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Scheda sintetica
Il licenziamento comminato da un datore di lavoro nei confronti di un singolo lavoratore incorre in particolari conseguenze qualora il provvedimento manchi di una giusta causa o di un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo). In tali casi si parla di illegittimità del licenziamento e e il lavoratore gode delle tutele previste dalla legge.
A seguito dell’entrata in vigore del Decreto legislativo n. 23/2015, l’ordinamento prevede regimi di tutela diversi a seconda che il lavoratore licenziato sia stato assunto prima o dopo il 7 marzo 2015.
In particolare, per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, valgono le seguenti garanzie:
- in caso di licenziamento nullo (perché discriminatorio, oppure perché comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge) o inefficace (perché intimato in forma orale), a tutti i lavoratori, quale che sia il numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, è riconosciuto il diritto a essere reintegrati nel posto di lavoro e a vedersi corrisposta un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (cd. tutela reintegratoria piena);
- al di fuori delle suddette ipotesi, le tutele variano a seconda delle dimensioni del datore di lavoro che ha comminato il licenziamento e del tipo di vizio che rende illegittimo il provvedimento espulsivo; in particolare:
- se il licenziamento viene intimato da un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali previste dall’art. 18 della legge 300/1970 Statuto dei lavoratori (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale), si applicano i regimi di tutela previsti da tale norma, così come modificata dalla riforma del mercato del lavoro del 2012, regimi che, in talune specifiche ipotesi, contemplano la possibilità che il datore di lavoro sia condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro;
- al di sotto di tali soglie, trova invece applicazione il più blando regime di tutela previsto dall’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge 108/1990, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo diritto a percepire un indennizzo economico.
Ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 in avanti si applicano, invece, le tutele previste dal Decreto legislativo n. 23/2015, in tema di “contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, attuativo della legge delega 183 del 2014 (c.d. Jobs Act).
La nuova disciplina non introduce novità per quanto riguarda le tutele applicabili in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale: in tali ipotesi, a tutti i lavoratori, indipendentemente dalle dimensioni del datore di lavoro, è riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltreché il diritto a percepire un’indennità risarcitoria corrispondente alla retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento al giorno di effettiva reintegrazione.
Tali tutele, per espressa indicazione del legislatore, si applicano anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivi relativi alla salute e disabilità fisica o psichica del lavoratore.
Per tutte le altre ipotesi di licenziamento illegittimo, la nuova disciplina continua a prevedere tutele diverse a seconda che il licenziamento riguardi lavoratori assunti presso imprese che superano le soglie numeriche fissate dall’art. 18 della legge 300/1970 ovvero lavoratori assunti presso datori di lavoro che non raggiungono dette soglie.
Recentemente, il d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv. dalla l. 9 agosto 2018, n. 96, ha modificato la disciplina originaria, aumentando l’ammontare delle indennità dovute in caso di licenziamento ingiustificato.
Quanto ai lavoratori assunti dalle imprese che superano la soglia dimensionale di cui si è detto, il decreto legislativo 23/2015 prevede, rispetto alla disciplina previgente, una sostanziale diminuzione delle ipotesi in cui il giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato.
In particolare, il decreto stabilisce che il datore di lavoro può essere obbligato a reintegrare il lavoratore (assunto presso un’impresa di maggiori dimensioni) nei soli casi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
Fuori di questi casi, il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto a percepire esclusivamente un indennizzo economico, la cui misura è calcolata in base alla sua anzianità di servizio.
Per quanto riguarda i lavoratori assunti presso le piccole imprese, la nuova disciplina prevede l’applicazione del medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Il decreto stabilisce peraltro che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti), si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti, e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento ingiusto.
Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
I lavoratori già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, seppur a oggi non interessati dalle novità normative, potranno comunque esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso un diverso datore di lavoro.
I regimi di tutela applicabili in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015
L’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, e l’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della Legge 108/1990, disciplinano le conseguenze del licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del Decreto legislativo n. 23/2015, che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento ingiusto).
Le norme in parola prevedono, in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o inefficace, un unico regime di tutela, applicabile a tutti i lavoratori, quale che sia il numero dei dipendenti assunti presso il datore di lavoro.
Nelle altre ipotesi di licenziamento illegittimo, invece, le tutele variano a seconda delle dimensioni del datore di lavoro.
A. Le tutele applicabili (a tutti i lavoratori) in caso di licenziamento discriminatorio, nullo e inefficace
I primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, così come modificati dalla legge 92/2012, prevedono che, in caso di licenziamento nullo (perché discriminatorio, oppure perché comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge) o inefficace (perché intimato in forma orale), a tutti i lavoratori, quale che sia il numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, è riconosciuto il diritto a essere reintegrati nel posto di lavoro e a vedersi corrisposta un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (cd. tutela reintegratoria piena).
Più in particolare, in queste ipotesi, il giudice, dichiarando nullo o inefficace il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione.
Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle 5 mensilità (non è invece previsto un limite massimo).
Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha comunque la possibilità – entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza – di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
B. Le tutele applicabili ai lavoratori delle imprese di maggiori dimensioni in caso di licenziamento illegittimo
In caso di licenziamento di un lavoratore assunto (prima del 7 marzo 2015) presso un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali fissate dall’art. 18 della legge 300/1970, si applicano le conseguenze sanzionatorie stabilite dallo stesso art. 18, norma che ha subito radicali modifiche per effetto della legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro.
Prima di tale intervento, infatti, era prevista una tutela unica (cd. tutela reale), che comportava la reintegrazione del lavoratore e il risarcimento pieno del danno (con il pagamento delle retribuzioni e della contribuzione dal licenziamento fino all’effettiva reintegrazione e, comunque, nella misura minima di 5 mensilità).
Il nuovo testo dell’art. 18, invece, prevede i seguenti regimi di tutela, che mutano a seconda del vizio riscontrato nel licenziamento.
Quando non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa, il giudice applica la cd. tutela reintegratoria attenuata (reintegrazione nel posto di lavoro e indennizzo commisurato alla retribuzione con il limite di 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione).
La tutela reintegratoria attenuata si applica anche nei casi di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; (ii) licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore; (iii) licenziamento intimato nel periodo di comporto.
Nelle altre ipotesi in cui non ricorrano gli estremi della giusta causa, del giustificato motivo soggettivo e del giustificato motivo oggettivo addotto dal datore di lavoro, il giudice applica la c.d. tutela obbligatoria standard (ossia condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria in una misura compresa fra 12 e 24 mensilità della retribuzione globale di fatto, tenendo conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti, della dimensione dell’attività economica e del comportamento e condizioni delle parti).
Nei casi di licenziamento illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per giustificato motivo oggettivo, infine, il giudice applica la cd. tutela obbligatoria ridotta: condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennità variabile tra 6 e 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, indennità il cui esatto ammontare viene stabilito in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.
C. Le tutele applicabili ai lavoratori delle imprese di minori dimensioni in caso di licenziamento illegittimo
L’art. 8 della legge 604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge 108/1990, disciplina le conseguenze sanzionatorie applicabili in caso di licenziamento illegittimo (di un lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015) comminato da un datore di lavoro che non rientra nelle soglie dimensionali indicate dall’art. 18 della legge 300/1970.
La disposizione in parola prevede in particolare che, in dette ipotesi, a prescindere dal vizio individuato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro a riassumere il dipendente entro il termine di tre giorni, oppure, in mancanza, a versargli un’indennità risarcitoria, la cui misura viene determinata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità (tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e della condizione delle parti).
L’indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a dieci anni, e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore a 20 anni.
I regimi di tutela applicabili in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto dal 7 marzo 2015 in avanti
Il decreto legislativo n. 23/2015, sul c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, attuativo del c.d. Jobs Act (legge n. 183 del 2014), ha introdotto un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato dapprima ad affiancare e quindi a sostituire il sistema di tutele previsto dall’art. 18 della legge 300/1970.
In base alla nuova disciplina, il lavoratore ingiustamente licenziato avrà diritto, nella maggior parte dei casi, a percepire esclusivamente un indennizzo economico; la tutela reintegratoria viene invece limitata a poche e residuali ipotesi.
La nuova disciplina interessa tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015).
I lavoratori già in forza prima di questa data continueranno, invece, a beneficiare dei regimi di tutela previsti dall’art. 18, purché, naturalmente, risultino assunti in strutture che superano le soglie numeriche previste dalla legge (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale). Nell’immediato, dunque, per questi lavoratori non cambia nulla.
Il decreto prevede peraltro che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore di detto decreto, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti) si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti, e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento ingiusto.
Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
I lavoratori già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, seppur a oggi non interessati dalle novità normative, potranno comunque esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso un diverso datore di lavoro.
A. Le tutele applicabili (a tutti i lavoratori) in caso di licenziamento discriminatorio, nullo e inefficace
L’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 disciplina le conseguenze sanzionatorie applicabili a tutti i datori di lavoro (indipendentemente, dunque, dalle loro dimensioni) nelle ipotesi di:
- licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della legge n. 300 del 1970 (art. 2, co. 1);
- licenziamento nullo per espressa previsione di legge (art. 2, co. 1);
- licenziamento inefficace perché intimato in forma orale (art. 2, co. 1, ult. parte);
- licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, co. 4).
In queste quattro ipotesi, il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, al pagamento di un’indennità risarcitoria e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
L’indennità è commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrisponde al periodo intercorrente tra il giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso, l’indennità non può essere inferiore a 5 mensilità.
Fermo restando il diritto a percepire la suddetta indennità, al lavoratore è attribuita la facoltà di sostituire la reintegrazione nel posto di lavoro con un ulteriore indennizzo economico, pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, purché effettui la relativa richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione. L’indennità sostitutiva della reintegrazione non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
B. Le tutele applicabili ai lavoratori delle imprese di maggiori dimensioni in caso di licenziamento illegittimo
Fuori dalle ipotesi previste dall’art. 2, negli altri casi di licenziamento illegittimo il decreto legislativo 23/2015 riconosce al lavoratore tutele diverse a seconda che il licenziamento sia stato intimato da un datore di lavoro che supera le soglie dimensionali fissate dall’art. 18 della legge 300/1970 ovvero da un datore di lavoro che non supera dette soglie.
Per quanto riguarda i licenziamenti comminati dai datori di lavoro di maggiori dimensioni, valgono i seguenti regimi di tutela.
Nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, rispetto al quale sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Il dipendente ha inoltre diritto di percepire un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. A tale indennità va dedotto sia quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative (l’aliunde perceptum) sia le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (secondo i criteri indicati dall’art. 4, co. 1, lett. c), del decreto legislativo n. 181 del 2000). Inoltre, l’indennità non può essere superiore a 12 mensilità (mentre non è prevista un’entità minima, come invece stabilito per le altre ipotesi di licenziamento nullo o inefficace).
In tutti gli altri casi di licenziamento individuale ingiustificato o intimato in violazione delle procedure prescritte dalla legge (ad es. in materia di licenziamento disciplinare), il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 6 e le 36 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale).
Più in particolare, l’art. 3, co. 1, del decreto, dopo l’intervento della Corte Costituzionale nel 2018, stabilisce che, in caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, allorché il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, tra un minimo di 6 mensilità e un massimo di 36 mensilità (la base di calcolo è costituita, anche in questo caso, dall’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto). Il giudice dovrà stabilire l’indennità tenendo conto, oltre che dell’anzianità di servizio, anche del numero di dipendenti occupati, delle dimensioni aziendali, del comportamento e delle condizioni delle parti.
Ai sensi dell’art. 10, il medesimo regime sanzionatorio (indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, comunque ricompresa tra 6 e 36 mensilità) trova applicazione anche nei casi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione della procedura prescritta dalla legge (in particolare, le procedure richiamate all’art. 4, co. 12, legge 223 del 1991) o per violazione dei criteri di scelta (art. 5, co. 1, legge 223 del 1991).
Al lavoratore spetta un mero indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione del requisito della motivazione (art. 2, co. 2, legge 604 del 1966) o per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
In questi casi, tuttavia, l’indennità risulta dimezzata: sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.
C. Le tutele applicabili ai lavoratori delle imprese di minori dimensioni in caso di licenziamento illegittimo
Per quanto riguarda i dipendenti presso strutture che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18 della legge 300/1970, l’art. 9 del decreto legislativo 23/2015 stabilisce che, nei confronti di tali lavoratori, trova applicazione il medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Vale a dire che, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore occupato presso un datore di lavoro minore, la reintegrazione varrà solo nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.
Negli altri casi, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un indennizzo economico, così calcolato:
- in caso licenziamento intimato per giusta causa, per giustificato motivo soggettivo o per giustificato motivo oggettivo, se il giudice accerta l’illegittimità del licenziamento, al lavoratore è riconosciuto un indennizzo (non assoggettato a contribuzione previdenziale) di importo pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio; in ogni caso, l’indennizzo non può essere inferiore a 3 mensilità, né può superare le 6 mensilità;
- in caso di licenziamento illegittimo per violazione dell’obbligo di motivazione previsto dall’art. 2, co. 2, della legge 604/1966, ovvero, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare, per violazione della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 300 del 1970, al lavoratore spetta un’indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) pari a mezza mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 1 mensilità e un limite massimo di 6 mensilità.
D. L’offerta di conciliazione
Il decreto legislativo 23/2015 prevede una nuova procedura conciliativa, finalizzata a rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento, che prevede l’immediato pagamento di un indennizzo da parte del datore di lavoro.
In particolare, l’art. 6 del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento, il datore di lavoro, al fine di evitare il giudizio, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni), può convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative indicate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. (tra cui, in particolare, le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e dall’art. 76 del decreto legislativo 276 del 2003, e offrirgli un assegno circolare di importo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 3 mensilità e non superiore a 27 mensilità.
Per incentivare questo tipo di soluzione, il legislatore ha previsto che detto indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale.
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.
Normativa
- Legge 15 luglio 1966, n. 604
- Legge 11 maggio 1990, n. 108
- Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori)
- Legge 4 novembre 2010 n. 183, cd. “Collegato Lavoro”
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Decreto legislativo n. 23/2015, recante “disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
- Decreto legge 12 luglio 2018, n. 87, conv. con mod. l. 6 agosto 2018, n. 96
- Codice civile, art. 2118 e 2119
Cosa fare – Tempi – A chi rivolgersi
Per informazioni dettagliate vedi scheda sul licenziamento individuale
Onere della prova del numero di lavoratori occupati presso il datore di lavoro
La sentenza n. 613, pronunciata dalla Corte di cassazione il 22/1/99, ha enunciato importanti e nuovi principi in merito al riparto dell’onere probatorio relativo ai limiti dimensionali di un datore di lavoro, in caso di licenziamento.
Come è noto, nel nostro ordinamento giuridico la legittimità del licenziamento di un operaio, di un impiegato o di un quadro è di regola subordinata alla ricorrenza di una giusta causa o di un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo).
Tuttavia, come visto nei paragrafi precedenti, dalla mancanza di una causa legittimante il licenziamento conseguono effetti diversi, a seconda del numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro che ha intimato il licenziamento.
È dunque importante stabilire se la prova relativa al numero dei dipendenti incomba sul lavoratore o sul datore di lavoro.
La giurisprudenza di solito afferma, forse in maniera troppo sbrigativa, che tale prova debba essere fornita dal lavoratore, in quanto il requisito dimensionale si configurerebbe come fatto costitutivo del diritto del lavoratore alla reintegrazione.
Ciò vuol dire che se il lavoratore non prova che il datore di lavoro che l’ha licenziato ha i requisiti dimensionali per l’applicabilità della tutela reale, alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento si applicano le regole della tutela obbligatoria, senza che vi sia bisogno di alcuna prova da parte del datore di lavoro.
Tuttavia, questo orientamento è stato sottoposto a dura critica da parte della sentenza sopra citata.
In primo luogo, si è osservato che una simile impostazione non tiene conto del fatto che il lavoratore e il datore di lavoro, nell’ambito del processo e con riferimento alla questione di cui si parla, non sono in posizione egualitaria.
In altre parole, la prova del requisito dimensionale può essere più agevolmente fornita dal datore di lavoro, che è in possesso dei libri matricola e che è a conoscenza diretta della sua situazione occupazionale.
Inoltre, e soprattutto, la suprema Corte ha contestato in radice la configurabilità del limite dimensionale come fatto costitutivo del diritto alla reintegrazione e, come tale, da provarsi ad opera del lavoratore secondo i principi generali della ripartizione dell’onere probatorio.
In realtà, sottolinea la Corte, il lavoratore che impugna il licenziamento non fa altro che esercitare un’azione di responsabilità del datore di lavoro per inadempimento; pertanto, i fatti costitutivi della pretesa azionata, da provarsi ad opera del lavoratore, sono solamente la esistenza di un rapporto di lavoro e la sua interruzione ad opera del datore di lavoro.
Invece, spetta al datore di lavoro provare che il licenziamento è sorretto da una giusta causa o da un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo), in quanto si tratta di un fatto impeditivo della richiesta azionata dal lavoratore.
Analogamente, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di non soddisfare i requisiti dimensionali indicati dall’art. 18 della legge 300/1970: infatti, questa circostanza è limitativa del pieno risarcimento che, altrimenti, spetterebbe al lavoratore, e dunque deve essere provata dal datore di lavoro.
Diritto di opzione tra reintegrazione e risarcimento del danno
Come visto, l’art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) prevede che il giudice, , nei casi previsti dalla legge, annullando il licenziamento ordini la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanni il datore di lavoro al risarcimento del danno oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
In tutte queste ipotesi, la legge – sia quella applicabile nei confronti dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 (art. 18 della legge 300/1970), sia quella applicabile nei confronti dei lavoratori assunti a partire da tale data(decreto legislativo 23/2015) – riconosce al lavoratore la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro (cd. diritto di opzione), la corresponsione di una indennità pari a 15 mensilità della retribuzione; detta somma, se effettivamente richiesta dal lavoratore, andrà ad aggiungersi a quella già liquidata dal giudice a titolo di risarcimento del danno.
Va peraltro segnalato che, mentre l’art. 18 della legge 300/1970 prevede che l’indennità sostitutiva della reintegrazione si determina facendo riferimento alla “retribuzione globale di fatto”, il decreto legislativo 23/2015 indica, invece, come base di calcolo, “l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”.
Il lavoratore deve esercitare tale facoltà nel termine tassativo di 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione.
In ogni caso, fino a quando l’opzione non sia stata esercitata, il lavoratore ha diritto alla retribuzione dovuta a far tempo dalla sentenza di reintegrazione.
La Corte di cassazione ha precisato che la retribuzione è dovuta anche nel caso in cui il lavoratore non ottemperi all’invito, rivoltogli dal datore di lavoro, di riprendere servizio (sentenza n. 6494 del 7/6/91); a tale riguardo, si tenga però presente che, se entro trenta giorni dall’invito il servizio non viene ripreso, il rapporto è automaticamente risolto senza diritto ad alcuna indennità.
Inoltre, la Corte Costituzionale (sentenza n. 291/96) ha affermato che la facoltà insindacabile di monetizzare il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso, attribuita al lavoratore dal comma 5 dell’art. 18 Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), non può essere vanificata dalla revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro, nel corso del giudizio avanti l’Autorità Giudiziaria; tale revoca infatti non può giungere ad effetto se non vi è accettazione del dipendente.
Aspetti contributivi connessi al periodo intercorrente tra licenziamento e reintegrazione
Sia l’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) sia gli artt. 2 e 3 del decreto legislativo 23/2015 – che interessano, rispettivamente, i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015 – prevedono che il giudice, nelle ipotesi in cui ordina la reintegrazione del lavoratore, condanna il datore di lavoro, non solo al risarcimento del danno subito dal lavoratore, ma anche al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per il periodo ricompreso dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro.
Nel caso della tutela reintegratoria piena (che, ai sensi della vecchia e della nuova disciplina, trova applicazione in caso di licenziamento discriminatorio, nullo e inefficace),peraltro, poiché è previsto che il risarcimento del danno non possa essere inferiore a 5 mensilità, può accadere che l’indennità risarcitoria risulti superiore rispetto alle retribuzioni effettivamente perdute dal lavoratore; ciò si verifica, in particolare, quando il lavoratore viene reintegrato prima della scadenza del quinto mese dalla data del licenziamento.
In questo caso, il versamento dei contributi deve in ogni caso coprire solo il tempo effettivamente intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione.
La legge non chiarisce, invece, se l’obbligo di versamento dei contributi in capo al datore di lavoro valga anche nell’ipotesi in cui il lavoratore decida di sostituire la reintegrazione con l’indennità pari a 15 mensilità.
A tale riguardo, bisogna però segnalare che l’INPS ha emanato una circolare secondo la quale i contributi non sono dovuti, dal momento che la somma non viene corrisposta a titolo di retribuzioni, avendo natura risarcitoria.
Discorso analogo viene fatto per il caso in cui, nelle aziende di minori dimensioni, alle quali non sia applicabile l’art. 18 Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), il datore di lavoro, invece di riassumere il lavoratore illegittimamente licenziato, preferisca corrispondergli l’indennità stabilita dalla legge (da 2,5 a 6 mensilità). Si è infatti sostenuto che, stante la natura risarcitoria della somma dovuta, il datore di lavoro non è tenuto al versamento contributivo.
TFR e indennità di mobilità percepiti dopo il licenziamento in caso di reintegrazione
Il lavoratore licenziato, reintegrato nel posto di lavoro a seguito di una sentenza di accertamento della illegittimità del licenziamento, deve restituire il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) eventualmente percepito. Tuttavia, questa regola generale incontra precise limitazioni.
In primo luogo, bisogna distinguere se il provvedimento giudiziario di reintegrazione sia una sentenza, ovvero un provvedimento cautelare d’urgenza (si tratta del provvedimento che conclude la fase, appunto, d’urgenza che di regola, in caso di licenziamento, precede il vero e proprio giudizio di primo grado a cognizione piena).
Infatti, una recente sentenza ha stabilito che, in quest’ultimo caso, il lavoratore può rivendicare il pagamento del TFR non corrisposto. Infatti, solo la sentenza, e non il provvedimento d’urgenza, ricostituisce il rapporto di lavoro (così Pret. Frosinone 4/2/94, est. Cianfrocca, nella causa Air Capitol Srl contro Battista).
