. Jobs Act –, la cui entrata in vigore, avvenuta il 24 giugno 2015, aveva comportato l’integrale abrogazione della previgente regolamentazione, dettata dagli articoli da 70 a 74 del decreto legislativo n. 276 del 2003.
La riforma del 2015, pur non stravolgendo la fisionomia complessiva dell’istituto, aveva tuttavia introdotto alcune importanti novità, tra cui:
- l’innalzamento da 5.000,00 a 7.000,00 euro del compenso massimo che il prestatore di lavoro accessorio poteva percepire su base annua dalla totalità dei suoi committenti (rimaneva invece fermo a 2.000,00 euro il compenso massimo percepibile da parte di ciascun singolo committente);
- l’introduzione in via definitiva della possibilità di svolgere prestazioni di lavoro accessorio, nel limite di 3.000,00 euro all’anno, da parte di chi percepiva prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito (la disciplina previgente contemplava tale possibilità solo per il biennio 2013-2014);
- l’introduzione del divieto di ricorrere al lavoro accessorio nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi (fatte salve le specifiche ipotesi che saranno individuate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali);
- la previsione dell’ obbligo, per gli imprenditori e i professionisti che ricorrevano a prestazioni di lavoro accessorio, di dare preventiva comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro dei dati del lavoratore e del luogo della prestazione.
Normativa di riferimento
- Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Decreto Legge 28 giugno 2013, n. 76, convertito in Legge 9 agosto 2013, n. 99
- Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante disposizioni in materia di disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in materia di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183
- Decreto Legislativo 17 marzo 2017, n. 25, recante disposizioni urgenti per l’abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonché per la modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in materia di appalti, convertito in Legge 20 aprile 2017, n. 94
A chi rivolgersi
- Ufficio vertenze sindacale
- Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Scheda di approfondimento
Nozione e campo di applicazione
Come anticipato, il lavoro accessorio era stato introdotto con il D.Lgs. 276/2003 con l’esplicito scopo di regolamentare le forme di lavoro marginali generalmente caratterizzate dal pagamento del compenso in nero, al fine di favorire l’emersione di queste forme di lavoro.
La definizione e la disciplina dell’istituto hanno subito, negli anni, numerosi mutamenti, a partire da quelli introdotti con la riforma del 2012, che aveva eliminato i requisiti oggettivi e soggettivi previsti in precedenza, che limitavano il campo di applicazione dell’istituto sia in riferimento al tipo di attività svolta sia in riferimento ai soggetti coinvolti: a seguito di tale modifica, la normativa in esame risultava applicabile a tutti i settori produttivi, a qualunque committente (compresi i committenti pubblici, con l’unico limite dei vincoli di spesa generalmente previsti dalla legge) e a qualunque lavoratore.
Il Pacchetto Lavoro del 2013 aveva poi eliminato, dalla definizione legislativa, il riferimento alla “natura meramente occasionale” delle prestazioni, chiarendo una volta per tutte che l’unico parametro in base al quale verificare la legittimità del ricorso a quest’istituto era rappresentato dal rispetto dei limiti economici stabiliti dalla legge.
A tal proposito, la legge, fino a giugno 2015, prevedeva che il lavoratore, nel corso dell’anno solare, potesse percepire, a titolo di lavoro accessorio, non più di 5000 euro dalla totalità dei committenti, e – nel caso di prestazioni rese nei confronti di committenti imprenditori o professionisti – non più di 2000 euro da ciascun singolo committente.
La riforma del 2015 ha innalzato il limite annuo complessivo a 7000 euro, lasciando invece inalterato il limite di 2000 euro per singolo committente imprenditore o professionista .
Entrambi i limiti erano da intendersi come netti e da rivalutarsi annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati.
Prestazioni di lavoro accessorio potevano essere rese, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, anche da percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito; in tal caso, però, operava il più stringente limite complessivo di 3.000 euro annui di compenso. Questa possibilità, originariamente prevista solo per il biennio 2013/2014, era stata resa definitiva e strutturale dal d.lgs. 81/2015 (art. 48, comma 2).
Una particolare limitazione all’utilizzo di lavoro accessorio era stata introdotta dalla riforma del 2015: l’art. 48, co. 6, del d.lgs. 81/2015 prevedeva infatti il divieto di ricorrere a prestazioni di lavoro accessorio nell’ambito dell’esecuzione di appalti di opere o servizi, fatte salve le specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del decreto.