Inoltre, secondo la Corte di cassazione, il datore di lavoro non può, unilateralmente e senza il consenso del lavoratore, recuperare somme che pretende essere dovute mediante trattenute sulla retribuzioni. Al contrario, se il lavoratore contesta l’esistenza del credito, il datore di lavoro deve promuovere un giudizio che ne accerti l’esistenza.
Infatti, consentire la unilaterale trattenuta sulla retribuzione equivarrebbe a riconoscere al datore di lavoro un potere di autotutela estraneo all’ordinamento giuridico (così Cass. 7/9/93 n. 9388, pres. Mollica, est. Buccarelli, nella causa Cosentino e altri contro A.C.T.P.N.).
In ogni caso, l’art. 545 cpc dispone che le retribuzioni e le “altre indennità relative al rapporto di lavoro” non possono essere pignorate in misura superiore ad un quinto. Pertanto, anche se, contro la giurisprudenza sopra citata, si ammettesse la possibilità di una sorta di compensazione automatica tra i crediti, il datore di lavoro non potrebbe trattenere più di un quinto della retribuzione.
Quanto alla indennità di mobilità, anch’essa deve essere restituita, peraltro sempre secondo la regola imposta dall’art. 545 sopra citato. In ogni caso, va detto che la restituzione dell’indennità in questione non costituisce un danno per il lavoratore, poiché la sentenza che accerti la illegittimità del licenziamento condanna il datore di lavoro a corrispondere la retribuzioni piena per un periodo almeno pari a quello in cui è perdurata la messa in mobilità.
Reintegrazione in altra unità produttiva
Come detto nei precedenti paragrafi, sia l’art. 18 della legge 300/1970 (applicabile ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015) sia il decreto legislativo 23/2015 (che invece interessa i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti) contemplano delle ipotesi nelle quali il giudice, una volta stabilita l’illegittimità del licenziamento, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
Talvolta però accade che il datore di lavoro, dopo aver subito questa condanna, di fatto la aggiri, reintegrando il lavoratore in una posizione differente da quella occupata prima del licenziamento; talvolta, la reintegrazione avviene addirittura presso una diversa unità produttiva.
Come si diceva, in questo modo l’ordine di reintegrazione viene adempiuto solo parzialmente e, nella sostanza, viene disatteso, dal momento che, a seguito di un licenziamento ingiustificato, sarebbe necessario ricostituire la situazione così come era prima dell’atto illegittimo.
Al contrario, la reintegrazione del lavoratore in una posizione diversa è inidonea a rimuovere tutti gli effetti lesivi del licenziamento annullato dal Giudice.
Un’ipotesi simile a quella di cui si è appena detto si era verificata nel caso esaminato dalla sentenza n. 3248, pronunciata dalla Corte di cassazione in data 3/4/99.
Infatti, in quel caso, il datore di lavoro, dopo essere stato condannato a reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato, aveva provveduto a riammettere in servizio il lavoratore in questione in una diversa posizione lavorativa e, addirittura, in un diverso luogo di lavoro.
Questo comportamento è stato ritenuto illegittimo dalla sentenza citata.
Infatti, la Corte ha ritenuto che l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, emanato dal giudice per sanzionare un licenziamento illegittimo, esige che il lavoratore sia, in ogni caso, ricollocato nel posto occupato prima del licenziamento.
Solo dopo questa effettiva reintegrazione, il datore di lavoro ha la facoltà – eventualmente – di trasferire lo stesso lavoratore, ovviamente nel rispetto dei limiti imposti dall’art. 2103 c.c. che, in particolare, consente al datore di lavoro di trasferire un proprio dipendente da una sede ad un’altra solo in presenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive: in altre parole, il trasferimento è legittimo a condizione che il lavoratore non sia più utilizzabile nella sede di provenienza e sia invece indispensabile in quella di destinazione.
La Suprema Corte ha chiarito che la regola sopra enunciata si giustifica anche in considerazione della scelta, operata dal legislatore, di tutelare la posizione del lavoratore illegittimamente licenziato nella sua effettività, ovvero avendo riguardo della sua professionalità ma anche della sua vita sociale e familiare: evidentemente, tutto questo sarebbe pregiudicato se il lavoratore illegittimamente licenziato non fosse reintegrato nel medesimo posto di lavoro.
Naturalmente, la tutela offerta dal legislatore contro un simile pregiudizio varrebbe anche qualora il posto di lavoro in questione fosse stato nel frattempo assegnato ad un altro lavoratore: in altre parole, una simile eventualità sarebbe irrilevante e non assolverebbe il datore di lavoro dall’obbligo di reintegrare il lavoratore nella posizione lavorativa ricoperta prima di essere illegittimamente licenziato.
Danno morale e danno all’immagine in conseguenza di licenziamento illegittimo
La legislazione sui licenziamenti contempla esclusivamente la possibilità di risarcire il pregiudizio economico subito dal lavoratore a seguito di un illegittimo licenziamento; non trova invece espressa disciplina il caso in cui il lavoratore subisca anche pregiudizi di natura morale e comunque non patrimoniale.
Come è ovvio, si tratta di una lacuna importante, giacché un licenziamento potrebbe essere ingiurioso e, quindi, comportare anche danni di questo tipo.
La lacuna legislativa è stata colmata dalla giurisprudenza della Suprema Corte.
Con la sentenza n. 3147 dell’1/4/99, la Corte di cassazione ha infatti stabilito che il licenziamento illegittimo, se ingiurioso, può portare al risarcimento del danno morale e del danno all’immagine.
Il caso riguardava una lavoratrice licenziata con l’accusa di aver falsificato la copia del contratto di lavoro in suo possesso. La vicenda è pervenuta da ultimo al giudizio della Corte di cassazione che, con la sentenza sopra citata, ha enunciato importanti principi in materia.
In primo luogo, la Corte ha riconosciuto che il licenziamento in questione era realmente ingiurioso, stante la gravità delle accuse rivolte alla lavoratrice e risultate infondate. Dalla natura ingiuriosa del licenziamento, prosegue la Corte, possono configurarsi in linea teorica due danni non patrimoniali.
Il primo di tali danni è quello morale, vale a dire la sofferenza subita dalla persona colpita dall’ingiuria; il secondo è il danno alla reputazione, che può essere pregiudicata dalla ingiuria insita nel licenziamento.
La distinzione tra i due danni in questione non è solo concettuale. Infatti, osserva la Corte, il danno morale deriva immediatamente dalla percezione dell’ingiuria da parte dell’offeso e, dunque, non richiede altra prova che la ricezione della comunicazione ingiuriosa. In altre parole, il danno morale è implicito nel licenziamento ingiurioso e, dunque, in questo caso, deve essere necessariamente risarcito, senza che sia necessaria una prova particolare da parte del lavoratore.
Diverso è invece il caso del danno alla reputazione, che sussiste solo in quanto la comunicazione ingiuriosa sia stata comunicata ad altre persone, e sarà tanto più rilevante quanto più ampia sia stata la diffusione dell’ingiuria.
Pertanto, il lavoratore può ottenere il risarcimento di tale danno solo a condizione di provare che l’ingiuria insita nel licenziamento sia stata pubblicizzata dal datore di lavoro, con ciò ledendo la sua reputazione, soprattutto sotto il profilo professionale e sociale.
Prima di concludere, conviene precisare che il principio enunciato dalla Corte non si scontra con la regola secondo cui il danno morale è risarcibile solo se causato da un reato, e ciò stante la natura delittuosa dell’ingiuria.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di licenziamento illegittimo
Reintegrazione
- L’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio, implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni precedentemente svolte, a meno che il datore di lavoro non intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive. (Trib. Busto Arsizio 2/2/2021, Giud. La Russa, in Lav. nella giur. 2021, 665)
- La tutela reale ex art. 18 St. lav., nella versione successiva alla Riforma Fornero, presuppone l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una sicura conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del recesso derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o dalla chiara riconducibilità del medesimo tra le fattispecie punibili, secondo la tipizzazione collettiva, con una mera sanzione conservativa. (Cass. 9/5/2019 n. 12365, Pres. Di Cerbo Est. Boghetich, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di P. Tosi e E. Puccetti, “La tipizzazione collettiva degli illeciti disciplinari tra tutela reale e tutela obbligatoria”, 652)
- In caso di condotta che non sia riconducibile ad una determinata infrazione punibile con sanzione conservativa secondo la tipizzazione collettiva, pur esprimendo un analogo disvalore disciplinare, non può essere accordata la tutela reale in virtù di un’interpretazione estensiva delle previsioni contrattuali ma la sola tutela indennitaria (ex art. 18, comma 5, St. lav.) per carenza di proporzionalità del recesso. (Cass. 9/5/2019 n. 12365, Pres. Di Cerbo Est. Boghetich, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di P. Tosi e E. Puccetti, “La tipizzazione collettiva degli illeciti disciplinari tra tutela reale e tutela obbligatoria”, 652)
- La previsione dell’art. 18, co. 4, l. n. 300/1970, secondo cui il giudice deve applicare la tutela reintegratoria attenuata per licenziamento ingiustificato nel caso in cui «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili», è riferibile esclusivamente all’ipotesi in cui la condotta contestata al lavoratore sia tipizzata dal codice disciplinare del contratto collettivo, in quanto soltanto in tale evenienza la non irrogabilità di un licenziamento è chiaramente conoscibile in anticipo dal datore di lavoro (la S.C. ha cassato la pronuncia di merito che, tenuto conto di una previsione del ccnl che comminava una sanzione conservativa nel caso di «abbandono del posto di lavoro», aveva applicato la tutela reintegratoria in un caso di specie in cui il lavoratore licenziato non si era limitato ad abbandonare il posto di lavoro durante l’orario notturno ma si era recato in un altro luogo dello stabilimento e si era lì messo a dormire, venendo svegliato soltanto dall’improvviso sopralluogo, alcune ore dopo, del superiore gerarchico). (Cass. 9/5/2019 n. 12365, Pres. Di Cerbo Rel. Boghetich, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di R. Del Punta, “Ancora sul regime del licenziamento disciplinare ingiustificato: le nuove messe a punto della Cassazione”, 494)
- In tema di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, laddove si accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, di cui all’art. 18, co. 7, St. lav., come novellato dalla l. n. 92/2012, il giudice è tenuto ad applicare la tutela reintegratoria, non avendo alcuna discrezionalità in merito alla scelta del regime sanzionatorio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva rilevato la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento e aveva disposto la reintegrazione della lavoratrice, licenziata a seguito della soppressione del reparto cui era addetta, sul rilievo che la stessa, in precedenza occupata in un altro reparto, era stata collocata presso il reparto destinato ad essere soppresso in esubero). (Cass. 13/3/2019 n. 7167, Pres. Nobile Rel. Negri della Torre, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di E. Chieregato, “G.m.o. e ‘manifesta insussistenza’ del fatto: tutela applicabile e discrezionalità giudiziale nel regime della legge Fornero”, 379)
- L’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 St. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012, articolo 1, comma 42, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità. (Cass. 10/5/2018 n. 11322, Pres. Napoletano Rel. Marotta, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di G. Fava e R. Parruccini, “La Cassazione si pronuncia sulla legittimità delle registrazioni effettuate da parte dei dipendenti sul luogo di lavoro”, 761)
- La disposizione di cui al novellato quarto comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori – con il prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine (immediatamente esecutivo) del giudice che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una “indennità risarcitoria” – non è irragionevole, ma coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità a una condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente. La qualificazione risarcitoria della suddetta indennità non è contraddetta dalla sua commisurazione “all’ultima retribuzione globale di fatto”, e dunque non vi è alcun contrasto della disposizione censurata con l’art. 3 Cost. (Corte Cost. 23/4/2018 n. 86, Pres. Lattanzi Est. Morelli, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di S. Rescigno, “Riforma della sentenza di reintegrazione e ripetibilità delle somme: l’indennità ex art. 18, comma 4, St. lav. supera il vaglio di costituzionalità”, 823)
- È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 7, lett. g, legge n. 183/2014 e degli artt. 2, 3, 4 del d.lgs. n. 23/2015, per contrasto con gli artt. 3, 4, 76 e 117, co. 1 Cost., letti autonomamente e anche in correlazione fra loro. (Trib. Roma 26/7/2017, ord., in Riv. It. Dir. Lav. 2017, con nota di G. Proia, “Sulla questione di costituzionalità del contratto a tutele crescenti”, 768)
- L’ordinanza immediatamente esecutiva (art. 1, c. 49, l. 28.6.2012, n. 92), se è titolo per l’esecuzione immediata della reintegra, ben può essere considerata “prova scritta”, unitamente alla dichiarazione di opzione, per il rilascio della ingiunzione relativa alla indennità di cui al c. 3 dell’art. 18 St. lav. (Trib. Milano 30/5/2017, ord., Est. Mariani, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di M. A. Carbone, “Equiparazione tra ordinanza e sentenza ai fini dell’esercizio del diritto di opzione a norma dell’art. 18, c. 3, St. Lav.”, 607)
- La disposizione di cui all’art. 3, c. 2, del d.lgs. n. 23/2015 presenta elementi di irrazionalità, dal momento che addossare al lavoratore la prova diretta di un fatto negativo contrasta con il principio di vicinanza della prova e con l’art. 5 della l. n. 604/1966. Pertanto, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, il lavoratore può avvalersi della prova presuntiva e indiretta, e la mancata prova del fatto positivo allegato da parte del datore di lavoro a fondamento del licenziamento equivale alla dimostrazione in giudizio del fatto negativo (onere di per sé talmente gravoso da rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto alla reintegra). (Trib. Milano 14/3/2017, Est. Cassia, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di G. Negri, “L’insussistenza del fatto materiale e la ripartizione dell’onere probatorio: un’interpretazione costituzionalmente orientata”, 617)
- L’assenza di illeceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all’ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd. reale. (Cass. 20/9/2016 n. 18418, Pres. Bronzini Est. Balestrieri, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2017, II, con nota di M. Salvagni, “L’irrilevanza giuridica del fatto equivale alla insussistenza della condotta”, 51)
- Venuto meno, a seguito delle modifiche apportate dalla l. n. 92/2012, il limite minimo delle cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, nelle ipotesi di invalidità del licenziamento contemplate dal quarto comma dell’art. 18, l. n. 300/1970 l’ordine di reintegrazione non è necessariamente seguito dalla condanna al risarcimento del danno, nel caso in cui il comportamento del datore di lavoro sia immune da dolo o colpa. (Corte app. Bologna 6/5/2016 n. 514, Pres. Brusati Est. Mantovani, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di Giulio Centamore, “Licenziamento incolpevole e risarcimento del danno: quando la reintegrazione ex art. 18, comma 4, St. lav. resta priva di indennità”, 3)
- Fra gli “altri casi di nullità del licenziamento previste dalla legge”, contemplati dall’art. 18, c. 1, l. n. 300/1970, cui si applica la tutela reintegratoria piena, vi è quello per contrarietà a norme imperative di cui all’art. 1418, c. 1, c.c. (Cass. 25/11/2015 n. 24157, Pres. Stile Est. Manna, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Filippo Aiello, “L’applicabilità al pubblico impiego privatizzato dell’art. 18 St. Lav.”, 25)
- Nell’ambito del licenziamento disciplinare, la tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970 si applica solo nell’ipotesi di insussistenza del fatto (inteso come fatto materiale, dal quale esula ogni valutazione relativa alla proporzionalità) posto a fondamento del recesso datoriale, o nell’ipotesi in cui il medesimo fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa, in base alle disposizioni del CCNL o del codice disciplinare applicabile. Tra le “altre ipotesi” di insussistenza della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo di cui all’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970 ai fini dell’applicazione della tutela indennitaria ex art. 18, comma 5, L. n. 300/1970 rientra anche la violazione del requisito della tempestività, quale elemento costitutivo del diritto di recesso, mentre esulano dall’ambito applicativo di tale disposizione le violazioni procedurali previste dall’art. 7, L. n. 300/1970. (Cass. 6/11/2014 n. 23669, Pres. Macione Est. Arienzo, in Lav. nella giur. 2015, con commento di M. Lavinia Buconi, 152, e in Riv. it. dir. lav. 2015, con note di R. Del Punta, “Il primo intervento della Cassazione sul nuovo (eppur già vecchio) art. 18”, e di F. Martelloni, “Nuovo art. 18: la Cassazione getta un ponte tra riforma Fornero e Jobs Act”, 25)
- In ipotesi di licenziamento disciplinare illegittimo, dopo la l. n. 92/2012, la tutela reintegratoria e risarcitoria cd. debole si applica quando il datore di lavoro non provi il fatto contestato e l’imputabilità del fatto al lavoratore oppure quando sussista una causa di esclusione dell’inadempimento del prestatore di lavoro e, altresì, quando il fatto come ricostruito sia punito dalla contrattazione collettiva con una sanzione disciplinare conservativa o, comunque, non rientri nella nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo. Qualora, invece, il licenziamento venga considerato illegittimo per difetto di adeguatezza e di proporzionalità della sanzione inflitta, cioè si sia comunque in presenza di un inadempimento di non scarsa rilevanza, trova applicazione la sola tutela risarcitoria. (Trib. Bologna 24/7/2013, Est. Benassi, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Azzurra de Salvia, “Ancora sulle conseguenze sanzionatorie in caso di licenziamento disciplinare illegittimo dopo la legge n. 92/2012”, 153)
- L’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “ovvero” all’interno del quarto comma dell’art. 18 (“Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”) dimostra che anche la presenza di uno solo dei due vizi è sufficiente a garantire al lavoratore la tutela reale. (Trib. Roma 8/4/2013, Giud. Armone, in Lav. nella giur. 2013, 747)
- L’art. 18, comma 4, St. Lav., come sostituito dall’art. 1, comma 42, l. 28 giugno 2012, n. 92 (Riforma Fornero), prevede che il giudice dispone la reintegra del lavoratore, se non ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, per “insussistenza del fatto contestato” o quando il fatto rientri tra le condotte punibili con sanzione conservativa, secondo le previsioni dei contratti collettivi e dei codici disciplinari applicabili. Per quanto riguarda l’”insussistenza del fatto contestato”, la norma in questione, parlando di “fatto”, fa necessariamente riferimento al c.d. “fatto giuridico”, inteso come fatto globalmente accertato, nell’unicum delle sue componenti oggettive e soggettive. Rientra tra le condotte punibili con “sanzione conservativasulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”, per cui il giudice dispone ugualmente la reintegra se sia inflitto invece il licenziamento, la “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori gerarchici”, per cui il contratto collettivo nazionale dell’industria metalmeccanica (art. 9, sez. 4, tit. 7 Ccnl 2008) applicato nella specie, prevede espressamente solo sanzioni conservative, nella diversa gradazione ivi contemplata (nella specie, il giudice ha ritenuto che proprio in questa norma contrattuale rientrasse il fatto commesso dal ricorrente). (Trib. Bologna 15/10/2012, ord., Giud. Marchesini, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Mara Congeduti, e nota di Luca Failla, Prime applicazioni giurisprudenziali del nuovo art. 18 St. Lav.”, 1190, in D&L 2012, con nota di Ferdinando Perone, “Nuovo art. 18 SL e nozione di ‘fatto contestato’ nel licenziamento disciplinare”, 821)
- L’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato non è suscettibile di esecuzione forzata, in quanto l’esecuzione in forma specifica è possibile solamente per le obbligazioni di fare di natura infungibile, mentre la reintegrazione nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione in azienda (e cioè un comportamento passivo riconducibile a un semplice “pati”), ma anche un indispensabile e insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro, consistente, tra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una relazione di reciproca e infungibile collaborazione. Tale incoercibilità non ha peraltro alcun collegamento con la sanzione prevista dall’art. 18, u.c., Stat. Lav., che deve comunque essere applicata in caso di inottemperanza, anche parziale, all’ordine di reintegrazione. (Cass. 18/6/2012 n. 9965, Pres. De Luca Rel. Curzio, in Lav. nella giur. 2012, 815, e in Orient. Giur. Lav. 2012, 405)
- La reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro può essere disposta anche nei confronti di una società posta in liquidazione, solo allorché non risulti avvenuta la cessazione definitiva dell’attività sociale e l’azzeramento effettivo dell’organico del personale. (Trib. Milano 26/3/2012, Giud. Gasparini, in Lav. nella giur. 2012, 729)
- “Reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”, ai sensi dell’art. 18 SL, significa “restituire in integro” la relazione del lavoratore col “posto di lavoro”, in ogni suo profilo, anche non retributivo, poiché il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche una forma di accrescimento della professionalità e di affermazione dell’identità personale e sociale, tutelata da norme di rango costituzionale. Ne consegue che non ottempera all’ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente sindacale illegittimamente licenziato, e deve pagare la sanzione al Fondo adeguamente pensioni ex art. 18, 10° comma, SL, l’imprenditore il quale, facendo leva sull’incoercibilità specifica dell’ordine medesimo, si limiti a versare al lavoratore la retribuzione e a consentirgli l’ingresso in azienda per lo svolgimento dell’attività sindacale, senza permettergli, tuttavia, di riprendere il lavoro. (Cass. 8/6/2012 n. 9965, Pres. De Luca Est. Curzio, in D&L 2012, con nota di Lorenzo Franceschinis, “Ultime luci di una stella morta?”, 815)
- Ai fini della sussistenza del requisito numerico, rilevante ai sensi degli artt. 18 e 35 Stat. Lav. per l’applicabilità della tutela reale, il giudice deve accertare la normale produttività dell’impresa facendo riferimento agli elementi significativi al riguardo, quali, ad esempio, la consistenza numerica del personale in un periodo di tempo, anteriore al licenziamento, congruo per durata e in relazione all’attività e alla natura dell’impresa. (Trib. Milano 9/12/2010, Giud. Colosimo, in Lav. nella giur. 2011, 323)
- In ipotesi di licenziamento di carattere indubbiamente ritorsivo, al lavoratore licenziato va accordata, a prescindere dal requisito dimensionale dell’azienda, la piena tutela reale ai sensi dell’art. 18 l. n. 300 del 1970. (Cass. 27/10/2010 n. 21967, Pres. ed Est. Foglia, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di M. Pallini, “L’utilità sociale quale limite interno al potere di licenziamento?”, 86)
- Nel procedimento di impugnazione del licenziamento, il lavoratore, dinanzi all’esistenza di un gruppo più o meno articolato e complesso, può cautelarsi formulando diverse ipotesi di reintegrazione, a seconda di quale sia l’effettivo datore di lavoro individuato dal giudice. Non è precluso alla parte formulare domande alternative o tra loro subordinate. Ma una volta accertato in fatto, con adeguata motivazione, che l’effettivo datore di lavoro ovvero il “dominus” del rapporto di lavoro è la società capogruppo, correttamente il giudice di merito dispone la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nei confronti di tale società. (Cass. 21/9/2010 n. 19931, Pres. Vidiri Est. Di Nubila, in Orient. Giur. Lav. 2011, 130)
- In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. (Cass. 22/3/2010 n. 6846, Pres. Roselli Est. Morcavallo, in Orient. Giur. Lav. 2010, 486)
- Ai fini dell’applicabilità dell’art. 18 SL non è sufficiente che il lavoratore invochi l’applicabilità della richiamata norma, ma è necessario che deduca anche la sussistenza del requisito numerico. (Trib. Tivoli 23/9/2009, Est. Mari, in D&L 2009, con nota di Stefano Muggia, “Applicabilità dell’art. 18 SL e onere di allegazione”, 1048)
- Nel regime di stabilità reale previsto dall’art. 18 legge n. 300 del 1970 – nel testo modificato dall’art. 1 della legge n. 108/1990, applicabile anche per il tempo anteriore della sua entrata in vigore – nel periodo compreso tra la data dell’illegittimo licenziamento e quella della pronuncia giudiziale contenente l’ordine di reintegra del lavoratore, rimangono in vita il rapporto assicurativo previdenziale e il corrispondente obbligo del datore di lavoro di versare all’ente previdenziale i contributi assicurativi, tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori, alla stregua dell’art. 23 legge n. 218/1952, che, trasferendo l’obbligo di pagare una parte dei contributi da uno ad altro soggetto, introduce una pena privata giustificata dall’intento del legislatore di rafforzare il vincolo obbligatorio attraverso la comminatoria, per il caso di inadempimento, del pagamento di un importo superiore all’ammontare del mero risarcimento del danno. (Cass. Sez. Un. 4/4/2008 n. 8800, Pres. Senese Rel. Roselli, in Dir. e prat. lav. 2008, 2434)
- In caso di reintegra nel posto di lavoro, il termine di trenta giorni per la ripresa del servizio (ovvero per la richiesta dell’indennità sostitutiva) da parte del lavoratore decorre, ai sensi dell’art. 18, quinto comma, L. n. 300 del 1970, dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro o dalla comunicazione del deposito della sentenza contenente l’ordine di reintegra. Ne consegue che, ove il datore di lavoro abbia formalmente comunicato l’invito a riprendere il servizio, l’inutile decorso del termine comporta la risoluzione del rapporto, dovendosi considerare insufficiente una generica adesione all’invito da parte del lavoratore non seguita dall’effettiva ripresa dell’attività lavorativa, salvo che ciò non sia stato possibile a causa di forza maggiore o di un legittimo impedimento, nel qual caso le circostanze giustificative addotte dal lavoratore medesimo ineriscono non al termine, sospendendolo, ma unicamente all’obbligo del lavoratore subordinato di prestare la sua opera in costanza del rapporto. (Cass. 6/6/2008 n. 15075, Pres. De Luca Est. Celentano, in Lav. nella giur. 2008, 1164)
- L’art. 34 del CCNL giornalisti prevede a tutela del giornalista dirigente sindacale, in caso di licenziamento, una procedura preventiva di richiesta del nulla osta all’Associazione regionale della stampa, attribuendo a tale procedimento la funzione integrativa della fattispecie costitutiva dell’efficacia dell’atto, in mancanza del quale il recesso è inefficace. Trattandosi di inefficacia prevista da norma di natura contrattuale e non legale, ne derivano, con la prosecuzione del de iure del rapporto e la permanenza dell’obbligo retributivo a carico del datore di lavoro fino a effettiva reintegrazione o ad altro valido ed efficace licenziamento del dipendente, mentre non si applica l’art. 18 della legge n. 300 del 1970 (come novellato dall’art. 1 legge n. 108/1990). (Cass. 22/4/2008 n. 10337, Pres. Matone Est. Ianniello, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Gianfranco Petraglia, “La procedimentalizzazione del recesso datoriale a opera del contratto collettivo dei giornalisti”, 337)
- La cessazione dell’attività aziendale fa venire meno il substrato della prestazione lavorativa e pertanto estingue i rapporti di lavoro per impossibilità sopravvenuta della prestazione ai sensi degli artt. 1463 e 1256 c.c.; conseguentemente il giudice che accerti l’illegittimità di un licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavor,o qualora nelle more del giudizio sia sopravvenuta la cessazione totale dell’attività aziendale. (Trib. Milano 9/2/2008 Est. Cincotti, in D&L 2008, con nota di Matteo Paulli, 669, e in Lav. nella giur. 2008, 1065)
- Non può trovare accoglimento la domanda di reintegrazione del lavoratore che, prima di attivarsi in via giudiziale per ottenere la reintegrazione e a non trascurabile lasso di tempo dal licenziamento, non solo ha raggiunto l’età pensionabile, ma ha anche chiesto la pensione di vecchiaia, tenendo una condotta idonea a far presumere che non avrebbe comunque continuato a prestare l’attività lavorativa dopo la maturazione dei requisiti per ottenere la pensione di vecchiaia; in tale ipotesi spetta comunque il risarcimento del danno ex art. 18, c. 4, SL. (Trib. Milano 25/1/2008, Est. Beccarini, in D&L 2008, con nota di Matteo Paulli, 669)
- Il legislatore ha inteso regolare con il nuovo testo dell’art. 18, c. 4, SL la misura del danno subito dal lavoratore per effetto della sua incolpevole inattività lavorativa, tanto per il periodo precedente la sentenza di reintegra che per quello successivo. Ne consegue che il lavoratore non può pretendere, per il fatto stesso dell’inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegra e in assenza di prova e di allegazione di pregiudizi ulteriori e distinti, eventuali danni patrimoniali superiori alla misura della retribuzione. (Cass. 17/12/2007, n. 26561, Pres. Ciciretti Est. Celentano, in D&L 2008, con nota di Sara Vinciguerra e Giuseppe Bulgarini d’Elci, “Inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegra e risarcibilità dei danni ulteriori per imposta inattività”, 271)
- La forzata inattività del lavoratore per il periodo successivo alla sentenza che abbia ordinato la reintegrazione non può essere ricondotta alla fattispecien regolata dall’art. 2103 c.c., il quale presuppone l’attualità in fatto e in diritto del rapporto lavorativo e una dequalificazione intervenuta nel corso dello stesso, con una propria specificità e marcati caratteri differenziali rispetto alla sola ipotesi della inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegra, che è regolato, viceversa, dall’art. 18 SL. (Cass. 17/12/2007 n. 26561, Pres. Ciciretti Est. Celentano, in D&L 2008, con nota di Sara Vinciguerra e Giuseppe Bulgarini D’Elci, “Inottemperanza all’ordine giudiziale di reintegra e risarcibilità dei danni ulteriori per imposta inattività”, 271)
- Il licenziamento intimato senza il rispetto delle garanzie procedimentali dell’art. 7 è parificato, in ordine ai suoi effetti, al vizio sostanziale dell’assenza di giusta causa o giustificato motivo. In tal caso il licenziamento non è viziato da nullità, ma soltanto ingiustificato, nel senso che il comportamento addebitato al dipendente, non va fatto valere attraverso quel procedimento, non può, quand’anche effettivamente sussistente e rispondente alla nozione di giusta causa o giustificato motivo, essere addotto dal datore di lavoro per sottrarsi all’operatività della tutela apprestata dall’ordinamento nelle diverse situazioni e cioè a quella massima cosiddetta reale, ex art. 18 della citata L. n. 300 del 1970, ovvero all’alternativa fra riassunzione e risarcimento del danno, secondo il sistema della legge n. 604 del 1966, o infine, all’onere di preavviso ex art. 2118 c.c., incombendo, poi, sul lavoratore l’onere di provare, se contestata, la ricorrenza dei requisiti di legge, ivi compresi quelli attinenti ai limiti dimensionali dell’organizzazione facente capo al datore di lavoro, per l’attribuzione del tipo di tutela rivendicato. (Trib. Milano 15/11/2007, D.ssa Bianchini, in Lav. nella giur. 2008, 429)
- Nel regime di stabilità reale previsto dall’art. 18 della L. n. 300 del 1970 (che nella specie trova applicazione nel testo anteriore a quello introdotto dalla L. n. 108 del 1990), nel periodo compreso tra la data dell’illegittimo licenziamento e quella della pronuncia giudiziale contenente l’ordine di reintegra del lavoratore, durante il quale il rapporto di lavoro è quiescente ma non estinto, rimangono in vita il rapporto assicurativo previdenziale e il corrispondente obbligo del datore di lavoro di versare all’ente previdenziale i contributi assicurativi (v. Corte cost. n. 7 del 1986); i contributi previdenziali sono dovuti indipendentemente dalla erogazione della retribuzione (che nel detto periodo non è corrisposta, spettando al lavoratore solo il risarcimento del danno) e vanno cmmisurati a quella che sarebbe stata la normale retribuzione dell’intero periodo, anche se non coincidente con l’importo del danno liquidato in applicazione dei criteri di risarcimento fissati dalla legge. (Cass. Sez. Un. 5/7/2007 n. 15143, Pres. Carbone Est. Miani Canevari, in Lav. nella giur. 2008, 87, e in D&L 2007, con nota di U.M. Cafiero, “L’obbligo contributivo in seguito al licenziamento dichiarato illegittimo ex art. 18 SL”, 1187, e in Dir. e prat. lav. 2008, 1066)
- A seguito della reintegrazione eseguita in adempimento dell’ordine giudiziale, il datore, nell’ambito di un ininterrotto rapporto di lavoro, ha l’obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto, ovvero a mansioni equivalenti a quelle effettivamente svolte. Ove il lavoratore venga reintegrato (a distanza di tempo dall’ordine giudiziale che tanto aveva disposto) dopo che, per il mutamento dell’organizzazione aziendale, alcune mansioni siano state soppresse, ovvero si siano quantitativamente ridotte a una misura insufficiente a saturare l’attività del lavoratore stesso, è legittimo che questi venga assegnato a mansioni (equivalenti alle precedenti) coerenti con il mutato assetto; e, ove sia mutata la strumentazione aziendale, che egli venga adibito alle mansioni pregresse con gli strumenti di lavoro mutati. Ove infine in tale ambito il lavoratore reintegrato non abbia, per la riduzione della propria capacità lavorativa, la possibilità di rendere una prestazione quantitativamente sufficiente, il licenziamento è legittimo (Cass. 30/3/2006 n. 7536, Pres. Senese Est. Cuoco, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Arturo Barbato, “Potere organizzativo del datore e limiti del diritto del lavoratore licenziato illegittimamente alla reintegrazione nelle mansioni precedenti”, 148)
- Nonostante l’ineseguibilità in forma coattiva dell’obbligo di reintegrazione, che ha natura di fare infungibile, il giudice chiamato a dare attuazione alle misure cautelari deve cercare una tutela specifica in grado di produrre effetti satisfattivi indipendentemente dalla volontà dell’obbligato; pertanto, dato che l’ordine può essere eseguito in modo frazionato attraverso la suddivisione delle operazioni di reintegra in varie fasi, possono essere imposte in forma coattiva al datore di lavoro le prestazioni che non integrano poteri discrezionali, come l’iscrizione al libro paga e matricola, il rilascio del cartellino, l’ingresso in azienda, l’accesso alla mensa aziendale, il pagamento delle retribuzioni, autorizzando in caso di rifiuto l’assistenza dell’Ufficiale giudiziario e occorrendo della forza pubblica. (Trib. Ravenna 25/7/2006, ord., Est. riverso, in Lav. nella giur. 2006, con commento di Michele Miscione, 998)
- Il conseguimento della pensione di anzianità non integra una causa di impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, atteso che la disciplina legale dell’incompatibilità (totale o parziale) fra trattamento pensionistico e percezione di un reddito da lavoro dipendente, si colloca sul diverso piano del rapporto previdenziale (determinando la sospensione dell’erogazione di tutta o parte della prestazione pensionistica), ma non comporta l’invalidità del rapporto di lavoro. (Cass. 10/5/2005 n. 9732, Pres. Ciciretti Rel.Celentano, in Dir. e prat. lav. 2005, 2221)
- Non commette il reato di cui all’art. 650 c.p., ma – ove ne ricorrano gli elementi costitutivi della condotta tipica – il reato di cui all’art. 388, comma 1, c.p., il datore di lavoro destinatario di un ordine di reintegrazione emesso dal giudice civile in base all’art. 18 St. Lav. ovvero ex art. 700 c.p.c., che ometta di reintegrare immediatamente il lavoratore nel posto di lavoro. (Cass. sez. I pen. 27/1/2005 n. 2603, Pres. Chieffi Est. Canzio, in Dir. e prat. lav. 2005, 1119)
- In caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento e di mancata ottemperanza, da parte del datore di lavoro, all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, l’obbligazione del datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni ai sensi dell’art. 18, secondo comma, della legge 20 maggio 1970 n. 300 (nel testo anteriore all’entrata in vigore della legge 11 maggio 1990 n. 108), essendo collegata alla posizione che il lavoratore aveva al momento del licenziamento illegittimo, ha natura retributiva e non risarcitoria, ed è pertanto soggetta alla prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948 c.c. (Cass. 19/3/2004 n. 5582, Pres. Mattone Rel. Maiorano, in Dir. e prat. lav. 2004, 2376)
- Ai fini dell’applicazione dell’art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che esclude dall’ambito di operatività dell’art. della legge 20 maggio 1970 n. 300 i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, il datore di lavoro è qualificabile o meno imprenditore in base alla natura dell’attività da lui svolta, da valutare secondo gli ordinari decreti, che fanno riferimento al tipo di organizzazione ed all’economicità della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di lucro, restando irrilevante che la prestazione di servizi, ove effettuata secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale, sia resa solo nei confronti di associati al soggetto che tali servizi eroga ovvero ad un’organizzazione sindacale cui il soggetto erogatore sia collegato. (NellaS.C., aveva ritenuto di tipo imprenditoriale l’attività di prestazione di servizi svolta dalla Conferscenti, o società a questa collegate, in favore di imprese associate). (Cass. 26/1/2004 n. 1367, Pres. Senese Rel. Toffoli, in Dir. e prat. lav. 2004, 1505) specie, la sentenza impugnata, confermata dalla
- Commette il reato di cui all’art. 388, comma 1, c.p. il datore di lavoro che allo scopo di non ottemperare alla sentenza del Giudice con cui a norma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori venga disposta la reintegrazione di un lavoratore nel posto di lavoro commetta un atto fraudolento consistente nella soppressione della figura professionale rivestita dal lavoratore reintegrato. (Cass. 6/11/2003, n. 42438, Pres. Trojano Est. Mannino, in Dir. E prat. lav. 2003, 3175)
- Anche nella vigenza del nuovo testo dell’art. 18 Stat. Lav., il lavoratore ha diritto a ricevere le retribuzioni per il periodo successivo alla reintegra per essere il datore di lavoro inadempiente all’ordine del giudice, a maggior ragione, quando l’illegittimità del licenziamento è stata confermata in appello, posto che, diversamente, verrebbe meno la tutela speciale riservata dall’art. 18 Stat. Lav. al lavoratore vittorioso in primo grado per il lasso di tempo in cui fa valere le sue ragioni. (Corte d’appello Milano 12/6/2003, Est. Mannaccio, In Lav. nella giur. 2003, 1177)
- Non commette il reato di cui all’art. 650 c.p. il datore di lavoro che non ottemperi alla sentenza del giudice con cui a norma dell’art. 18 Statuto dei lavoratori venga disposta la reintegrazione di un lavoratore nel posto di lavoro. (Cass. 15/5/2003, n. 21362, Pres. Mocali, Rel. Cassano, in Dir. e prat. lav. 2003, 1688)
- Nel caso di licenziamento dichiarato illegittimo ai sensi dell’art. 18 legge n. 300/1970, il rapporto di lavoro prosegue, anche in assenza di effettive prestazioni lavorative, fino al momento della reintegra del lavoratore licenziato ovvero fino alla transazione-eventualmente intervenuta successivamente alla sentenza di reintegra-che pone termine al rapporto; ne consegue, in tale ultima ipotesi, che il datore di lavoro è obbligato a pagare i contributi previdenziali della somma corrisposta al lavoratore, comunque qualificata nella sede transattiva, e fino ad un ammontare corrispondente alla misura della retribuzione dovuta in base al contratto di lavoro. Resta invece esente da contribuzione previdenziale l’indennità sostitutiva, che non ha natura retributiva perché il rapporto di lavoro si risolve con la percezione della stessa. (Cass. 7/3/2003, n. 3487, Pres. Senese, Rel. Foglia, in Dir. e prat. lav. 2003, 1408 e in in Lav. nella giur. 2003, 682)
- In sede di esecuzione dell’ordine del giudice di reintegrazione o riammissione in servizio, certamente il datore di lavoro ha l’onere di riallocare il dipendente nella medesima situazione lavorativa precedentemente occupata ovvero in altra con similari caratteristiche e condizioni. Siffatto indiscutibile primario onere del datore di lavoro va, comunque, commisurato ed adeguato alla effettiva possibilità di ripristino dello status quo ante, in caso questi sia venuto meno per oggettive modificazioni medio tempore avvenute (Trib. Roma 12/3/2003, Pres. Cortesani, Rel.Lav. nella giur. 2003, 690) Corsetti, in
- È ammissibile il referendum abrogativo delle norme che precludono la possibilità di applicare a tutti i lavoratori, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda in cui operano, l’art. 18 SL. (Corte Cost. 6/2/2003 n. 41, Pres.Chieppa, in D&L 2003, 45)
- Il dipendente reintegrato nel posto di lavoro a seguito di annullamento del licenziamento ha diritto ad essere ricollocato nel posto di lavoro occupato in precedenza. Qualora dopo il licenziamento il ramo d’azienda cui era addetto il dipendente sia stato ceduto, la sentenza di reintegra determina il diritto al ripristino del rapporto in capo all’azienda cessionaria, che si configura come successore a titolo particolare nel diritto controverso. Ne consegue che un secondo licenziamento intimato dalla cedente è inefficace in quanto tale soggetto non era più titolare del rapporto di lavoro, già passato automaticamente alla cessionaria. (Trib. Milano 14/1/2003, Est. Ianniello, in D&L 2003, 464)
- La reintegrazione, a seguito di specifica pronuncia giudiziale, del lavoratore licenziato in un posto di lavoro equivalente a quello da ultimo ricoperto è legittima solo nell’ipotesi in cui le condizioni preesistenti il licenziamento legittimassero già l’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro (Trib. Milano 12 novembre 1999, pres. Ruiz, est. de Angelis, in D&L 2000, 226)
- La disposizione, rivolta dal datore di lavoro al dipendente di presentarsi in luogo diverso rispetto a quello ove era addetto al momento della cessazione del rapporto e senza indicazione della specifica attività lavorativa, non costituisce valido atto di reintegra. Conseguentemente il rifiuto del dipendente di presentarsi non può considerarsi rinuncia alla reintegra e il successivo licenziamento deve essere ritenuto illegittimo (Cass. 2/7/99 n. 6847, pres. De Tommaso, est. Figurelli, in D&L 1999, 926, n. S. Muggia, Invalido atto di recesso e eccezione d’inadempimento; in Riv. Giur. Lav. 2001, pag. 46, con nota di Fodale, Ordine di reintegrazione e modalità di attuazione)
- L’integrale ripristino del rapporto di lavoro conseguente all’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato comprende anche il diritto del datore di lavoro – la cui fattiva cooperazione è indispensabile e insostituibile per dare esecuzione al suddetto ordine – di esercitare autonomamente il proprio potere direttivo. Ciò implica la possibilità di includere nelle procedure di mobilità previste dalla l. n. 223/91 anche lavoratori da reintegrare, ancorché il relativo ordine non sia stato ancora materialmente eseguito, in quanto i criteri sulla cui base vanno individuati i lavoratori da collocare in mobilità non richiedono in alcun modo l’effettività del rapporto lavorativo, non risultando parametrabili su tale effettività. (Cass. 14/10/00, n. 13727, pres. Mercurio, est. Vidiri, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 343)
- L’accertamento giudiziale dell’illegittimità del licenziamento ed il conseguente ordine di reintegrazione ex art. 18, l. n. 300/70, ricostituendo “de iure” il rapporto – da considerare, quindi, come mai risolto – ne ripristinano integralmente l’originario contenuto obbligatorio, comprendente anche il diritto del lavoratore a riassumere le abituali mansioni nel posto di lavoro occupato anteriormente. Pertanto, l’eventuale attribuzione del suddetto posto ad altro dipendente in sostituzione del lavoratore licenziato – che abbia impugnato l’atto di recesso – deve essere considerata provvisoria perché condizionata alla definitiva reiezione giudiziale della suddetta impugnativa. Ne consegue che, sopravvenuto l’ordine di reintegrazione, il datore di lavoro,quali che siano gli impegni assunti nei confronti del sostituto, deve in via prioritaria riammettere il lavoratore licenziato nel suo originario posto di lavoro e non può allegare l’avvenuta sostituzione come esigenza organizzativa per trasferire in altra sede di lavoro il dipendente reintegrato. (Cass. 14/10/00, n. 13727, pres. Mercurio, est. Vidiri, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 343)
- E’ ammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione dell’art. 18 SL, come modificato dall’art. 1 L.D&L 2000, 85, n. FEZZI, Il referendum radicale sull’abrogazione dell’art. 18 S.L.) 11/5/90 n. 108, recante norme sull’abrogazione della reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento riconosciuto come illegittimo (Corte Costituzionale 7 febbraio 2000 n. 46, pres. Vassalli, rel. Vari, in
- Costituisce unità produttiva, nozione che ha carattere unitario nell’ambito dello Statuto di lavoratori, ogni articolazione autonoma dell’azienda, avente, sotto il profili funzionale e finalistico, idoneità a esplicare in tutto o in parte l’attività di produzione di beni o servizi (Cass. 14/6/99 n. 5892, pres. Ianniruberto, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 702, con nota di Lassandari, Nozioni consolidate e argomentazioni oscure in materia di trasferimento del prestatore)
- Sotto il profilo dei requisiti dimensionali della tutela reale, a norma dell’art. 18 SL, un’unità produttiva deve considerarsi priva di autonomia – con la conseguenza che il numero dei relativi dipendenti va sommato a quello dei lavoratori operanti presso l’unità produttiva a cui la medesima fa capo – se la stessa ha scopi puramente strumentali e ausiliari rispetto ai fini produttivi dell’impresa (Pret. Milano 30/4/99, est. Vitali, in D&L 1999, 716)
- Deve escludersi che il conseguimento della pensione di anzianità nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento integri, nell’area della tutela reale, una causa di impossibilità della reintegrazione del lavoratore licenziato nel proprio posto di lavoro. Il godimento della pensione di anzianità può avere invece rilievo unicamente ai fini della liquidazione del risarcimento danno subito per effetto del licenziamento illegittimo (Cass. 20/4/99 n. 3907, pres. Lanni, est. Picone, in D&L 1999, 687)
- L’art. 4, 2° comma, L. 11/5/90 n. 108, che esclude dall’area di applicazione delle tutele contro il licenziamento i prestatori di lavoro ultra sessantenni in possesso dei requisiti pensionistici deve essere interpretato come riferibile unicamente a coloro che hanno diritto alla pensione di vecchiaia (Cass. 20/4/99 n. 3907, pres. Lanni, est. Picone, in D&L 1999, 687)
- La reintegrazione del lavoratore, disposta in conseguenza di un licenziamento illegittimo, è incoercibile limitatamente all’assegnazione delle mansioni. E’ invece illecito il comportamento datoriale, consistente nel rifiuto della fisica riammissione in azienda, che configura l’elusione di una misura cautelare a difesa del credito, punibile ai sensi dell’art. 388 cpv., c.p. (Pret. Catanzaro 19/3/99, est. Brawin, in Riv. Giur. lav. 2000, pag. 315, con nota di Gargiulo, Sulla sanzionabilità ex art 388 cpv. c.p. dell’omessa reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato)
Requisiti dimensionali