La riforma del 2015 aveva infine confermato i previgenti limiti relativi al ricorso al lavoro accessorio nell’ambito del settore agricolo; a tal proposito, l’art. 48, co. 3, d.lgs. 81/2015 prevedeva in particolare che, nel settore agricolo:
- in caso di aziende con volume d’affari superiore a 7000 euro annui, il lavoro accessorio era ammesso solo per lo svolgimento di attività agricole di carattere stagionale, e poteva essere svolto solo da pensionati e da giovani con meno di venticinque anni di età se regolarmente iscritti ad un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell’anno se regolarmente iscritti a un ciclo di studi presso l’università;
- in caso di produttori agricoli che nell’anno solare precedente avevano realizzato o, in caso di inizio di attività, prevedevano di realizzare un volume d’affari non superiore a 7.000 euro, costituito per almeno due terzi da cessioni di prodotti agricoli e ittici compresi nella prima parte della tabella A) del d.P.R. 633/1972, il lavoro accessorio era ammesso in qualsiasi tipologia di lavoro agricolo, anche non stagionale, e poteva essere svolto da qualsiasi soggetto, purché non fosse stato iscritto l’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.
Disciplina
Fatta eccezione per il corrispettivo, la legge non prevedeva una disciplina organica dell’istituto.
Conseguentemente, risultava di volta in volta necessario verificare se la concreta modalità di adempimento della prestazione e l’effettivo assetto di interessi sottostante al rapporto risultassero conformi alla nozione di lavoro accessorio fornita dalla legge, in modo da poter valutare se dietro un rapporto di lavoro accessorio non si celassero in realtà altre forme di lavoro o non si entrasse nell’area della subordinazione.
Inoltre, qualche problema poteva sorgere relativamente al controllo della soglia di 7.000 euro annui, sia con riguardo alle modalità di verifica, sia con riguardo alle conseguenze derivanti dal superamento della soglia fissata dalla legge.
Secondo i primi commentatori, tale verifica poteva avvenire attraverso un’autodichiarazione del prestatore di lavoro, che, in caso di uso dell’istituto oltre il limite, avrebbe potuto subire ripercussioni sullo stato di disoccupazione e in riferimento ai trattamenti previdenziali ed assistenziali.
Va poi segnalato che, in base al terzo comma dell’art. 49 del d.lgs. 81/2015, i committenti imprenditori o professionisti che ricorrevano a prestazioni occasionali di lavoro accessorio erano tenuti, prima dell’inizio della prestazione, a comunicare alla direzione territoriale del lavoro competente, con modalità telematiche (ivi compresa la posta elettronica), i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore, e a indicare il luogo della prestazione con riferimento a un arco temporale non superiore ai 30 giorni successivi.
Il d.lgs. 81/2015, in linea con la disciplina previgente, prevedeva infine che i compensi percepiti a titolo di lavoro accessorio erano computati ai fini della determinazione del reddito necessario per il rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno dei lavoratori stranieri.
Modalità di pagamento
Come anticipato, la caratteristica fondamentale del lavoro accessorio risiedeva nel particolare meccanismo di liquidazione del compenso. Esso era infatti fondato su un sistema di buoni che cartolarizzavano il credito dovuto al lavoratore.
In pratica, il beneficiario-committente della prestazione di lavoro acquistava, presso le rivendite autorizzate (ossia, direzioni provinciali INPS o tabaccai) o telematicamente, uno o più carnet di buoni aventi valore predefinito, che, al momento del pagamento, consegnava al lavoratore nella quantità pattuita.
Per percepire effettivamente il proprio compenso, il prestatore di lavoro accessorio presentava i buoni al concessionario individuato tramite decreto del Ministro del lavoro, il quale, oltre che versargli il corrispondente in denaro, si occupava direttamente del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
I buoni avevano un valore nominale fissato dal d.lgs. 81/2015 in 10 euro (nel settore agricolo il valore nominale era invece pari all’importo della retribuzione oraria delle prestazioni di natura subordinata individuata dal contratto collettivo stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale). Detto valore comprendeva:
- il compenso dovuto al lavoratore;
- una quota previdenziale destinata alla gestione separata INPS (13%);
- una quota per l’assicurazione INAIL (7%);
- una quota ulteriore a favore dell’INPS per la gestione del servizio (5%).
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di lavoro accessorio
- Il lavoro accessorio è soggetto unicamente ai limiti quantitativi previsti dalla legge, relativi al reddito del lavoratore. Ne consegue che nessun rilievo, quanto alla disciplina applicabile, può avere il fatto che la prestazione sia resa nelle forme tipiche della subordinazione, che il datore di lavoro impieghi i lavoratori accessori nell’ambito produttivo caratterizzante l’impresa o che il lavoro accessorio sia utilizzato in modo massivo. (Trib. Milano 26/5/2016 n. 429, Est. Berti, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di G. Marchi, “”La quantificazione del lavoro accessorio ‘non più occasionale’”, 95)