- Trova applicazione l’art. 1, co. 3, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 nell’ipotesi in cui il datore di lavoro raggiunga la soglia dimensionale di cui all’art. 18, co. 8 e 9, St. lav. per effetto di una vicenda di natura successoria scaturente da un contratto di affitto di azienda, sebbene tale fattispecie non sia prevista espressamente dal legislatore, che ai fini dell’applicazione del d.lgs. n. 23/2015, contempla esclusivamente l’ipotesi in cui l’integrazione del suddetto requisito dimensionale sia avvenuta in virtù della costituzione di nuovi rapporti di lavoro subordinato (dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 ossia dal 7.3.2015). (Trib. Trento 8/5/2018, Giud. Flaim, in Riv. It. Dir. lav. 2018, con nota di A. Ingrao, “Il giustificato motivo nel Jobs Act: ambito applicativo, ragione organizzativa e confini con il licenziamento nullo”, 776)
- In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale ovvero di quella obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata l’invalidità, fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dalla legge n. 300 del 1970, articolo 18 costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. (Cass. 7/5/2013 n. 10554, Pres. Roselli Rel. Garri, in Lav. nella giur. 2013, 739)
- La dimostrazione della sussistenza o meno del requisito dimensionale previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori ai fini della c.d. tutela reale può essere data anche con prova testimoniale. Ogni valutazione sul punto è di competenza del giudice di merito, al quale è rimessa la valutazione delle risultanze istruttorie, così come la scelta, tra esse, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione. (Cass. 5/11/2012 n. 18296, Pres. Roselli Rel. Filabozzi, in Lav. nella giur. 2013, 89)
- Nel computo dell’organico aziendale, ai fini dell’individuazione di tutela da accordare al lavoratore nel caso di licenziamento dichiarato illegittimo, i lavoratori a tempo parziale devono essere computati in proporzione all’orario svolto, rapportato al tempo pieno e l’arrotondamento opera per le frazioni di orario eccedenti la somma degli orari individuati a tempo parziale corrispondente a unità intere di orario a tempo pieno. (Cass. 25/10/2012 n. 18287, Pres. Roselli Rel. Arienzo, in Lav. nella giur. 2013, 90)
- Nel caso di licenziamento illegittimo, a seguito di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con sentenza 3 aprile 1997, n. 96, anche nel caso del rapporto di lavoro nautico deve farsi luogo, a seconda della consistenza dell’organico aziendale, alla tutela obbligatoria ovvero a quella reale, a tal fine dovendosi tenere conto di tutto il personale impiegato dalla datrice di lavoro. (Cass. 16/4/2012 n. 5947, Pres. Lamorgese Rel. Berrino, in Lav. nella giur. 2012, 721)
- Ai fini della operatività della tutela reale contro i licenziamenti individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va effettuato sulla base del criterio della normale occupazione, il quale implica il riferimento all’organigramma produttivo o, in mancanza, alle unità lavorative necessarie, secondo la normale produttività dell’impresa, valutata con riguardo al periodo di tempo antecedente al licenziamento. (Cass. 17/2/2012 n. 2315, Pres. Amoroso Rel. Nobile, in Lav. nella giur. 2012, 509)
- Il fatto che si sia in presenza di imprese appartenenti al medesimo gruppo non è, di per sé solo, sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti a un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso tra un lavoratore e una di esse, si debbano estendere anche all’altra, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare (anche all’eventuale fine della valutazione di sussistenza del requisito numerico per l’applicabilità della tutela c.d. reale del lavoratore licenziato) un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione ricorre ogni volta che vi sia una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un’unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale e ciò venga accertato in modo adeguato, attraverso l’esame delle attività delle imprese gestite formalmente da quei soggetti; il ché deve rivelare l’esistenza dei seguenti requisiti: a) unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle singole imprese, nel senso che la stessa si sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori. (Trib. Milano 24/1/2011, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2011, 420)
- Ai fini della ricorrenza del requisito numerico ex art. 18 SL devono essere computati i lavoratori che, pur formalmente inquadrati nello schema contrattuale dei rapporti di collaborazione a progetto, prestavano un’attività lavorativa connotata dai tratti della subordinazione. (Trib. Milano 11/3/2010, Est. Vitali, in D&L 2010, con nota di Giuseppe Bulgarini d’Elci, “Sul giustificato motivo oggettivo nell’ambito di un’impresa multinazionale e sulla compatibilità ai fini dell’art. 18 SL di collaboratori e progetti fittizi”, 586)
- In caso di licenziamento illegittimo, l’onere di provare l’inesistenza del requisito dimensionale previsto dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, e quindi l’impossibilità di reintegrare nel suo posto il lavoratore licenziato, grava sul datore di lavoro e non sul prestatore del lavoro. (Cass. Sez. Un. 10/1/2006, n. 141, Pres. Carbone Est. Roselli, in Orient. Giur. Lav. 2005, 894, e in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Giuseppe Cannati, Sul lavoratore non grava l’onere della prova dell’esistenza del requisito dimensionale previsto dall’art. 18 SL, 215)
- In caso di controversia sulla legittimità di un licenziamento grava sul datore di lavoro, in applicazione del principio della vicinanza della prova, l’onere di provare la sussistenza dei requisiti occupazionali che escludono l’applicazione della disciplina generale prevista dall’art. 18 SL. (Trib. Napoli, sez. distaccata Ischia, 27/1/2005, ord., Est. Simeoli, in D&L 2005, con nota di Giuseppe Bulgarini d’Elci, “In tema di onere probatorio per la tutela reale”, 232)
- Con riguardo alla richiesta del lavoratore di essere reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) per invalidità del licenziamento, legittimamente il giudice può desumere la sussistenza del requisito dimensionale previsto dall’art. 35 della stessa legge per la reintegrazione dalla mancata contestazione specifica, da parte del datore di lavoro, in ordine alle allegazioni del lavoratore, che la stessa richiesta di reintegrazione implica. (Cass. 23/4/2004 n. 7735, Pres. Mileo Rel. Celentano, in Dir. e prat. lav. 2004, 2533)
- Ai fini dell’applicazione della tutela reale, le dimensioni dell’impresa vanno accertate sulla base del criterio della normale occupazione, ossia delle unità necessarie secondo la normale produttività dell’impresa nel periodo anteriore al licenziamento. Ne consegue che non possono comprendersi nel calcolo dello stabile e normale livello occupazionale gli assunti con contratti a termine in numero sempre variabile e con durata limitata del rapporto nel periodo di riferimento. (Corte d’appello Milano 9/2/2004, Pres. Mannacio Rel. Sbordone, in Lav. nella giur. 2004, 1007)
- Ai fini dell’applicabilità dell’art. 18 della legge 300 del 1970, l’onere di provare i requisiti dimensionali dell’azienda è sempre a carico del lavoratore ( quale che sia la sua posizione nel giudizio; attore o convenuto). Il giudice può tuttavia ritenere provata la sussistenza di tale requisito sulla sola base del rifiuto del datore di lavoro di ottemperare all’ordine di esibizione del libro matricola. (Cass. 1/9/2003 n. 12747, Pres. Dell’Anno Rel. Filadoro, in Dir. e prat. lav. 2004, 288)
- In relazione al calcolo del numero dei lavoratori occupati dall’impresa, ai fini dell’applicabilità o meno del regime di tutela reale di cui all’art. 18 SL, i dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale devono essere computati nel complesso del numero dei lavoratori in proporzione all’orario svolto, secondo quanto previsto dall’art. 6 D. Lgs. 25/2/2000 n. 61. Allorchè, ai medesimi fini, il lavoratore sostenga che debba tenersi conto non dell’orario risultante dalla documentazione relativa ai dipendenti a part-time, ma del maggiore orario effettivamente svolto dagli stessi, il relativo onere della prova incombe sul lavoratore. (trib. Milano 23/6/2003, Est. Cincotti, in D&L 2003, 993, con nota di Andrea Bordone, “In tema di part-time e computo dei dipendenti”)
- Nel giudizio per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, il documento contenente l’elenco dei dipendenti, ancorchè mancante di sottoscrizione, è prova idonea a dimostrare che il numero di dipendenti dell’impresa è superiore al limite fissato dal legislatore per la tutela del diritto del lavoratore illegittimamente licenziato alla reintegrazione nel posto di lavoro. (Cass. 27/3/2003 n. 4666, Pres. Prestipino Rel. Lamorgese, in Giur. It. 2003, 2013, con nota di Margherita Dominici, “Note sulla ripartizione dell’onere della prova nell’accertamento del limite dimensionale dell’impresa licenziante e sull’efficacia probatoria del documento non sottoscritto”)
- In tema di rapporto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia stata accertata l’ invalidità, grava sul datore di lavoro-sia se attore sia se convenuto in giudizio-l’onere di eccepire o provare l’inesistenza del requisito occupazionale e perciò l’impedimento all’applicazione dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970. (Cass. 17/5/2002, n. 7227, Pres. Senese, Rel. Filadoro, in Giur. italiana 2003, 456, con nota di Nicola Miranda, Licenziamenti individuali ed onere della prova sul requisito dimensionale dell’impresa, in D&L 2002, 675)
- L’onere probatorio che grava sul lavoratore in relazione alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione della tutela reale non può essere concepito secondo una rigida applicazione del principio di cui all’art. 2697 c.c.. Qualora il lavoratore abbia dedotto in ricorso il possesso da parte del datore di lavoro del requisito numerico per l’applicazione dell’art. 18 SL, la contestazione circa l’effettiva sussistenza di tale requisito soggiace al regime delle preclusioni previste dall’art. 416 c.p.c. e deve perciò essere dedotta nella memoria difensiva. (Trib. Milano 31/10/2001, Est. Vitali, in D&L 2002, 217, con nota di Andrea Bordone, “Regime di stabilità ed onere della prova”)
- Nel computo del dato numerico previsto come criterio dimensionale dell’unità produttiva ai fini dell’applicabilità dello Statuto dei Lavoratori e in particolare, del regime di stabilità reale ex art. 18 l. n. 300/70, il numero dei lavoratori va accertato con riguardo al criterio della normale occupazione, il quale implica il riferimento all’organigramma produttivo o, in mancanza, alle unità lavorative necessarie secondo la normale produttività dell’impresa, valutata con riguardo al periodo occupazionale antecedente la data dell’intimazione del recesso (Cass. 12/10/00, n. 13625, pres. Ianniruberto, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1078)
- Per l’accertamento del c.d. requisito dimensionale, ai fini dell’applicabilità del regime di stabilità reale del rapporto ai sensi degli art. 18 e 35, l. n. 300/70, occorre far riferimento non soltanto ai lavoratori dipendenti in senso stretto, ma anche alle unità lavorative impiegate nel normale processo produttivo dell’impresa, per le quali ex actis non possa escludersi, per le modalità concrete della prestazione, la natura subordinata del rapporto (Cass. 26/8/00, n. 11182, pres. Trezza, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 648)
- In caso di impugnazione del licenziamento e di richiesta di reintegrazione in servizio, grava sul datore di lavoro l’onere di eccepire e provare l’esistenza dei requisiti occupazionali che impediscono l’applicazione della disciplina generale stabilita dall’art. 18 SL (Cass. 22/1/99 n. 613, pres. De Tommaso est. Foglia, in D&L 1999, 675, n. Ferreri, Requisito dimensionale e onere della prova)
- In caso di licenziamento, grava sul lavoratore che invochi la reintegrazione in servizio ai sensi dell’art. 18 SL, così come modificato dalla L. 11/5/90 n. 108, l’onere di dimostrare la sussistenza dell’elemento dimensionale richiesto per l’applicazione della norma in questione (Cass. 1/10/97 n. 9606, est. Putaturo, pres. Panzarani, in D&L 1998, 472. In senso conforme, v. Cass. 22/11/99 n. 12926, pres. Lanni, in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 633, con nota di Granata, Organizzazione di tendenza, contratto di lavoro subordinato e licenziamento individuale: il caso del telefono Azzurro; Cass. sez. lav. 10 novembre 1999 n. 12492, pres. Sciarelli, est. Vidiri, in D&L 2000, 160, n. Muggia, Società collegate e onere probatorio sulle dimensioni dell’impresa: il formalismo come unico criterio interpretativo; Trib. Agrigento 11 febbraio 2000, est. Pilone, in D&L 2000, 789)
Risarcimento del danno in genere
- Il c.d. aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto ed è dunque rilevabile d’ufficio dal Giudice se le relative circostanze di fatto risultano ritualmente acquisite al processo. Per tale ragione, l’eccezione di detrazione dell’aliunde perceptum non è subordinata alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino ex actis. (Cass. 16/2/2021 n. 4056, Pres. Arienzo Rel. Blasutto, in Lav. nella giur. 2021, 548)
- In caso di licenziamento illegittimo, la decorrenza dell’indennità risarcitoria si produce a partire dalla data dell’avvenuto licenziamento e non da quella della notifica del ricorso di primo grado. (Cass. 14/1/2021 n. 546, ord., Pres. Balestrieri Rel. Pacilli, in Lav. nella giur. 2021, 418)
- È costituzionalmente illegittimo l’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015 nella parte in cui stabilisce che in caso di licenziamento illegittimo per vizi formali e procedurali l’indennità risarcitoria sia quantificata in modo automatico e fisso in una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio. (Corte Cost. 16/7/2020 n. 150, Pres. Cartabia Est. Sciarra, in Lav. nella giur. 2020, con nota di C. Cester, Una pronuncia scontata: vizi formali e procedurali del licenziamento e inadeguatezza delle sanzioni, 964)
- In caso di licenziamento individuale, il compenso per lavoro subordinato o autonomo, percepito durante il periodo intercorrente tra il proprio licenziamento e la sentenza di annullamento relativa, non implica la riduzione corrispondente del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo, se e nei limiti in cui quel lavoro risulti, comunque, compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito del licenziamento. Viceversa, quando si affermi il diritto al ripristino del rapporto di lavoro, al lavoratore spetta un risarcimento commisurato alle retribuzioni non percepite, ma al suddetto importo sono deducibili i ricavi che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa e resi possibili, quindi, solo dalla sua interruzione. (Cass. 18/4/2016 n. 7685, Pres. Macioce Est. Balestrieri, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di C. de Martino, “Aliunde perceptum e collaborazioni compatibili con l’attività lavorativa cessata”, 55, e in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2017, II, con nota di G.F. Tempesta, “I limiti di applicabilità della compensatio lucri cum damno e la (non) detraibilità dell’aliunde perceptum per attività lavorativa preesistente al licenziamento”, 91)
- L’accertata illegittimità del recesso non determina effetti risarcitori “ulteriori” rispetto a quelli previsti dall’art. 8 della legge n. 604/66, salvo le ipotesi di dolo o colpa grave del datore di lavoro. (Trib. Milano 10/12/2013, Giud. Di Leo, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Daniela Zanetto, 904)
- È possibile tenere conto del c.d. “aliunde perceptum”, come fatto sopravvenuto dedotto nel primo atto utile, anche nel giudizio di rinvio, allorquando, come nella fattispecie, solo in occasione del suo svolgimento sia stato possibile rilevare una tale circostanza. (Cass. 29/11/2013 n. 26828, Pres. Miani Canevari Rel. Berrino, in Lav. nella giur. 2014, 177)
- La figura di cui all’art. 18, comma 5, l. n. 300/1970 si deve intendere come una ipotesi di dimissioni per giusta causa del lavoratore con quantificazione legislativa in quindici mensilità dell’indennità sostitutiva del preavviso. (Trib. Milano 23/2/2012, Giud. Di Leo, in Lav. nella giur. 2012, 513)
- Sussistono le condizioni normative per la rimessione degli atti al Primo Presidente perché valuti l’opportunità di assegnare alle Sezioni Unite il contrasto in ordine all’obbligo di versare le sanzioni civili sulla contribuzione dovuta in seguito alla declaratoria di illegittimità del licenziamento in ragione della configurabilità o meno, nel periodo compreso tra il licenziamento dichiarato illegittimo e l’ordine di reintegra, della fattispecie del ritardo nell’adempimento dell’obbligazione contributiva. (Cass. 22/11/2013 n. 26243, Pres. Vidiri Est. Nobile, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Agostino Di Feo, 347)
- # In caso di licenziamento illegittimo annullato dal giudice, il risarcimento dei danni ex art. 18 della legge n. 300 del 1970 è commisurato fino alla reintegrazione nel posto di lavoro. Ne consegue che va cassata la decisione con cui il giudice di merito abbia limitato l’entità risarcitoria al compimento del 65° anno di età, epoca del pensionamento, a prescindere dal fatto che quest’ultimo effettivamente vi sia stato o meno. (Cass. 2/2/2012 n. 1462, Pres. Miani Canevari Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Gianluigi Girardi, 1085)
- Posto che anche in assenza dell’impugnazione del licenziamento non viene meno il diritto di richiedere il risarcimento dei danni conseguenti alla risoluzione del rapporto di lavoro, il datore di lavoro ha comunque l’onere di provare la legittimità del recesso, ossia del fatto estintivo dell’altrui pretesa. (Cass. 20/6/2011 n. 13496, Pres. Lamorgese Rel. Balestrieri, in Lav. nella giur. 2011, 953)
- In caso di licenziamento della lavoratrice madre i danni risarcibili subiti, in assenza di diversa assunzione e deduzione istruttoria, devono essere identificati nella mancata retribuzione percepita dalla dipendente a causa del forzato allontanamento dal luogo di lavoro. (Trib. Trapani 9/6/2010, Giud. Antonelli, in Lav. nella giur. 2010, 953)
- L’art. 5, comma 6, Ccnl Comparto Sanità – 2 Biennio Economico 2000-2001 va interpretato nel senso che nel periodo di 15 giorni di ferie aggiuntive da usufruirsi in una unica soluzione, ivi previsto per il personale esposto al rischio radiologico, vanno ricompresi e restano quindi assorbiti le festività, i giorni domenicali e il sabato, per coloro i quali prestano servizio in turni di cinque giorni settimanali, ricadenti in tale periodo. (Trib. Trieste 17/5/2010, Giud. Rigon, in Lav. nella giur. 2010, 844)
- Un titolo, anche di formazione giudiziale, non può considerarsi esecutivo se non quando consente la determinazione degli importi dovuti o perché già indicati nel proprio testo, o perché comunque determinabili agevolmente in base agli elementi numerici contenuti in quel testo attraverso operazioni aritmetiche elementari, oppure predeterminati per legge, senza fare ricorso a elementi numerici ulteriori che non risultino dal testo della pronunzia. Pertanto, è nullo il precetto intimato al datore di lavoro per il risarcimento in caso di licenziamento illegittimo se la sentenza, posta a base del precetto, condanna l’impresa a pagare al lavoratore un certo numero di mensilità senza precisare l’importo di ciascuna di esse. (Cass. 28/4/2010 n. 10164, Pres. Roselli Rel. Monaci, in Lav. Nella giur. 2010, 725, e in in Orient. Giur. Lav. 2010, 489)
- Il trascorrere di oltre due anni dal licenziamento alla proposizione dell’azione giudiziaria comporta una mora in capo al lavoratore licenziato il quale, anche per sua colpa risulta aver aggravato il danno a lui derivante con conseguente riduzione dell’ammontare del risarcimento ai sensi dell’art. 1227 c.c. per il periodo corrispondente al ritardo. Tale riduzione di carattere temporale si applica anche all’obbligo contributivo. (Corte app. Milano 25/11/2009, Pres. Ruiz Est. Curcio, in D&L 2009, con nota di Enrico U.M. Cafiero, “Riduzione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c. e contestuale deroga all’obbligo contributivo”, 1039)
- Per retribuzione globale di fatto, utile ai fini della quantificazione sia del risarcimento del danno che dell’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, deve intendersi quella che il lavoratore avrebbe effettivamente percepito se avesse lavorato, con la sola esclusione dei compensi eventuali, occasionali ed eccezionali legati non all’effettiva presenza in servizio, ma a particolari modalità di svolgimento della prestazione. (Cass. 27/10/2009 n. 22649, Pres. Sciarelli Est. Monaci, in D&L 2009, con nota di Andrea Bordone, “Licenziamento illegittimo e risarcimento del danno: la retribuzione globale di fatto”, 1037, e in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di M. M. Mutarelli, “L’applicazione dell’art. 18 St. Lav. al licenziamento illegittimo del lavoratore marittimo”, 784)
- Le somme dovute dal datore di lavoro al lavoratore in esecuzione della sentenza che ordina la reintegrazione nel posto di lavoro costituiscono, ai sensi dell’art. 18 l. n. 300/1970 (nel testo introdotto dalla l. n. 108/1990), risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittimo licenziamento; ne consegue che il relativo credito, pur essendo connesso a un rapporto di lavoro e rientrando nell’ambito previsionale dell’art. 429 c.p.c., comportante il cumulo tra interessi e risarcimento del danno da rivalutazione monetaria, non ha natura retributiva ed è pertanto estraneo alla previsione di cui all’art. 22n, comma 36, l. n. 724/1994, che tale cumulo esclude. (Cass. 21/8/2009 n. 18608, Pres. De Luca Est. Bandini, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Federico Siotto, “Incompatibilità e decadenza del dipendente pubblico: dietro il licenziamento illegittimo sta ‘in agguato la dura moneta’ del cumulo”, 413)
- E’ ammissibile l’esercizio in corso di causa dell’opzione sostitutiva alla reintegrazione ex art. 18 c. 5, SL; non è deducibile dall’ammontare del risarcimento previsto dall’art. 18 cit. il sopraggiunto trattamento pensionistico. (Trib. Bari 11/6/2009, Est. Napoliello, in D&L 2009, 783)
- Dall’ammontare del risarcimento del danno ex art. 18, L. n. 300/1970 vanno detratti gli importi (aliunde perceptum) che il lavoratore ha percepito per aver svolto, nel periodo successivo alla risoluzione del rapporto, un’attività remunerata. Ma, poiché il lavoratore è obbligato a restituire all’ente erogante la pensione percepita a seguito della risoluzione del rapporto, il relativo importo non può considerarsi aliunde perceptum. (Cass. 23/1/2009 n. 1707, Pres. Ianniruberto Rel. Cuoco, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Raffaele Garofalo, 589)
- Il lavoratore ingiustamente licenziato, che non abbia ottenuto l’adempimento della sentenza di reintegra e del correlativo risarcimento del danno, ha diritto al risarcimento del danno ulteriore qualificabile come danno morale, ove provi il patema conseguente all’incertezza determinata dall’impossibilità di poter mantenere la sua famiglia e alla necessità di ricorrere a prestiti; tale danno morale può essere quantificato in via equitativa in misura proporzionale alla retribuzione (nella fattispecie liquidato in 400 euro mensili pari all’incirca il 40% della retribuzione in godimento). (Trib. Milano 23/12/2008, Est. Di Leo, in D&L 2009, con nota di Stefano Muggia, “L’art. 18 SL e il risarcimento del danno ulteriore rispetto alle retribuzioni”. 819)
- Ai fini della ricostruzione del diritto del lavoratore al risarcimento del danno in termini di mora del datore di lavoro ai sensi dell’art. 1206 c.c., pur qualificandosi il licenziamento (successivamente divenuto) illegittimo come rifiuto della prestazione, questo non può valere a sostituire la necessaria offerta della prestazione stessa da parte di colui che vi è tenuto, indispensabile perché dal rifiuto scaturisca l’obbligazione risarcitoria. Vale a mettere in mora il datore di lavoro, perché è qualificabile come offerta della prestazione, la notifica dell’atto introduttivo del giudizio ex art. 414 c.p.c., per cui il diritto al risarcimento del danno per il lavoratore decorre da quella data ed è commisurato alle retribuzioni perdute sino al reintegro o al legittimo collocamento a riposo. (Cass. 28/5/2008 n. 13980, Pres. Sciarelli Est. Ianniello, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Fabrizio De Falco, “Sentenze di accoglimento della Corte Costituzionale e risarcimento del danno da licenziamento illegittimo (sopravvenuto)”, 186)
- E’ sicuramente applicabile in tutti i casi di continuità giuridica del rapporto di lavoro il principio secondo il quale “in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo a norma della l. n. 300 del 1970, art. 18, commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento fino alla riammissione in servizio, non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla legge, sicché le utilità economiche che il lavoratore ne trae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operatività della regola della compensatio lucri cum damno”, Cass. 8/5/2008 n. 11373, Pres. Sciarelli Rel. Picone, in Lav. nelle P.A. 2008, 645)
- Il danno costituito dalla lesione all’integrità psico-fisica del lavoratore causato esclusivamente dall’illegittimità del licenziamento – evento che, in quanto tale, rientra nella dialettica delle relazioni che si svolgono nell’impresa – va identificato in quello conseguente alla mancanza del lavoro e della relativa retribuzione, per cui, costituendo conseguenza solo mediata e indiretta (e, quindi, non fisiologica e non prevedibile) del licenziamento, non è risarcibile. Solo in caso di licenziamento ingiurioso (o persecutorio o vessatorio), detto danno è risarcibile, trovando la sua causa, immediata e diretta, non nella perdita del posto di lavoro ma nel comportamento intrinsecamente illegittimo del datore di lavoro, occorrendo, peraltro, la dimostrazione da parte del lavoratore – sul quale incombe il relatrivo onere probatorio – non solo dell’illegittimità del licenziament, ma anche del carattere ingiurioso (o persecutorio o vessatorio) del licenziamento stesso, nonché dell’avvenuta lesione dell’integrità psico-fisica. (Cass. 5/3/2008, n. 5927, Pres. Senese Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2008, 729, e in dir. e prat. lav. 2008, 2314)
- Quale parametro del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo e dell’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro il legislatoreha assunto la retribuzione mensile globale di fatt, la cui nozione ricomprende anche i ratei di tutte le poste retributive corrisposte in modo continuativo, ancorché con cadenza ultramensile, ivi compreso il rateo Tfr; il detto risarcimento e la detta indennità devono determinarsi al netto della contribuzione previdenziale e dell’imposizione fiscale. (Trib. Reggio Emilia 30/1/2008, Est. Strozzi, in D&L 2008, 595)
- Nel caso di licenziamento illegittimo annullato dal giudice con sentenza reintegratoria che ricostituisce il rapporto con efficacia ex tunc, poiché rileva la continuità giuridica del rapporto piuttosto che la prestazione di fatto resa impossibile dal rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione, deve escludersi il diritto del lavoratore alla pensione di anzianità in ragione della incompatibilità di questa con il rapporto di lavoro. A ciò non osta la circostanza che il lavoratore abbia optato per l’indennità sostitutiva ex art. 18 comma quinto della L. n. 300 del 1970, rinunciando alla effettiva protrazione del rapporto, rilevando la sola esistenza ed efficacia giuridica del rapporto al momento della domanda di pensionamento; ne consegue, pertanto, in entrambi i casi, che la sopravvenuta declaratoria di illegittimità del licenziamento travolge il diritto al pensionamento con efficacia ex tunc e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione. (Cass. 25/1/2008 n. 1670, Pres. Mattone Est. D’Agostino, in Lav. nella giur. 2008, 522)
- Il datore di lavoro, il quale, ai fini della prova dell’aliunde perceptum, svolga istanze istruttorie finalizzate a ottenere l’ordine di esibizione al lavoratore del libretto di lavoro e delle dichiarazioni dei redditi e l’ordine d’acquisizione presso l’Inps o l’ufficio di collocamento di documentazione relativa a eventuali rapporti di lavoro che il lavoratore abbia reperito medio tempore, deve dedurre elementi relativi all’esistenza e al contenuto di tali documenti. Diversamente le relative istanze hanno fini meramente esplorativi e devono essere respintie. (Cass. 9/1/2008 n. 207, Pres. De Luca Est. Miani anevari, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, “Licenziamento illegittimo, determinazione del risarcimento del danno e oneri di allegazione e di diligenza delle parti”, 303)
- Nei rapporti di lavoro sottratti al regime della tutela reale ai sensi dell’art. 18, L. 20 maggi 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, L. 11 maggio 1990, n. 108, qualora il datore di lavoro, a seguito di richiesta del lavoratore, non provveda a indicare i motivi del licenziamento entro i termini previsti dall’art. 2, L. 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dall’art. 2, L. 11 maggio 1990, n. 108, il recesso non produce effetti sulla continuità del rapporto e il lavoratore ha diritto – trattando di contratto a prestazioni corrispettive – non già alle retribuzioni ma al risarcimento del dann, da determinarsi secondo le regole generali dell’inadempimento delle obbligazioni. (Trib. Milano 13/12/2007, Est. Beccarini, in Lav. nella giur. 2008, 535)
- Nel caso del lavoratore licenziato in applicazione di una disposizione legislativa di prepensionamento (nel caso specifico: art. 3 l. n. 270/1988), successivamente dichiarata incostituzionale (sent. n. 60/1991), il diritto al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non percepite non spetta a far data dal licenziamento, difettando il presupposto dell’imputabilità dell’illecito, ma dall’offerta della prestazione lavorativa, nella specie avvenuta con la notifica della domanda giudiziale. Nel medesimo caso, la domanda di risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni non percepite dal lavoratore licenziato non può essere diminuita degli importi ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, poiché non opera la regola della compensatio lucri cum damno, derivando dalla legge l’ammissione al trattamento previdenziale in relazione alla perdita del posto di lavioro, con la conseguenza che la declaratoria di illegittimità travolge ex tunc il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione dell’indebito da parte del soggetto erogatore della pensione. (Cass. 13/11/2007 n. 23565, Pres. Ciciretti Est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Baldieri, “Licenziamento annullato per factum principis: i criteri per la determinazione del risarcimento”, 635)
- Il lavoratore, una volta proposta tempestivamente la domanda giudiziale volta a ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 SL, non è soggetto a ulteriori oneri di diligenza, sicché la mancata iscrizione nelle liste di collocamento, la mancata ricerca di una nuova occupazione e il rifiuto di una proposta conciliativa non sono causa di riduzione del danno. (Cass. 9/10/2007 n. 21066, Pres. Ciciretti Est. Cuoco, in D&L 2008, con nota di Andrea Bordone, “Licenziamento illegittimo, determinazione del risarcimento del danno e oneri di allegazione e di diligenza delle parti”, 303)
- La clausola penale connessa a un patto di stabilità relativa del rapporto di lavoro assolve alla funzione di liquidazione preventiva e convenzionale del danno da inadempimento; prescindendosi quindi dalla prova dell’esistenza effettiva del danno, nessun rilievo può attribuirsi all’aliunde perceptum per il periodo di vigenza della clausola medesima. (Trib. Modena 13/7/2007, Est. Ponterio, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Marta Vendramin, 502)
- Nel caso di stipula di un patto di stabilità relativa del rapporto di lavoro con connessa penale risarcitori, il danno coperto da quest’ultima è circoscritto alla durata del patto medesimo. (Trib. Modena 13/7/2007, Est. Ponterio, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Marta Vendramin, 502)
- Deve escludersi la cumulabilità del risarcimento deldanno collegato all’operatività di una clausola penale annessa a un patto di stabilità relativa del rapporto di lavoro, con quello da licenziamento illegittimo, ex art. 1, comma 4, L. n. 300 del 1970, avendo la predetta clausola effetto ex art. 1382 c.c., di limitare il risarcimento alla prestazione promessa. Pertanto, un eventuale cumulo oltre a essere contrario alla stessa ratio della penale, quale liquidazione preventiva e convenzionale del danno da inadempimento, realizzerebbe un duplice risarcimento per la medesima condotta inadempiente, configurando un indebito arricchimento del creditore. (Trib. Modena 13/7/2007, Est. Ponterio, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Marta Vendramin, 502)
- La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sesni dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970. ne consegue che, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall’impugnazione è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, facendo valere i relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l’atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile. (Cass. 10/1/2007 n. 245, Pres. De Luca Est. Figuralli, in Lav. nella giur. 2007, 1035)
- In tema di conseguenze patrimoniali derivanti dal licenziamento illegittimo, il datore di lavoro, per poter essere ammesso a dedurre e a provare tardivamente circostanze idonee a dimostrare l’aliunde perceptum da parte del lavoratore, è tenuto a provare anche di non aver avuto conoscenza delle stesse e di avere, una volta acquisita tale cognizione, formulato le relative deduzioni nell’osservanza del principio, desumibile dagli artt. 414, 416 e 420 c.p.c., della tempestività di allegazione dei fatti sopravvenuti, attraverso il necessario impiego, a questo fine, sotto pena di decadenza, del primo atto difensivo utile successivo. (Cass. 20/6/2006 n. 14131, Pres. Sciarelli Est. Vidiri, in Riv. it. dir. lav. 2007, 137 e in Lav. nella giur. 2007, con commento di Fabio Massimo Gallo, 477)
- In caso di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo per il quale non sia applicabile la disciplina della cosiddetta stabilità reale, la determinazione, tra il minimo e il massimo, della misura dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 8 della L. n. 604/1966 (sostituito dall’art. 2 della L. n. 108/1990), spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria. (Cass. 8/6/2006 n. 13380, Pres. Sciarelli Est. La Terza, in Lav. nella giur. 2006, 1126)
- In tema di conseguenze patrimoniali derivanti dal licenziamento illegittimo, il datore di lavoro, per poter essere ammesso a dedurre e a provare tardivamente circostanze idonee a dimostrare l'”aliunde perceptum” da parte del lavoratore, è tentuto a provare anche di non aver avuto conoscenza delle stesse e di avere, una volta acquisita tale cognizione, formulato le relative deduzioni nell’osservanza del principio, desumibile dagli artt. 414, 416 e 420 c.p.c., della tempestività di allegazione dei fatti sopravvenuti, attraverso il necessario impiego, a questo fine, sotto pena di decadenza, del primo atto difensivo utile successivo. (Nella specie, la S.C., alla stregua dell’enunciato principio, ha rigettato il ricorso del datore di lavoro e confermato l’impugnata sentenza, con la quale era stata rilevata la tardività dell’allegazione, a istanza dello stesso datore di lavoro, delle circostanze attestanti l'”aliunde perceptum” da parte del lavoratore, siccome non allegate, nel corso del giudizio di impugnazione del licenziamento, nel primo atto difensivo utile posteriore all’avvenuta conoscenza di tali fatti, senza la prospettazione di alcuna valida giustificazione al riguardo). (Cass. 20/6/2006 n. 14131, Pres. Sciarelli Est. Vidiri, in Lav. nella giur. 2006, 1130)
- Il licenziamento intimato nell’area della tutela obbligatoria dichiarato illegittimo, nel determinare la cessazione del rapporto di lavoro, comporta per il lavoratore il diritto di percepire anche l’indennità sostitutiva del preavviso in aggiunta all’indennità risarcitoria di cui all’art. 8 L15/7/66 n. 604, come modificato dall’art. 2 L. 11/5/90 n. 108. (Cass. 10/4/2006 n. 13732, Pres. Ravagnani Est. Miani Canevari, in D&L 2006, con nota di Ferdinando Perone, “Licenziamento illegittimo in tutela obbligatoria e diritto all’indennità di preavviso: interviene la Cassazione”, 893)
- La previsione normativa di cui all’art. 18 St. Lav. – secondo la quale il risarcimento del danno che consegue al licenziamento illegittimo è costituito dall’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento fino a quella dell’effettiva reintegrazione – può trovare piena applicazione solo allorchè il lavoratore faccia valere il proprio diritto con una certa tempestività. In caso contrario – come quando il lavoratore agisca in giudizio a distanza di quasi dieci anni dal licenziamento – non può non farsi applicazione dell’art. 1227 c.c. in materia di concorso del fatto colposo del creditore, ancorchè il lavoratore abbia avuto l’accortezza di interrompere la prescrizione con ciò evidenziando la perdurante consapevole volontà di fare valere il proprio diritto. (Trib. Milano 20/2/2006, Est. Tanara, in Lav. nella giur. 2006, 1139)
- Deve ritenersi di essere in presenza di un licenziamento ingiurioso allorchè il datore di lavoro, sia in costanza del rapporto di lavoro che in occasione dell’intimazione del recesso, abbia tenuto nei confronti del primo dipendente un comportamento lesivo dell’onore, del decoro e della dignità dello stesso, come tale idoneo a cagionare un danno risarcibile ex art. 2043 c.c. (Cass. 16/2/2006 n. 11432, Pres. Sciarelli Est. Figurelli, in D&L 2006, con nota di Andrea Bordone, “Licenziamento ingiurioso e risarcimento del danno: anche le condotte antecedenti il recesso possono essere fonte di responsabilità extracontrattuale”, 924)
- Il danno risarcibile per licenziamento illegittimo ai sensi del comma 4 dell’art. 18 St. Lav. Può comprendere tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella dell’esercizio dell’opzione ai sensi del comma 5 dello stesso art. 18 St. Lav., non potendosi configurare un diritto alla retribuzione per il periodo successivo alla comunicazione di voler esercitare l’opzione, per cui il ripristino della attualità del rapporto non è più possibile; infatti dall’esercizio dell’opzione cessa la disponibilità alla ripresa del servizio e viene meno il rapporto sinallagmatico tra retribuzione e prestazione. (Trib. Roma 10/1/2006, Rel. Trementozzi, in Lav. Nella giur. 2006, con commento di Gianluigi Girardi, 905)
- Il risarcimento del danno che consegue al licenziamento illegittimo viene individuato dal legislatore nell’indennità, commisurata alla retribuzione globale di fatto, maturata dal giorno del licenziamento fino a quello di effettiva reintegra. Tuttavia, non si può dubitare che la liquidazione del risarcimento del danno – che da parte del legislatore è determinata in via presuntiva sulla base del mancato guadagno individuato nella retribuzione che il lavoratore avrebbe dovuto percepire – debba rispondere ai principi generali in materia di risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, affinché si tenga conto della sua colpa per non essersi sufficientemente adoperato per reperire altra attività lavorativa. (Trib. Milano 17/5/2005, Est. Atanasio, in Orient. Giur. Lav. 2005, 357)
- In tema di impugnativa di licenziamento in grado di appello, l’eccezione c.d. dell’aliunde perceptum – cioè la deduzione della rioccupazione del lavoratore licenziato al fine di limitare il danno da risarcire a seguito di licenziamento illegittimo – non costituisce eccezione in senso stretto, ma ha carattere di eccezione in senso lato, con la conseguenza che i fatti suscettibili di formare oggetto di tale eccezione sono rilevabili d’ufficio dal giudice d’appello, sempre che l’appellato non abbia tacitamente rinunciato ad avvalersene non avendovi fatto riferimento in alcune delle proprie difese del grado, atteso che l’onere della dettagliata esposizione di tutte le sue difese (imposto dall’art. 436, secondo comma, c.p.c.) non è assolto se nel corso del giudizio l’interessato non dimostri di volersi avvalere della specifica difesa dedotta in primo grado. (Cass. 15/3/2005 n. 5610, Pres. Ciciretti Rel. Roselli, in Lav. nella giur. 2005, 692)
- In caso di recesso inefficace, il lavoratore ha diritto non già alle retribuzioni, ma al risarcimento del danno determinato secondo le regole generale dell’inadempimento delle obbligazioni. La misura di tale risarcimento può essere commisurata alle mancate retribuzioni, con la conseguenza che se il datore offre la prova che l’inadempimento o il ritardo è determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, non è tenuto al risarcimento (art. 1218 c.c.). Dall’ammontare del danno deve essere detratto l’aliudperceptum che il lavoratore può aver conseguito svolgendo una qualsiasi attività lavorativa. (Cass. 15/3/2005 n. 5611, Pres. Ciciretti Rel. De Matteis, in Dir. e prat. lav. 2005, 1632)
- Deve escludersi il diritto al risarcimento del danno, previo accertamento dell’illegittimità del licenziamento a suo tempo intimato al lavoratore, allorchè il datore di lavoro abbia revocato il licenziamento, invitando il lavoratore a riprendere servizio, e il rapporto sia stato ripristinato senza soluzione di continuità, per avere il dipendente ripreso l’attività lavorativa, manifestando così la volontà, ancorchè tacita per fatti concludenti, di accettare la revoca del licenziamento quale proposta contrattuale avente appunto ad oggetto la ricostituzione del rapporto. (CortePres. Ruiz Rel. Sbordone, in Lav. nella giur. 2005, 293) d’appello Milano 1/ 9/2004,
- La generale presunzione di onerosità della prestazione di lavoro ex art. 2094 c.c., basata sui criteri della normalità, apparenza e buona fede, è applicabile non solo a favore del lavoratore, ma anche a carico dello stesso, quando è l’altra parte ad avere interesse a dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro; in tal caso per la determinazione dell’aliunde perceptum il giudice di merito può utilizzare tutti gli elementi di fatto disponibili, compresa la valutazione equitativa. (Nella specie, la S.C ha cassato la sentenza di merito che aveva negato, in una fattispecie di illegittimo licenziamento, la detrazione, dalla somma dovuta al lavoratore ingiustamente licenziato, dell’aliunde perceptum, sull’assunto che il datore di lavoro, pur in presenza di un’attività lavorativa dall’ex dipendente, non aveva fornito la prova che essa era retribuita). (Cass. 3/8/2004 n. 14849, Pres. Senese Rel.Maiorano, in Dir. e prat. lav. 2005, 80, e in Lav. nella giur. 2005, 170)
- Le somme dovute dal datore di lavoro al lavoratore in esecuzione della sentenza che ordina la reintegrazione nel posto di lavoro costituiscono, ex art. 18, legge n. 300 del 1970 (nel nuovo testo introdotto dalla legge 11 maggio 1990 n. 108), risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittimo licenziamento; pertanto, in caso di riforma della sentenza che ordina la reintegrazione del lavoratore licenziato, vuoi per essere legittimo il licenziamento, vuoi perché, pur essendo questo illegittimo, sia esclusa la tutela reale del lavoratore in ragione della natura dell’ente datoriale di lavoro e dell’attività dallo stesso svolta, dette somme non sono dovute, e se corrisposte, sono ripetibili. (Cass. 12/5/2004 n. 9062, Pres. Prestipino Rel. Filadoro, in Lav. e prev. oggi 2004, 1292)
- L’art. 18, quarto comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, nel testo sostituito dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, nel prevedere in caso di invalidità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento stesso, mediante corresponsione di una indennità commisurata alla retribuzione non percepita, stabilisce una presunzione “iuris tantum” di lucro cessante. Presupposto indefettibile per l’applicabilità di tale disposizione, che costituisce una specificazione del generale principio della responsabilità contrattuale, è l’imputabilità al datore di lavoro dell’inadempimento, fatta eccezione per la misura minima del risarcimento, consistente in cinque mensilità di retribuzione, la quale è assimilabile ad una sorta di penale, avente la sua radice nel rischio di impresa. Ne consegue che ove il licenziamento sia intervenuto in un periodo di sospensione del rapporto di lavoro per effetto dell’esercizio, ex art. 1460 c.c., dell’autotutela del lavoratore, che abbia rifiutato di eseguire la propria prestazione a fronte dell’inadempimento di quella del datore di lavoro, non essendo configurabile, per tale periodo, il diritto alla retribuzione, in considerazione della forma di tutela scelta dal lavoratore in sostituzione della normale tutela giurisdizionale, non può operare la predetta presunzione di lucro cessante. Pertanto, in tale ipotesi, correttamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, in caso di invalidità del licenziamento dallo stesso intimato al lavoratore, è limitata al minimo di legge delle cinque mensilità di retribuzione. (Nella specie, il giudice di merito aveva rilevato che l’illegittima estromissione della lavoratrice era durata fino al giorno antecedente a quello nel quale era stata offerta la ripresa dell’attività lavorativa presso la filiale di Mantova. Tale offerta, che se accettata, avrebbe limitato l’estromissione dall’azienda a meno di cinque mesi, era stata valorizzata dal Tribunale per limitare a cinque mensilità di retribuzione la misura del risarcimento del danno. A fronte della contestazione della lavoratrice in ordine all’oggetto dell’offerta, la riassunzione e non già la reintegrazione, la Suprema Corte ha ritenuto tale circostanza idonea ad essere valutata dal giudice di merito, secondo il suo prudente apprezzamento non censurabile in sede di legittimità ove immune da vizi di motivazione, nella quantificazione del danno risarcibile). (Cass. 3/5/2004 n. 8364, Pres. Mattone Rel. Roselli, in Lav. e prev. oggi 2004, 1290)
- In tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto della reintegrazione disposta dal giudice ai sensi dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, il datore di lavoro che, al fine di vedere ridotto il limite legale delle cinque mensilità di retribuzione l’ammontare del suddetto risarcimento, deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non fa valere alcun diritto sostanziale di impugnazione, né propone un’eccezione identificabile come oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte. Pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche ove l’acquisizione sia riconducibile ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte di merito avesse solo in parte fatto corretta applicazione del principio sopra enunciato, ritenendo con criteri presuntivi che la lavoratrice, tenuto conto della sua qualificazione professionale, dell’andamento del mercato del lavoro e del lungo tempo trascorso tra l’illegittimo licenziamento e la domanda di reintegrazione avesse ragionevolmente guadagnato delle somme atte a contenere la misura del danno risarcibile, ma omettendo poi di motivare adeguatamente sulla quantificazione sia del danno che delle somme che avrebbe potuto guadagnare usando l’ordinaria diligenza ai sensi dell’art. 1227 c.c.). (Cass. 20/3/2004 n. 5655, Pres. Prestipino Rel. Maiorano, in Lav. e prev. oggi 2004, 917)
- La dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura stabilità dal quarto comma, con esclusione di ogni rilevanza dei profili del dolo o della colpa nel comportamento del recedente, e cioè per una forma di responsabilità oggettiva atteso che l’irrilevanza degli elementi soggettivi è configurabile, per effetto della rigidità al riguardo della formulazione normativa, solo limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità. La questione relativa alla sussistenza della responsabilità risarcitoria deve invece ritenersi regolata dalle norme del codice civile in tema di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento delle obbligazioni, non introducendo l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori elementi aggiuntivi. Ne consegue l’applicabilità dell’art. 1218 c.c.,(Nella specie, il ricorso della lavoratrice avverso il licenziamento disposto per incapacità fisica all’esercizio delle mansioni, rigettato in primo grado, era stato accolto dal giudice di appello, che, rilevata, in base agli ulteriori accertamenti medici espletati, la non sussistenza di tale incapacità, aveva condannato la società datrice di lavoro anche al risarcimento del danno, non limitato alla misura minima; la Suprema Corte ha confermato la decisione anche con riferimento a tale profilo, osservando che la società datrice di lavoro non aveva fornito la dimostrazione che la avrebbe esonerata, ex art. 1218 c.c., da responsabilità, e precisando che la stessa aveva omesso di valutare adeguatamente le risultanze mediche, eventualmente anche attraverso nuovi accertamenti sanitari). (Cass. 17/2/2004 n. 3114, Pres. Mattone Rel. De Renzis, in Lav. e prev. oggi 2004, 730) secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile.
- In ipotesi di licenziamento illegittimo concernente rapporto di lavoro appartenente all’area della tutela obbligatoria spettano al dipendente sia l’indennità di cui all’art. 8 L. 15/7/66 n. 604, come modificato dalla L. 11/5/90 n. 108. (corte d’Appello Milano 21/10/2003, Pres. Ruiz Est. De Angelis, in D&L 2003, 1008)
- Laddove il licenziamento, indipendentemente dalla sua illegittimità, per la forma e le modalità della sua adozione e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano rappresentino atto ingiurioso, cioè lesivo del decoro, della dignità o dell’onore del lavoratore licenziato, spetta il risarcimento del danno, da liquidarsi in via equitativa, indipendentemente dall’individuazione di un comportamento integrante gli estremi di un reato (nella specie la dipendente era stata licenziata per assenza ingiustificata, dopo che le era stato negato un permesso, dovutole ex art. 4, 1° comma, L. 53/2000, per assistere il fratello che aveva perso la gamba in un gravissimo incidente ed in pericolo di vita, nel contempo insinuando che i motivi fossero altri ed addebitando alla lavoratrice una serie di gravi conseguenze derivate dall’assenza, rivelatesi inesistenti). (Trib. Milano 30/6/2003, Est. Cincotti, in D&L 2003, con nota di Luigi Zezza,. “Licenziamento ingiurioso e risarcimento del danno”)
- In caso di mancata ottemperanza da parte del datore di lavoro all’obbligo di reintegrazione nei confronti di un dipendente, il risarcimento del danno conseguente alla forzata inattività del medesimo è compreso nell’indennitàSt. lav., fatta salva la prova da parte del lavoratore del danno ulteriore da dequalificazione professionale. (Cass. 13/7/2002, n. 10203, Pres. Sciarelli, Est. Vidiri, in Riv. it. dir. lav. 2003, 380, con nota di Marco Lovo, Sul danno da dequalificazione conseguente all’inottemperanza all’ordine di reintegrazione del lavoratore licenziato). spettante ex art. 18, quarto comma
- La tutela risarcitoria ex art. 18 SL ha carattere sanzionatorio (con presunzione assoluta di danno nella misura minima di cinque mensilità), deriva direttamente dall’illegittimità del licenziamento ed ha carattere autonomo rispetto alla tutela ripristinatoria: di conseguenza detta tutela deve essere riconosciuta al dipendente che non voglia o non possa chiedere la reintegrazione. (Corte d’Appello Torino 29/11/2001, Est. Rossi, in D&L 2002, 197, con nota di Maddalena Martina, “Una breve rassegna di giurisprudenza (ed un interrogativo) su licenziamento e procedure concorsuali”)
- Il trattamento pensionistico non costituisce aliunde perceptum detraibile dall’ammontare del risarcimento conseguente all’illegittimità del licenziamento. (Corte d’Appello Napoli 31/5/2001, Pres. Nobile Est. Villani, in D&L 2002, 436)
- Il licenziamento ingiurioso può determinare due diverse forme di risarcimento del danno: quella relativa alla lesione dell’onore e del decoro; e quella, economicamente più rilevante, relativa alla reputazione, e consistente nella conoscenza che i terzi abbiano avuto dei motivi del licenziamento (nella specie la lavoratrice era stata ingiustamente accusata di avere falsificato il contratto di lavoro; e la sentenza d’appello è stata cassata per mancanza di motivazione sull’esistenza del danno alla reputazione) Cass. 1/4/99 n. 3147, pres. Mileo, est. Lupi, in D&L 1999, 653, n. Muggia, Licenziamento ingiurioso e risarcimento danni)
- Nel caso in cui il lavoratore raggiunga l’età pensionabile nelle more del giudizio relativo alla legittimità del licenziamento intimatogli, il rapporto di lavoro rimane in vita e, accertata l’illegittimità del licenziamento, il datore di lavoro è tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva reintegra, salvo che, in epoca successiva al raggiungimento dei requisiti pensionistici, vi sia stato un valido atto di recesso (Cass. 23/2/98 n. 1908, pres. Battimiello, est. Castiglione, in D&L 1998, 747, n. MENSI, Raggiungimento dell’età pensionabile e calcolo del risarcimento da licenziamento illegittimo)
- Il lungo lasso di tempo intercorso tra la data di recesso e l’impugnazione giudiziaria del medesimo non concretizza in nessun caso il concorso di colpa del creditore di cui all’art. 1227 c.c. (Pret. Roma 2/6/97, est. Rossi, in D&L 1998, 377)
- Qualora il giudice, avvalendosi di consulenza medica, ritenga illegittimo il licenziamento motivato da inidoneità fisica sopravvenuta e disponga la reintegrazione nel posto di lavoro, spetta al lavoratore il ristoro dei danni morali solo in presenza di un’ipotesi di reato, mentre l’attribuzione di una somma a titolo di danno biologico è subordinata alla prova dell’esistenza di un aggravamento psico-fisico dello stato di salute e del nesso di causalità fra il comportamento datoriale illegittimo e tale aggravamento (Pret. Milano 15/4/97, est. Peragallo, in D&L 1998, 174, n. NICCOLAI, Illegittimo licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica: i danni risarcibili)
- L’indennità pattuita in sede di transazione, a titolo di incentivo all’esodo a corrispondersi a lavoratore licenziato, non integrando gli estremi del risarcimento di danni cagionati dalla perdita di redditi, non è assoggettabile a tassazione, ai sensi dell’art. 16 DPR 22/12/86 n. 917 (Comm. Trib. Cent. Roma 28/2/97, pres. Scarcella, est. Nottola, in D&L 1997, 825 n. Tagliagambe, Profili di incostituzionalità del decreto Dini in materia di tassazione di sentenze e transazioni di lavoro)
- Nel caso di dichiarazione di illegittimità di un licenziamento, intimato a seguito del mancato rinnovo del nullaosta per il tesserino aeroportuale successivamente concesso, il risarcimento del danno causato al lavoratore per l’illegittimità del licenziamento deve essere quantificato nella misura delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe dovuto percepire dal momento in cui è stato rinnovato il nullaosta e non dal momento del licenziamento (nella fattispecie, si è infatti ritenuto che l’esistenza di un atto motivato della pubblica autorità interrompe il nesso causale fra danno e licenziamento) (Cass. 28/7/94 n. 7048, pres. Benanti, est. Roselli, in D&L 1995, 416, nota MUGGIA, Brevi osservazioni sul licenziamento per ritiro del tesserino aeroportuale e sulla quantificazione del risarcimento del danno)
Questioni di procedura
- L’art. 6, comma 2, L. n. 604 del 1966, nel testo modificato dall’art. 1, comma 38, L. n. 92 del 2012, deve essere interpretato, nel caso di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della L. n. 300 del 1970, e successive modifiche, nel senso che, ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è necessario che, nel termine di centottanta giorni ivi previsto, venga proposto un ricorso secondo il rito di cui ai commi 48 ss. dell’art. 1 della stessa L. n. 92 del 2012 (nella fattispecie la S.C. ha di conseguenza ritenuto inidoneo a evitare l’inefficacia il deposito nel termine di un ricorso ante causam ai sensi dell’art. 700 c.p.c. (Cass. 14/7/2016 n. 14390, Pres. Macioce Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2016, 1015)
- L’applicabilità del rito sommario ex art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012 è retta, al pari della competenza, dal principio della prospettazione, fatti salvi i casi in cui la prospettazione offerta dalla parte ricorrente appaia prima facie artificiosa e volta al solo fine di sottrarre la cognizione della causa al giudice predeterminato per legge. Il rito rimane legato al petitum a prescindere dalle evoluzioni di quest’ultimo nel corso del processo. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- Nel caso in cui il lavoratore, con ricorso ex art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012, denunzi l’esistenza di un organico sufficiente all’applicazione dell’art. 18 St. Lav. o chieda l’applicazione dell’art. 18 deducendo trattarsi di licenziamento vietato o inefficace per difetto di forma, il nuovo rito sommario sarà applicabile e l’eventuale domanda subordinata di tutela debole (ex art. 8 della legge n. 604/1966) rientrerà per trascinamento nel rito speciale. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- La lettura costituzionalmente orientata dell’espressione “questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” utilizzata dal legislatore, impone di considerare rientranti tra dette questioni e quindi ammissibili ex art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012 anche le questioni nelle quali è in contestazione tra le parti l’esistenza di un qualunque vincolo sinallagmatico, nonché le ipotesi in cui è richiesto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro con un soggetto diverso da quello che formalmente ha rivestito tale posizione nel sinallagma contrattuale, ovverosia la fattispecie della interposizione fittizia di manodopera. L’accertamento sulle domande “relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” deve arrestarsi a ciò che è necessario e sufficiente a reggere la domanda principale (l’impugnazione del licenziamento), essendo a questa pregiudiziali e non assurgendo ad autonomo capo di domanda. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- Le domande ultronee che non trovano spazio nell’ambito di applicazione del nuovo processo sommario ex art. 1, comma 47 e ss., l. n. 92/2012 devono esere dichiarate improponibili in rito, con pronuncia che non incide sulla riproponibilità delle stesse con ricorso ordinario. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- Le controversie di cui all’art. 1, comma 47 e 48 l. n. 92/2012 si caratterizzano per l’identità del rapporto di lavoro dedotto in giudizio con quello per cui si chiede la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18 St. lav. con conseguente esclusione, a titolo esemplificativo, di tutte le domande, anche preliminari e incidentali, relative all’accertamento della costituzione di diversi e ulteriori rapporti di lavoro con soggetti terzi rispetto al formale datore di lavoro. L’accertamento di un rapporto di lavoro diverso da quello dedotto in causa richiede, infatti, un’indagine istruttoria che appare incompatibile con la sommatorietà del rito di cui all’art. 1 comma 48 L. 92/2012 e, pertanto, la relativa domanda è inammissibile. (Trib. Milano 25/10/2012, ord., Giud. Scarzella, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1086)
Alla luce di quanto previsto dall’art. 11 D.Lgs. n. 196/2003 i dati acquisiti tramite il trattamento dei dati personali in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono in alcun modo essere utilizzati e il licenziamento che si fonda su di essi è illegittimo. (Trib. Ferrara 21/8/2012, Giud. De Curtis, in Lav. nella giur. 2013, 205) - In caso di licenziamento illegittimo, benché l’aliunde perceptum non integri un’eccezione in senso stretto e, pertanto, sia rilevabile dal giudice anche in assenza di un’eccezione di parte in tal senso, ovvero in presenza di un’eccezione intempestiva, è comunque necessario che la rioccupazione del lavoratore costituisca allegazione in fatto ritualmente acquisita al processo, anche, eventualmente, per iniziativa del lavoratore e non del datore di lavoro. (Trib. Prato 11/4/2012, Est. Consani, in D&L 2012, con nota di Andrea Ranfagni, “Apprendistato: natura, conseguenze sanzionatorie, onere della prova e ricostruzione del rapporto”, 470)
- La mancata proposizione, nell’atto giudiziale di impugnativa del licenziamento, della domanda risarcitoria-contestualmente a quella di reintegrazione nel luogo di lavoro-integra un comportamento di inerzia del riccorrente che preclude, ai sensi dell’art. 1227 c.c., il risarcimento del danno per il periodo in relazione al quale la parte ha limitato la domanda al profilo strettamente reintegratorio, ex art. 18 SL, spettando per contro il risarcimento del danno per il periodo della sentenza fino all’effettiva reintegra. (Trib. Firenze 28/12/2002, Est. Lococo, in D&L 2003, 407, con nota di Irene Romoli, “Licenziamento illegittimo e risarcimento del danno: l’inerzia del lavoratore nel proporre l’azione quale ipotesi di riduzione della misura risarcitoria”)
- Le somme dovute al lavoratore in virtù della sentenza del giudice del lavoro, che ordinando la reintegrazione, condanni il datore di lavoro al pagamento della retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento annullato alla data della sentenza, se non precisamente quantificate, possono essere liquidate in separato procedimento monitorio – senza che si incorra nel divieto del bis in idem – non aprendo, la predetta sentenza, direttamente la via dell’esecuzione forzata, per mancanza dei requisiti di liquidità e certezza di cui all’art. 474 c.p.c. (Trib. Salerno ordinanza 8/3/02, pres. e est. De Stefano, in Lavoro giur. 2002, pag. 642, con nota di Rossi, Riflessioni sui procedimenti in materia esecutiva su sentenza in tema di licenziamento)
- In tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto della reintegrazione disposta dal giudice ai sensi dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, l’eccezione con la quale il datore di lavoro, al fine di vedere ridotto al limite legale delle cinque mensilità di retribuzione l’ammontare del suddetto risarcimento, deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non fa valere alcun diritto sostanziale di impugnazione, né l’eccezione stessa è identificabile come oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore di una parte; pertanto, allorquando vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. 16/8/00, n. 10859, pres. Mercurio, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 775 e e in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1028, con nota di Russo, Licenziamento e risarcimento del danno: una nuova pronuncia della Cassazione in tema di detraibilità dell’aliunde perceptum e percipiendum)
- Nel giudizio di impugnativa di un licenziamento, l’eccezione cosiddetta dell’ aliunde perceptum – vale a dire la deduzione della rioccupazione del lavoratore licenziato al fine di limitare il danno da risarcire a seguito di un licenziamento illegittimo intervenuto nell’area della tutela reale, o anche a seguito di un licenziamento, intimato al di fuori di tale area, che sia inefficace, perché privo dei requisiti formali richiesti dall’art. 2 L. 604/66 (come nella specie, relativa a licenziamento orale in piccola impresa) – non costituisce un’eccezione in senso stretto, atteso che con essa non si introducono fatti diversi da quello che costituisce oggetto del giudizio per effetto della domanda dell’attore. Ne consegue che quando la prova della rioccupazione del lavoratore licenziato risulti ritualmente acquisita al processo, anche se per iniziativa del lavoratore, il giudice ne deve tener conto anche d’ufficio e, in difetto, l’omissione può formare oggetto di un motivo di gravame (Cass. 21/3/00 n. 3345, pres. Genghini, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 467 e in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 133, con nota di Cattani, Sulla valutazione del danno provocato dal licenziamento al lavoratore che, dopo il recesso, abbia trovato una nuova occupazione)
Risarcimento del danno – 5 mensilità
- Il risarcimento contenuto nell’importo minimo di cinque mensilità di retribuzione rappresenta una parte irrinunciabile dell’obbligazione risarcitoria complessiva conseguente all’illegittimo licenziamento (nel regime operante ratione temporis). Detto importo minimo è dovuto quindi anche ove la reintegra, o l’esercizio dell’opzione, intervengano a meno di cinque mesi dal licenziamento invalido; la predeterminazione di un risarcimento minimo, spettante in ogni caso di licenziamento invalido o inefficace, costituisce espressione del legittimo esercizio di discrezionalità politica da parte del legislatore. (Cass. 17/11/2016 n. 23435, Pres. Amoroso Rel. Ghinoy, in Lav. nella giur. 2017, con commento di F. Di Martino, 125)
- La dichiarazione di invalidità del licenziamento, pronunciata nella causa che accerti l’erroneità del giudizio di inidoneità fisica pronunciato dalla commissione medica adita ai sensi dell’art. 5, l. 20/5/70, n. 300, impone l’indagine sulla responsabilità risarcitoria del datore di lavoro sotto il profilo dell’imputabilità del comportamento che ha dato luogo al recesso: tale responsabilità deve ritenersi insussistente, non potendo ascriversi al recedente a titolo di colpa o dolo allorché egli abbia dovuto, al pari del lavoratore, subire il giudizio medico poi risultato erroneo e sia stato costretto ad adeguarsi ad esso operando il recesso. Nondimeno, stante la pronuncia della Corte Costituzionale n. 420/98, il datore di lavoro va ugualmente condannato a corrispondere al lavoratore riassunto in servizio esclusivamente la misura minima di cinque mensilità della retribuzione prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (Trib. Modica 12/7/00, pres. e est. Rizza, in Dir. lav. 2001, pag. 327, con nota di Pietropaoli, Licenziamento illegittimo per inidoneità fisica del lavoratore, inadempimento del datore di lavoro e misura del risarcimento)
- Il risarcimento nella misura minima di 5 mensilità di cui all’art. 18, 4° comma, SL spetta in ogni caso al lavoratore illegittimamente licenziato e, dunque, anche nel caso in cui il datore di lavoro, prima dell’accertamento giudiziale di illegittimità del recesso, abbia revocato il provvedimento (Pret. Milano 22/1/98, est. Chiavassa, in D&L 1998, 758)
- All’illegittimità del licenziamento consegue il diritto al risarcimento del danno nella misura minima di 5 mensilità ex art. 18 c. 4 S.L., anche nel caso in cui il datore di lavoro abbia offerto la reintegrazione in corso di causa e questa sia stata rifiutata dal lavoratore; in un simile caso, deve considerarsi anche cessata la materia del contendere sulla reintegrazione, né può essere ammessa la domanda diretta ad ottenere la corresponsione dell’indennità sostitutiva ex art. 18 c. 5 S.L., in quanto nuova domanda realizzante un’ipotesi di mutatio libelli non consentita (Pret. Milano 13/2/96, est. Peragallo, in D&L 1996, 778, nota SCARPELLI, Ancora su risarcimento del danno e opzione ex art. 19 S.L. in caso di revoca del licenziamento)
Risarcimento del danno – Somma eccedente le 5 mensilità
- La dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’art. 18 St. lav. non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura stabilita dal quarto comma, con esclusione di ogni rilevanza dei profili di dolo o della colpa nel comportamento del recedente-cioè una forma di responsabilità oggettiva-, essendo l’irrilevanza degli elementi soggettivi rilevabile (per effetto della rigidità della formulazione normativa al riguardo) limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità: essa è assimilabile ad una sorta di penale radicata nel rischio d’impresa, e può assumere la funzione di assegno di tipo assistenziale, in senso lato, nel caso di assenza di responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro. Ne consegue l’applicabilità-oltre il predetto limite delle cinque mensilità-dell’art. 1218 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile (nella specie, il lavoratore era stato licenziato per incapacità fisica all’esercizio delle mansioni, certificata da specialisti di strutture pubbliche ex art. 18 St. lav. e successivamente negata da consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del primo grado di giudizio. (Cass. 15/7/2002, n. 10260, Pres. Ianniruberto, Est. Mazzarella, in Riv. it. dir. lav. 2003, 387, con nota di Lara Lazzeroni, Risarcimento del danno oltre le cinque mensilità nel campo di applicazione della tutela reale: una questione di imputabilità del vizio del licenziamento).
- L’indennità di disoccupazione percepita dal lavoratore licenziato illegittimamente non può essere detratta dal risarcimento dovutogli, poiché essa può essere ripetuta dall’INPS in seguito all’esecuzione della sentenza di condanna del datore. (Cass. 16/3/2002, n. 3904, Pres. Mileo, Est. Capitanio, in Riv. it. dir. lav. 2003, 124, con nota di Marco Mocella, Sulla configurabilità dell’indennità di disoccupazione come aliud perceptum)
- A norma dell’art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300, il risarcimento del danno per il periodo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo si identifica-quanto al danno eccedente le cinque mensilità dovute per legge-con le retribuzioni non percepite, salvo che il dipendente provi di aver subito un danno maggiore o che il datore provi l’aliunde perceptum o la sussistenza di un fatto colposo del lavoratore in relazione al danno che il medesimo avrebbe potuto evitare usando la normale diligenza. A tale ultimo fine può assumere rilievo anche la mancata iscrizione nelle liste di collocamento, non come circostanza di per sé sufficiente a ridurre il danno risarcibile, bensì come circostanza valutabile nell’ambito dell’intera condotta del lavoratore, tenendosi conto altresì delle effettive e concrete possibilità di nuova occupazione (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata nella parte in cui non aveva preso in considerazione, ai fini della detrazione dal risarcimento invocata dal datore di lavoro, la mancata iscrizione nelle liste di collocamento per un bimestre, posto che il restante periodo di circa sei-sette anni il lavoratore medesimo, nonostante l’eseguita iscrizione, non aveva reperito alcuna occupazione). (Cass. 16/3/2002, n. 3904, Pres. Mileo, Est. Capitanio, in Riv. it. dir. lav. 2003, 124, con nota di Marco Mocella, Sulla configurabilità dell’indennità di disoccupazione come aliud perceptum)
- In caso di illegittimo licenziamento di lavoratore optante per la prosecuzione del rapporto dopo il conseguimento dell’età pensionabile, a norma dell’art. 6 D.L. 22/12/81 n. 791, convertito con modificazioni nella L. 26/2/82 n. 54, il relativo risarcimento del danno, commisurato, secondo i criteri di cui all’art. 18 L. 300/70, all’importo delle retribuzioni che sarebbero maturate dalla data del licenziamento, non può essere diminuito in misura pari alle somme percepite dal lavoratore a titolo di pensione, poiché può considerarsi compensativo del danno arrecato al lavoratore con il licenziamento (quale aliunde perceptum ) non qualsiasi reddito percepito dal medesimo, ma solo quello conseguito attraverso l’impiego della medesima capacità lavorativa (Cass. 19/5/00 n. 6548, pres. Grico, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 488; in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 351, con nota di Corsinovi, Risarcimento del danno da licenziamento illegittimo e deducibilità delle erogazioni pensionistiche percepite medio tempore dal lavoratore)
- La dichiarazione di invalidità del licenziamento a norma dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 non comporta automaticamente la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno nella misura stabilita dal quarto comma, con esclusione di ogni rilevanza dei profili del dolo o della colpa nel comportamento del recedente, e cioè per una forma di responsabilità oggettiva. L’irrilevanza degli elementi soggettivi è configurabile, per effetto della rigidità al riguardo della formulazione normativa, limitatamente alla misura minima delle cinque mensilità, la quale è assimilabile ad una sorta di penale avente la sua radice nel rischi di impresa e può assumere la funzione di un assegno di tipo, in senso lato, assistenziale nel caso di assenza di responsabilità di tipo soggettivo in capo al datore di lavoro. In termini generali invece la disposizione in esame-commisurando l’indennità risarcitoria alla retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento-contiene solo una presunzione legale iuris tantum circa l’entità del danno subito dal lavoratore, mentre la questione relativa alla sussistenza della responsabilità risarcitoria deve ritenersi regolata dalle norme del Codice civile in tema di risarcimento del danno conseguente ad inadempimento delle obbligazioni, non introducendo l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori elementi distintivi. Ne consegue l’applicabilità dell’art. 1218 c.c., secondo cui il debitore non è tenuto al risarcimento del danno nel caso in cui fornisca la prova che l’inadempimento consegue ad impossibilità della prestazione a lui non imputabile. (Cass. 21/9/1998, n. 9464, Pres. Panzarani, Rel. Dell’Anno, in Argomenti dir. lav. 2003, 372)
Riforma della sentenza di reintegrazione
- A seguito della modifica dell’art. 18 St. Lav. recata dalla l. n. 108/1990, le somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado che abbia dichiarato illegittimo il licenziamento od ordinato la reintegrazione del lavoratore costituiscono (in assenza di ottemperanza alla sentenza stessa) non più retribuzione ma risarcimento del danno subito dal lavoratore per l’illegittima risoluzione del rapporto; onde, con la riforma in appello della sentenza che abbia dichiarato l’illegittimità di detto licenziamento, viene a cadere l’illecito civile ascritto al datore di lavoro e non sussiste più obbligo di risarcimento a suo carico. Le somme percepite dal lavoratore perdono dunque il loro titolo legittimante e debbono essere restituite fin dal momento della pronuncia della sentenza di appello, atteso che, per il nuovo testo dell’art. 336, secondo comma, c.p.c. non è più necessario il passaggio in giudicato della sentenza stessa. (Cass. 11/12/2006 n. 26340, Pres. Sciarelli Est. Celentano, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Micaela Vitaletti, “Licenziamenti individuali e disciplina del risarcimento: orientamenti giurisprudenziali”, 973)
- Le somme corrisposte in esecuzione della sentenza che ordina la reintegrazione nel posto di lavoro costituiscono, ai sensi dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970 (nel nuovo testo introdotto per effetto della L. 11 maggio 1990, n. 108), risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittimo licenziamento, di modo che con la riforma della sentenza che dichiara la legittimità dell’impugnato licenziamento viene a cadere l’illecito civile ascritto al datore di lavoro e non sussiste più l’obbligo del risarcimento a suo carico. Pertanto, le somme percepite dal lavoratore perdono il loro titolo legittimante e devono essere, conseguentemente, restituite al datore di lavoro fin dal momento della riforma della sentenza, atteso che, per il nuovo testo dell’art. 336, secondo comma. C.p.c., non è più necessario il passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado. (Cass. 30/3/2006 n. 7453, Pres. Lupi Rel. Figurelli, in Lav. Nella giur. 2006, 916, e in Dir. e prat. lav. 2006, 2682)
- Nel caso di riforma in appello della sentenza di reintegrazioe in servizio emessa ex art. 18 St. Lav., qualora tale sentenza non sia stata eseguita dal datore di lavoro, il dipendente ha diritto di trattenere soltanto le somme pari alla retribuzione per i periodi effettivamente lavorati, esclusi gli aumenti contrattuali e gli scatti di anzianità, che presuppongono una continuità del rapporto di lavoro, la quale è invece stata interrotta da un licenziamento (ormai riconosciuto) legittimo ed efficace. (Trib. Genova 22/9/2005, Giud. Barenghi, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Michele Mariani, “Gli effetti della riforma in appello della sentenza di reintegrazione ex art. 18 St. Lav.: una storia infinita”, 149)
- Le somme corrisposte dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza che ordina la reintegrazione nel posto di lavoro costituiscono risarcimento del danno; in caso di riforma della sentenza che dichiara l’illegittimità del licenziamento, pertanto, venendo conseguentemente meno l’obbligo di risarcimento a suo carico, esse devono essere restituite fin dal momento della riforma della sentenza. Solo quando all’ordine di di reintegrazione abbia fatto seguito l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa resta preclusa, a norma dell’art. 2126 c.c., la ripetibilità delle somme versate al lavoratore a titolo di retribuzione per l’attività stessa. (Cass. 13/1/2005 n. 482, Pres. Senese Est. Lamorgese, in Riv. it. dir. lav. 2006, con nota di Domenico Mosca, Riforma della sentenza di reintegrazione e ripetibilità delle somme versate medio tempore al lavoratore”, 142)
- Nel caso di riforma, da parte del giudice d’ appello, della sentenza di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del lavoratore disponendone la reintegrazione nel posto di lavoro, il lavoratore è tenuto a restituire le somme (di natura risarcitoria) corrisposte dal datore di lavoro, in esecuzione della sentenza di primo grado, a decorrere dalla data del licenziamento e fino alla sentenza che ha disposto la reintegrazione e, se corrisposta, l’indennità sostitutiva della reintegrazione per la quale il lavoratore abbia eventualmente optato; non è invece tenuto a restituire quanto corrispostogli tra la sentenza di primo grado e quella d’appello. (Cass. 30/10/2002, n. 15366, Pres. Senese, Est. Stile, in Foro it. 2003 parte prima, 142)
- Le somme corrisposte dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza che ordina la reintegra nel posto di lavoro costituiscono, ex art. 18, l. n. 300/70 (nel testo nuovo introdotto dalla l. 11/5/90, n. 108), risarcimento del danno ingiusto subito dal lavoratore per l’illegittimo licenziamento; pertanto, in caso di riforma della sentenza che dichiara l’illegittimità, venendo a cadere l’illecito civile ascritto al datore di lavoro e non sussistendo più obbligo di risarcimento a suo carico, le somme percepite dal lavoratore perdono il titolo legittimante e debbono essere conseguentemente restituite fin dal momento della riforma, atteso che per il nuovo testo dell’art. 336, 2° comma, c.p.c. non è più necessario il passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado ( Cass. 17/6/00, n. 8263, pres. Prestipino, in Orient. giur. lav.2000, pag. 767)
- In caso di annullamento del licenziamento con ordine di reintegra nel posto di lavoro e condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della sentenza di primo grado, qualora, in sede di appello avverso detta sentenza sia confermata l’illegittimità del licenziamento, ma rimosso l’ordine di reintegra per l’inapplicabilità della tutela reale ex art 18, L. n. 300/70 e applicabilità della tutela obbligatoria ex art. 8, L. n. 604/66, le somme erogate al lavoratore per il periodo intercorso dal licenziamento alla sentenza di primo grado sono ripetibili, in quanto aventi natura risarcitoria e in considerazione del carattere autonomo della tutela risarcitoria rispetto a quella ripristinatoria, che riguarda le somme erogate dal datore di lavoro per il periodo intercorso dalla sentenza di primo grado a quella di riforma (Cass. 10/12/99, n. 13854, pres. Lanni, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 489, con nota di Zaccherini, Sulla ripetibilità delle somme erogate al lavoratore a seguito della riforma della sentenza di primo grado che ordina il reintegro)
- In caso di riforma della dichiarazione di illegittimità del licenziamento e del conseguente ordine di reintegrazione contenuti nella sentenza di primo grado, il datore di lavoro è comunque obbligato a corrispondere al lavoratore le differenze retributive maturate medio tempore derivanti dalla dichiarazione di illegittimità della collocazione in Cigs successiva alla reintegrazione (Trib. Milano 12/7/99, est. Salmeri, in D&L 1999, 862)
Risarcimento del danno – Indennità ex art. 18 c. 5 SL
- In caso di licenziamento illegittimo, ove il lavoratore opti per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, avvalendosi della facoltà prevista dall’art. 18, comma 5, L. 300 del 1970, il rapporto di lavoro, con la comunicazione al datore di lavoro di tale scelta, si estingue senza che debba intervenire il pagamento dell’indennità stessa, e senza che permanga alcun obbligo contributivo. Cass. 17/11/2016 n. 23435, Pres. Amoroso Rel. Ghinoy, in Lav. nella giur. 2017, con commento di F. Di Martino, 125)
- Qualora il licenziamento venga dichiarato illegittimo e, a fronte dell’ordine di reintegra, il lavoratore opti per il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, l’ammontare del risarcimento in caso di ritardata corresponsione dell’indennità in questione deve essere pari alle retribuzioni perdute fino a che il lavoratore non venga effettivamente soddisfatto. (Cass. 17/9/2012 n. 15519, Pres. De Renzis Rel. Bronzini, in Lav. nella giur. 2012, 1217)
- La richiesta da parte del dipendente dell’indennità sostitutiva della reintegrazione determina la risoluzione immediata del rapporto che non continua fino all’effettivo pagamento dell’indennità stessa. (Corte app. Roma 20/4/2012, Pres. Gallo Rel. Tucci, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Giorgio Mannacio, 1089)
- La richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità prevista dall’art. 18, 5° comma, SL, è da intendere come una comunicazione di dimissioni per giusta causa con quantificazione legislativa in quindici mensilità dell’indennità sostitutiva del preavviso, per cui, successivamente all’esercizio dell’opzione il lavoratore non ha dirit5to al pagamento di retribuzioni ulteriori, a nulla rilevando la tardiva corresponsione degli emolumenti da parte del datore. (Trib. Milano 30/3/2010, est. Di Leo, in D&L 2010, con nota di Alberto Vescovini, “Opzione sostitutiva della reintegrazione: continua il contrasto tra la giurisprudenza di merito e di legittimità”, 592)
- E’ nulla, ai sensi dell’art. 1229, 1° comma, c.c., la clausola che esclude in via preventiva la responsabilità del datore di lavoro per i comportamenti da questo posti in essere che, in ragione della loro gravità, comportino la lesione del decoro e dell’integrità psico-fisica del lavoratore. (Cass. 22/3/2010 n. 684, Pres. Roselli Est. Morcavallo, in D&L 2010, con nota di Vania Scalambrieri, “Il risarcimento del danno biologico per illegittimo licenziamento presuppone la prova dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave in capo al datore di lavoro”, 582)
- L’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 SL deve ritenersi erogazione di tipo reddituale soggetta a ritenuta fiscale e deve essere sottoposta a tassazione separata. (Cass. 25/1/2010 n. 1349, ord., Pres. Lupi Est. Iacobellis, in D&L 2010, 563)
- Il lavoratore che, dopo aver ottenuto l’annullamento del licenziamento, opta per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, ha diritto a percepire la retribuzione fino al momento in cui l’indennità gli viene versata. (Cass. 16/11/2009 n. 24200, Pres. Roselli Est. De Renzis, in D&L 2009, 1059)
- La richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità prevista dall’art. 18, 5° comma, l. n. 300 del 1970, costituisce esercizio di un diritto derivante dall’illegittimità del licenziamento, riconosciuto al lavoratore secondo lo schema dell’obbligazione con facoltà alternativa ex parte creditoris; pertanto, l’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro facente carico al datore di lavoro si estingue soltanto con il pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, per la quale abbia optato il lavoratore, non già con la semplice dichiarazione da questi resa di scegliere detta indennità in luogo della reintegrazione e, conseguentemente, il risarcimento del danno, il cui diritto è dalla legge fatto salvo anche nel caso di opzione per la succitata indennità, va commisurato alla retribuzione che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell’indennità sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha già operato la scelta. (Cass. 16/3/2009 n. 6342, Pres. Mattone Est. Meliadò, in Orient. Giur. Lav. 2009, 184)
- In tema di decadenza del prestatore di lavoro dalla facoltà di chiedere, al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata – che consente l’estensione, al diritto sostanziale, del principio generale dell’ordinamento in materia di decadenza processuale da impedire tramite la notificazione di un atto (Corte Cost., sent. N. 477 del 2002, sent. N. 28 del 2004 e ord. N. 97 del 2004, secondo cui, nei confronti del soggetto onerato, la decadenza è impedita dalla consegna dell’atto stesso all’ufficiale giudiziario oppure all’agente postale) – la richiesta è tempestiva, e la decadenza è impedita, qualora, entro il termine di trenta giorni previsto dall’art. 18 Stat. Lav., la lettera sia consegnata all’ufficio postale, ancorché recapitata dopo la scadenza del termine. (Cass. 16/3/2009 n. 6335, Pres. Ianniruberto Est. Stile, in Orient. Giur. Lav. 2009, 180)
- Qualora il mancato pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione prevista dall’art. 18 c. 5 SL dia luogo ad altro giudizio (nella fattispecie di opposizione a decreto ingiuntiv), tale giudizio non è soggetto né a sospensione obbligatoria ex art. 295 c.p.c., né a sospensione facoltativa ex art. 337 c.p.c., in attesa dell’esito definitivo del giudizio sul licenziamento, poiché ciò equivarebbe a sospendere la provvisoria esecutività della sentenza di reintegrazione. (Cass. 12/11/2007 n. 23483, Pres. Ciciretti Est. Celentano, in D&L 2008, 292)
- Il diritto alla reintegrazione di cui all’art. 18, c. 5°, SL rientra nello schema civilistico dell’obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, ragion per cui la prestazione principale del datore di lavoro che licenzi illegittimamente il lavoratore è quella di reintegrarlo nel posto di lavoro, mentre la prestazione indennitaria è a essa accessoria e si sostituisce alla prima solo nel caso in cui venga esercitato il diritto di opzione per le quindici mensilità sostitutive. (Trib. Genova 5/3/2007 Est. Melandri, in D&L 2007, con nota di Giuseppe Bulgarini D’Elci, “Esercizio del diritto di opzione ex art. 18, 5° comma, SL e mancato pagamento dell’indennità sostitutiva: prosegue il contrasto giurisprudenziale”, 914)
- Una volta comunicata l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione il rapporto di lavoro si estingue e il lavoratore non può più pretendere di essere reintegrato nel caso di mancato pagamento delle quindici mensilità, con conseguente cessazione della maturazione delle retribuzioni a titolo di danno. (Corte App. Roma 29/3/2007, Pres. Cataldi Est. Cocchia, in D&L 2007, con nota di Emanuela Fiorini, “Società con sede all’estero, numero dei dipendenti e tutela reale”, 905)
- In caso di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione ex art. 18, 5° comma, SL, il momento di effettiva cessazione del rapporto coincide non già con la semplice dichiarazione di scelta, ma soltanto con il pagamento dell’indennità, sicchè il risarcimento del danno complessivamente dovuto al lavoratore va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno dell’adempimento dell’obbligazione alternativa alla reintegrazione. (Cass. 9/2/2007 n. 2898, Pres. Mattone Est. Di Nubila, in D&L 2007, con nota di Ferdinando Perone, “Indennità sostitutiva della reintegrazione: la retribuzione di riferimento e il momento di cessazione del rapporto”, 203)
- L’art. 18 della L. n. 300 del 1970, nel testo risultante dalla novellazione introdotta con L. n. 108 del 1990, fa riferimento, nei commi 4 e 5, al medesimo parametro – la “retribuzione globale di fatto” – sia per il risarcimento del danno che per la determinazione dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, ancorchè nel primo caso si risarcisca un danno provocato dal comportamento illegittimo del lavoratore, mentre nel secondo si quantifica un’indennità legata a una scelta del lavoratore. Tanto nell’uno che nell’altro caso per retribuzione globale di fatto deve intendersi quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, a eccezione di quei compensi legati non già all’effettiva presenza in servizio ma solo eventuali e dei quali non vi è prova della certa percezione, nonchè quelli legati a particolari modalità di svolgimento della prestazione e aventi normalmente carattere indennitario. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale che, con riferimento a dipendente postale, in controversia cui non era applicabile, ratione temporis, il Ccnl 11 gennaio 2001, aveva incluso, nell’indennità sostitutiva della reintegrazione, sia il premio di produzione, corrisposto non solo al personale presente in servizio ma anche a quello assente per ferie o per altri motivi tutelati dalla legge, sia l’indennità di funzione, erogata con carattere di continuità e predeterminatezza, in quanto correlata alla natura stessa delle mansioni svolte dal dipendente). (Cass. 29/1/2007 n. 1833, Pres. Mattone Est. Celentano, in Lav. nella giur. 2007, 1029)
- Il comma 5 dell’art. 18 St. Lav., nell’attribuire al lavoratore reintegrato la facoltà di chiedere, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, il pagamento di una indennità sostitutiva, configura un’obbligazione con facoltà alternativa nella quale è prevista un’obbligazione principale (la reintegrazione) con facoltà per il creditore di richiedere una diversa prestazione; pertanto, una volta comunicata, la scelta diviene irrevocabile e il datore di lavoro non può più liberarsi eseguendo la prestazione principale. (Trib. Roma 10/1/2006, Rel. Trementozzi, in Lav. Nella giur. 2006, con commento di Gianluigi Girardi, 905)
- La dichiarazione di avvalersi del diritto di opzione per il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione previsto dall’art. 18, comma quinto, legge 300 del 1970, comporta l’estinzione dell’obbligo di reintegrazione del lavoratore gravante sul datore di lavoro a seguito della pronuncia di inefficacia, nullità o annullamento del licenziamento. Ne consegue che il risarcimento del danno previsto dalla stessa norma va commisurato alle retribuzioni che il lavoratore abbia maturato sino al giorno dell’esercizio del diritto di opzione, potendo il ritardato pagamento dell’indennità sostitutiva trovare sanzione esclusivamente negli ordinari rimedi previsti dall’ordinamento per il ritardo nell’adempimento. (Trib. Torino 12/11/2005 n. 4787, Est. Ciocchetti, in Orient. Giur. Lav. 2005, con nota di Ilaria Alvino, “Licenziamento e indennità sostitutiva della reintegrazione: si può prescindere dal nesso di sinallagmaticità tra le prestazioni dovute dalle parti del rapporto di lavoro?”, 875)
- La domanda del lavoratore al pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegra, correlandosi ad una obbligazione con facoltà alternativa, della quale l’unico oggetto è costituito dalla reintegrazione, presuppone necessariamente l’attualità dell’obbligo di reintegra. (Trib. Treviso 4/11/2003, Est. De Luca, in Lav. nella giur. 2004, 141, con commento di Francesca Marchesan)
- L’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, facente carico al datore di lavoro a norma dell’art. 18, L. n. 300/1970, si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione (introdotta in sede di novellazione dell’art. 18 da parte dell’art. 1, L. n. 108/1990), prescelta dal lavoratore illegittimamente licenziato, e non già con la semplice dichiarazione, proveniente da quest’ultimo, di scegliere tale indennità in luogo della reintegrazione. Ne consegue che, anche nel caso in cui già con la domanda giudiziale il lavoratore abbia chiesto il pagamento della indennità sostitutiva, il risarcimento del danno, il cui diritto è dalla legge fatto salvo anche nel caso di opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, va commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell’indennità sostitutiva. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza d’appello, impugnata dal datore di lavoro, con cui era stato riconosciuto un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni completate fino al momento in cui era stata offerta l’indennità e non fino alla data della comunicazione dell’opzione da parte del lavoratore). (Cass. 6/3/2003, n. 2280, Pres. Senese, Rel. Curcuruto, in Lav. nella giur. 2003, 679)
- Nell’ipotesi in cui il lavoratore, licenziato e successivamente reintegrato con provvedimento d’urgenza, non riprende il lavoro nel termine di trenta giorni dal ricevimento dell’invito in tal senso rivoltogli dal datore di lavoro (ovvero nel diverso termine indicato nel suddetto provvedimento), il rapporto deve ritenersi risolto, con preclusione dell’esercizio di opzione per l’indennità sostitutiva, dovendo la disposizione dell’art. 18, L. n. 300/1970, stabilita per le sentenze che dispongono la reintegrazione, intendendosi analogicamente estesa anche ai provvedimenti cautelari di eguale contenuto, non rilevando in senso contrario, la circostanza che ad essi non sia seguito il giudizio di merito. (Cass. 28/1/2003, n. 1254, Pres. Putaturo Donati, Rel. Mercurio, in Lav. nella giur. 2003, 572)
- L’opzione sostitutiva della reintegrazione formulata dal lavoratore a seguito dell’ordine di reintegrazione emesso dal giudice di primo grado, essendo indissolubilmente legata alla statuizione ex art. 18 SL, non esprime l’indisponibilità del dipendente alla prestazione; conseguentemente il giudice di secondo grado, ove decida di fare applicazione non dell’art. 18 SL ma dei principi di diritto comune, deve comunque disporre la riattivazione del rapporto ed il pagamento delle retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto. (Corte d’Appello Milano 5/10/2001, Pres. Ruiz Est. De Angelis, in D&L 2002, 96)
- La revoca del licenziamento, preordinata a impedire la pronuncia dell’ordine di reintegrazione, e l’invio a riprendere servizio – ove non seguiti dalla ricostituzione del rapporto per adesione del lavoratore – non vale a escludere la facoltà del lavoratore di rivendicare l’indennità ex art. 18, 5° comma, SL (nel caso di specie, la revoca era pervenuta al lavoratore dopo il deposito del ricorso di impugnazione del licenziamento e lo stesso lavoratore si era riservato di optare per l’indennità sostitutiva all’esito del giudizio di primo grado (Cass. sez. lav. 16 settembre 2000 n. 12260, pres. De Musis, est. Foglia, in D&L 2000, 1003)
- A seguito della sentenza di reintegrazione nel posto di lavoro, il lavoratore licenziato ha facoltà di pretendere, ai sensi dell’art. 18, 5° comma, l. n. 300/70 (nuovo testo), anziché la reintegrazione, una indennità sostitutiva; tale prestazione patrimoniale, peraltro, trovando la sua unica giustificazione nell’ordine di reintegra, deve essere restituita al datore di lavoro in caso di riforma della sentenza di reintegra, ai sensi dell’art. 336, 2° comma, c.p.c. (Cass. 17/6/00, n. 8263, pres. Prestipino, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 767)
- In caso di riforma in appello dell’ordine di reintegrazione, il lavoratore illegittimamente licenziato, il quale abbia optato in favore dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, è tenuto a restituire tutto quanto percepito a titolo d’indennità risarcitoria anche per il periodo dalla pronuncia dell’ordine medesimo fino alla comunicazione dell’opzione stessa. (Cass. 17/6/00, n. 8263, pres. Prestipino, est. Mammone, in Dir. lav. 2001, pag. 338, con nota di Cerreta, Riforma in appello della sentenza di reintegrazione e qualificazione risarcitoria di tutte le indennità dovute medio tempore)
- L’indennità prevista nell’art. 18, 5° comma, l. 20/5/70, n. 300, nel testo modificato dall’art.1, l. 11/5/90, n. 108, è configurata come prestazione che si inserisce, in connessione con il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, in un rapporto obbligatorio avente la struttura di una obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore. Ne deriva che la facoltà del prestatore non può essere arbitrariamente vanificata dal datore di lavoro revocando il licenziamento in corso di giudizio allo scopo di impedire la pronuncia giudiziale di condanna alla reintegra; onde l’invito a riprendere il lavoro, non seguito da una ricostituzione di fatto del rapporto, non è sufficiente a far venir meno l’attualità dell’obbligo di reintegrazione e a sottrarre il diritto di opzione, il cui esercizio verrebbe altrimenti rimesso di fatto al datore di lavoro (Cass. 12/6/00, n. 8015, pres. prestipino, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 358, con nota di Notaro, Revoca del licenziamento e opzione del lavoratore per l’indennità sostitutiva della reintegrazione)
- Il diritto del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva prevista dal quinto comma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (l. 20/5/70, n. 300, come modificato dalla l. 11/5/90, n. 108) non può essere arbitrariamente vanificato dal datore di lavoro revocando il licenziamento in corso di giudizio allo scopo di impedire, per intervenuta cessazione della materia del contendere, la pronuncia giudiziale di condanna alla reintegra; onde l’invito a riprendere il lavoro, non seguito da una ricostituzione di fatto del rapporto, non è sufficiente a far venire meno l’attualità dell’obbligo di reintegrazione e a sottrarre al prestatore il diritto di opzione, il cui esercizio verrebbe altrimenti ad essere rimesso di fatto al datore di lavoro. (Cass. 12/6/00, n. 8015, pres. e est. Prestipino, in Argomenti dir. lav. 2001, pag. 671)
- La richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della reintegrazione, l’indennità prevista dal quinto comma dell’art. 18, L. n. 300/70, costituisce esercizio di un diritto derivante dall’illegittimità del licenziamento e riconosciuto al lavoratore dalla stessa norma di legge, secondo lo schema generale dell’obbligazione con facoltà alternativa ex parte creditoris; ne consegue che il lavoratore che in corso di causa chieda l’indennità de qua in sostituzione della reintegrazione richiesta con l’atto introduttivo non viola il principio dell’immutabilità della domanda, ma esercita una facoltà riconosciutagli dalla legge (Cass. 8/4/00 n. 4472, in Dir e pratica lav. 2000, pag.2237)
- La facoltà per il lavoratore di optare, in luogo della reintegrazione, per un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità di retribuzione ha natura di obbligazione facoltativa e pertanto non ha rilievo l’impossibilità sopravvenuta della prestazione verificatasi successivamente all’opzione (nella fattispecie, dopo l’esercizio dell’opzione l’attività aziendale era cessata) (Trib. Monza 9/6/98, pres. ed est. Cella, in D&L 1998, 1050, nota Zezza)
- Il lavoratore illegittimamente licenziato ha la facoltà di pretendere, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità ex art. 18, 5° comma, SL anche nel caso in cui il richiamo in servizio consegua, anziché a un ordine giudiziale, all’unilaterale revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro (Pret. Milano 22/1/98, est. Chiavassa, in D&L 1998, 758. In senso conforme, v. Pret. Milano 10/6/97, est. Marasco, in D&L 1998, 183)
- La richiesta di corresponsione dell’indennità prevista dal 5° comma dell’art. 18 SL, configura un’ipotesi di dimissioni, determinando l’effetto legalmente predeterminato di sostituire alla reintegrazione l’obbligo di pagare l’indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale dsi fatto (Trib. Napoli 28/1/97, pres. Baccari, est. Panariello, in D&L 1997, 647)
- La facoltà insindacabile di monetizzare il diritto alla reintegrazione in una prestazione pecuniaria di ammontare fisso (attribuita al lavoratore dal comma 5 dell’art. 18 SL) non può essere vanificata dalla revoca del licenziamento, da parte del datore di lavoro, in corso di giudizio, giacché tale revoca non può giungere a effetto se non vi è accettazione del dipendente. La tutela così approntata per il lavoratore non è in conflitto con gli artt. 3 e 41 Cost. (Corte cost. 22/7/96 n. 291, pres. Ferri, rel. Mengoni, in D&L 1997, 49, nota GUARISO, Revoca del licenziamento, mancata accettazione e “quindici mensilità”. In senso conforme, v. Cass. 12/6/00, n. 8015, pres. Prestipino, in Argomenti dir. lav. 2001, pag. 671)
- E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 c. 5 S.L., come modificato dall’art. 1 L. 108/90, nella parte in cui non subordina la facoltà del lavoratore di optare per l’indennità, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, alla sussistenza di giusti motivi da valutarsi caso per caso da parte del giudice (Corte cost. 15/3/96 n. 77, pres. Ferri, rel. Mengoni, in D&L 1996, 617)
- L’ordine di reintegrazione costituisce presupposto necessario per l’indennità ex art. 18 SL; pertanto, qualora il giudice investito dell’impugnazione non abbia disposto la reintegrazione (nella specie, per intervenuta revoca del licenziamento) il lavoratore non può far valere il diritto alla predetta indennità (Trib. Milano 16/12/94, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1995, 696, con nota redazionale. In senso conforme, v. Trib. Sassari 3/8/94, pres. Bagella, est. Di Florio, in D&L 1995, 696)
Licenziamento nel pubblico impiego
- La facoltà di recesso nei confronti dei pubblici dipendenti che abbiano maturato il requisito di quarant’anni di anzianità contributiva, prevista dall’art. 17, comma 35 novies, L. 3/8/09 n. 102, deve essere raccordata non solo con i principi di correttezza e buona fede, ma anche con quelli di imparzialità e buon andamento che devono guidare l’attività della PA ex art. 97 Cost., e in applicazione dei quali le circolari del Dipartimeno Funzione Pubblica n. 10/08 e 4/09, hanno chiarito che la predetta facoltà di recesso può essere esercitata nell’ambito di processi di riorganizzazione e previa determinazione di criteri generali; conseguentemente, qualora la sussistenza di esigenze derivante dai predetti processi di riorganizzazione sia contestata e il datore di lavoro convenuto non fornisca prova in proposito, il recesso deve considerarsi illegittimo con conseguente ordine cautelare di sospensione del licenziamento. (Trib. Roma 5/1/2010, ord., Est. Capaccioli, in D&L 2009, 1108)
- La facoltà che l’art. 72 c. 11 del d.l. n. 112/2008, convertito con l. n. 133/2008, assegna alla p.a. di risolvere il rapporto lavorativo con i dipendenti con anzianità contributiva di 40 anni deve essere esercitata nel rispetto della buona fede, con conseguente obbligo di motivazione da parte del datore di lavoro pubblico (nella specie, il Tribunale ha dichiarato illegittimo il collocamento a riposo di un medico, disposto senza espressa motivazione). (Trib. Reggio Emilia 12/1/2009, ord. Est. Parisoli, in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Davide Casale, “Il licenziamento del personale pubblico (dirigente) con quaranta anni di anzianità contributiva ex art. 72 del D.L. n. 112/2008”, 1051)
- L’art. 72 c. 11 del d.l. n. 112/2008, convertito con l. n. 133/2008, nel consentire alle p.a. la risoluzione del rapporto lavorativo con i dipendenti con anzianità contributiva di 40 anni, non ha inteso derogare alla disciplina delle durata e della revoca degli incarichi dirigenziali (nella specie, il Tribunale ha dichiarato illegittimo il collocamento a riposo di un medico che aveva un incarico dirigenziale preesistente al predetto decreto legge). (Trib. Reggio Emilia 12/1/2009, ord. Est. Parisoli, in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Davide Casale, “Il licenziamento del personale pubblico (dirigente) con quaranta anni di anzianità contributiva ex art. 72 del D.L. n. 112/2008”, 1051)
- In tema di licenziamento del dipendente (nel caso, il Direttore dei Servizi Generali Amministrativi di un Istituto Scolastico) per persistente insufficiente rendimento l’amministrazione è tenuta alla specifica contestazione dei fatti oggetto di recidiva solo quando detti fatti risultino elemento costitutivo dell’addebito, e non meramente accidentale quale criterio di valutazione della gravità della condotta. (Trib. Bari 16/10/2008, ord., Est. Arbore, in Lav. nelle P.A. 868)
- Il licenziamento per persistente insufficiente rendimento può essere disposto dinanzi a una ipotesi di particolare gravità dell’infrazione purché sia concretamente sussistente il nesso di proporzionalità fra sanzione e infrazione. (Trib. Bari 16/10/2008, ord., Est. Arbore, in Lav. nelle P.A. 868)
- E’ legittima la risoluzione del rapporto di lavoro disposta dall’amministrazione allorché il dipendente abbia dichiarato l’inesistenza di situazioni di incompatibilità con il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione in base all’art. 508 d.lgs. n. 297/1994 o all’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, essendo l’effetto risolutorio del rapporto di lavoro previsto per tale ipotesi tanto dalla fonte legislativa (art. 1, comma 61, L. n. 662/1996) quanto da quella contrattuale, posto che nel contratto individuale di lavoro in essere tra le parti era espressamente previsto che la non veridicità del contenuto delle dichiarazioni avrebbe comportato l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro. Il contratto di servizio civile, pur non costituente lavoro pubblico, concretizza una situazione di incompatibilità, trattandosi di rapporto a titolo oneroso con un impegno di orario. (Nel caso, il dirigente scolastico aveva disposto la risoluzione di un rapporto di lavoro a termine con un collaboratore scolastico). (Trib. Parma 9/4/2008, ord., in Lav. nelle P.A. 2008, 408)
- Le garanzie procedimentali previste per il licenziamento individuale dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori trovano applicazione anche quando il licenziamento riguardi un dirigente, a prescindere dalla sua specifica collocazione nell’impresa, e ciò sia nel caso di addebito di comportamento negligente, sia nel caso in cui a fondamento del licenziamento siano poste condotte atte a far venire meno la fiducia del datore di lavoro. La mancata applicazione delle garanzie procedimentali comporta la non valutabilità delle condotte causative del recesso e l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione. (Cass. 30/3/2007 n. 7880, Pres. carbone Rel. Vidiri, in Lav. nelle P.A., 541)
- Poiché la disciplina della dirigenza privata non è sovrapponibile a quella della dirigenza pubblica, e il rapporto dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall’art. 21 D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, a quello della categoria impiegatizia, la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici segue i canoni del rapporto di lavoro dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, ed è assoggettata, ex art. 51, 2° comma, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 alla disciplina dello Statuto dei Lavoratori; pertanto, il dirigente illegittimamente licenziato dall’Amministrazione ha diritto alla reintegrazione ex art. 18 Statuto dei Lavoratori. (Cass. 1/2/2007 n. 2233, Pres. Senese Rel. Picone, in Lav. Nelle P.A. 515)
- In presenza di più impugnazioni dello stesso licenziamento, il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile implica che il risultato di un processo (conclusosi con sentenza passata in giudicato) non possa più essere messo in discussione mediante ragioni o argomentazioni che in quello stesso processo avrebbero potuto essere fatte valere dall’interessato; in particolare, riguardo al licenziamento disciplinare, è preclusa per effetto del precedente giudicato l’impugnazione che deduca nuovi e diversi profili di illegittimità da parte del lavoratore dipendente, dovendosi, in ogni caso, escludere che il giudicato sulla validità sostanziale del licenziamento consenta un’altra impugnazione per motivi formali, restando del tutto irrilevante che gli eventuali, relativi vizi non siano stati dedotti o siano stati tardivamente, e perciò inammissibilmente, fatti valere (fattispecie in tema di lavoro alle dipendenze di pubblica amministrazione). (Cass. 28/9/2006 n. 21032, Pres. Senese Est. Picone, in Giust. Civ. 2007, 1259)
- L’art. della l. 7 febbraio 1990, n. 19, sancisce il divieto dell’automatica destituzione di diritto a seguito di condanna penale, nel caso, però, di destituzione per applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, quid pluris rispetto alla sanzione penale, si ritiene ancora operante la destituzione di diritto data la gravità della sanzione. (Consiglio di Stato 6/8/2002, n. 4099, Pres. De Roberto, Est. Roxas, in Giur. italiana 2003, 374)
- L’estinzione del rapporto di servizio e di pubblico impiego non può avvenire tacitamente ma consegue sempre ad una determinazione espressa nelle forme di legge (Consiglio di Stato 20/11/00, n. 6181, pres. Catallozzi, est. Poli, in Foro it. 2001, pag.2, parte terza)
- Il provvedimento di riammissione in servizio ex art. 132, d.p.r. 10/1/57, n. 3 appartiene alla categoria degli atti negoziali discrezionali presupposti e, in quanto tale, comporta un obbligo di motivazione da parte dell’autorità amministrativa; ne consegue che, in applicazione dell’art. 68 d. lgs. 29/93, in caso di difetto di motivazione la natura della posizione tutelata (diritto soggettivo alla riassunzione) impone l’adozione di un provvedimento di condanna dell’amministrazione alla riassunzione, con decorrenza degli effetti giuridici ed economici non dalla data della domanda giudiziale, ma dalla delibera di ricostituzione del rapporto (Trib. Pordenone 20/3/00, pres. Lazzaro, in Lavoro nelle p.a. 2000, pag. 909, con nota di Vianello, Pubblico impiego privatizzato e posizioni giuridiche transgeniche)
- Qualora il lavoratore abbia presentato istanza per la concessione di un ulteriore periodo di aspettativa per malattia, l’omesso esame di tale istanza rende illegittimo il successivo provvedimento di sospensione dal servizio adottato dalla pubblica amministrazione per superamento del periodo di comporto: se è vero, infatti, che il provvedimento di sospensione dal servizio è un atto discrezionale, è altrettanto vero che tale atto presuppone un corretto esercizio del potere attraverso il preventivo esame della suddetta istanza del lavoratore (Trib. Milano 19 luglio 1999, est. Curcio, in D&L 2000, 193)
- Il fatto che nella sanità i due livelli di dirigenza siano contenuti in uno stesso inquadramento legale e che il contratto collettivo attribuisca agli stessi un identico trattamento normativo impone, in via di principio, la conseguenza che entrambi i livelli siano esclusi dalla tutela reale (art. 10 L. 15/7/66 n. 604) (Trib. Milano 22/6/99, est. Mannacio, in D&L 1999, 665, n. De Cesaris, I dirigenti nella dirigenza sanitaria: dai giudici del lavoro due pronunce contrastanti)
- Deve ritenersi nullo l’art. 36 del Ccnl del settore sanitario nella parte in cui prevede l’applicabilità del recesso ad nutum anche ai dirigenti sanitari inquadrati al I livello. A questi infatti sono attribuite funzioni equiparabili a quelle impiegatizie e devono pertanto ritenersi applicabili sia la L. 15/7/66 n. 604 sia l’art. 18 SL (Pret. Milano 3/5/99 (ord.), est. Curcio, in D&L 1999, 665, n. De Cesaris, I dirigenti nella dirigenza sanitaria: dai giudici del lavoro due pronunce contrastanti)
Le segnalazioni della Newsletter di Wikilabour in tema di licenziamento illegittimo
- Se il licenziamento è illegittimo per vizi di forma o procedimentale, l’indennità non può essere ancorata unicamente all’anzianità di servizio.
Come è noto, l’art. 4 del D. Lgs n. 23/2005 (per il personale assunto successivamente alla sua entrata in vigore) prevede unicamente il criterio dell’anzianità di servizio per la determinazione, tra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità della retribuzione, l’indennità dovuta al lavoratore in caso di illegittimità del licenziamento per difetto della forma o del procedimento. La Corte, in questa sede investita unicamente della valutazione della legittimità costituzionale della norma indicata (non avendo potuto esaminare, perché tardivamente dedotta, la questione della disparità di trattamento rispetto ai maggiori importi di indennità previsti in caso di licenziamento ingiustificato), la dichiara incostituzionale perché viola i canoni della ragionevolezza e della parità di trattamento, trattando unitariamente situazioni che nel concreto possono essere molto differenziate. Conseguentemente, nel determinare l’indennità in questione tra il minimo e il massimo indicati dalla legge, il giudice dovrà tener conto principalmente dell’anzianità di servizio, ma, in chiave correttiva, anche dei criteri della gravità della violazione, del numero degli occupati, della dimensione dell’impresa, del comportamento e delle condizioni delle parti, nonché di altri criteri desumibili dal sistema. (Corte Cost. 16/7/2020 n. 150, Pres. Cartabia Red. Sciarra, in Wikilabour, Newsletter n. 14/2020) - Ancora sulla “insussistenza del fatto” contestato, che in materia di licenziamento disciplinare, comporta la tutela reintegratoria.
Invocando il proprio ormai consolidato orientamento, secondo il quale l’”insussistenza del fatto contestato” che dà luogo alla tutela reintegratoria c.d. minore si verifica non solo quando il fatto è materialmente insussistente, ma altresì quando sia lecito, la Corte ha ritenuto lecito il comportamento di un dipendente assente per malattia, della quale era stata accertata l’autenticità, che durante l’assenza aveva svolo altra attività lavorativa non pregiudizievole ai fini del rientro in azienda. (Cass. 17/6/2020 n. 11702, Pres. Di Cerbo Rel. Pagetta, in Wikilabour, Newsletter n. 13/2020)