Questa voce è stata curata da Isabella Digiesi e aggiornata da Alexander Bell
Scheda sintetica
La legge tutela le lavoratrici contro i licenziamenti intimati a causa del matrimonio o durante la maternità al fine di proteggere la funzione familiare della donna.
Pertanto è vietato il licenziamento della lavoratrice:
- dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino
- dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione stessa.
Il divieto di licenziamento, dall’inizio dell’astensione fino al compimento di un anno di età del bambino, si applica anche al padre lavoratore che si astenga dal lavoro nei primi tre mesi dalla nascita del figlio in mancanza della madre (grave infermità, morte, abbandono, affidamento esclusivo al padre).
In questi periodi, il licenziamento è ammesso nei soli casi di:
- colpa grave costituente giusta causa
- cessazione dell’attività dell’azienda
- ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine
- esito negativo della prova.
Al di fuori di queste ipotesi, il licenziamento intimato nel periodo coperto da divieto è nullo e la lavoratrice ha diritto alle tutele previste dalla legge, e in particolare:
- alle tutele indicate dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori), come modificati dalla legge 92/2012, se è stata assunta prima del 7 marzo 2015;
- alle tutele indicate dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del cd. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti), se l’assunzione è avvenuta a decorrere dal 7 marzo 2015.
Tali norme, peraltro, hanno contenuto sostanzialmente identico: entrambe, infatti, stabiliscono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla cd. tutela reintegratoria piena, che prevede:
- l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;
- la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
- il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento e la reintegrazione;
- il cd. diritto di opzione a favore della lavoratrice, ossia la possibilità per quest’ultima di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.
Si noti che le suddette tutele, per espressa previsione di legge, si applicano indipendentemente dal motivo formalmente addotto, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro e ai dirigenti.
Esse, inoltre, essendo state pensate dal legislatore come presunzioni legali relative del motivo illecito fondate sulla contiguità del licenziamento all’evento protetto, operano oggettivamente in presenza del matrimonio o della maternità, a prescindere dalla loro conoscenza da parte del datore di lavoro al momento del recesso.
Dal divieto di licenziamento per matrimonio o maternità sono escluse soltanto le lavoratrici domestiche, non potendosi imporre la presenza di un’estranea nell’intimità familiare, nonché i rapporti di lavoro in prova (Corte Cost. n.172 del 1996).
Fonti normative
- Decreto legislativo 151/2001 “Testo unico disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”
- Legge 9 gennaio 1963, n. 7 “Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio”
- Costituzione, artt. 3, 31 e 37, c.1
- Codice Civile, artt. 1418 e 1223
- Legge 20 maggio 1970, n. 300 “Statuto del Lavoratori”, art. 18, come modificato dalla Legge 92/2012
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Decreto legislativo n. 23/2015, recante “disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”
- Contratto Collettivo di Lavoro applicato
Cosa fare – Tempi
Presentare al più presto al Responsabile del Personale di appartenenza:
- Richiesta di ripristino del rapporto di lavoro
- Certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano (certificato di matrimonio o certificato di gravidanza)
A chi rivolgersi
- Centro Donna del Sindacato
- Istituto di Patronato (per la presentazione delle domande)
- Ufficio vertenze sindacale
- Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Documenti necessari
- Copia del contratto
- Corrispondenza con il datore di lavoro (lettera di licenziamento)
- Certificazione gravidanza
- Certificazione matrimonio
- Ultima busta paga
- Conteggi
- Moduli predisposti dall’ente previdenziale (per es. Inps)
- Contratto Collettivo di Lavoro applicato
Licenziamento in maternità
Gli artt. 3, 31 e 37 comma 1 della Costituzione pongono in evidenza la tutela degli aspetti della maternità strettamente collegati alla diversità fisiologica della donna rispetto all’uomo.
Per garantire alla lavoratrice la tranquillità psicologica necessaria per il miglior decorso della gestazione e dell’allattamento, le donne lavoratrici gestanti o madri hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro per un periodo predeterminato dalla legge.
Ai sensi dell’art. 2, comma 2, Legge n. 1204/1971 è nullo il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino.
Nel malaugurato caso in cui il bambino nasca morto, il divieto di licenziamento vige nei tre mesi successivi al parto.
Tale divieto opera fino al termine del periodo di astensione obbligatoria.
Nell’ipotesi in cui il bambino cessi di vivere dopo il periodo di astensione obbligatoria e prima del compimento di un anno di età il divieto cessa dieci giorni dopo la sua morte.
Per la determinazione del periodo di gravidanza, si presume che il concepimento sia avvenuto 300 giorni prima della data del parto indicata nel certificato medico.
Il divieto di licenziamento in maternità si applica anche alle lavoratrici affidatarie o adottive e decorre dalla data di effettivo ingresso del bambino in famiglia, indipendentemente dal fatto che l’affidamento sia temporaneo o definitivo.
Il divieto di licenziamento delle lavoratrici madri opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio, ancorché il datore di lavoro sia inconsapevole, alla data del licenziamento, dello stato della lavoratrice. (Trib. Roma 10/4/2003, Pres. Cortesani Rel. Blasutto, in Lav. Nella Giur. 2003, 1172).
Il licenziamento durante il periodo di tutela legale è consentito solo nei casi eccezionali previsti dall’art. 54, c.3, Decreto legislativo 151/2001:
- colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro: l’individuazione dei fatti che legittimano la risoluzione del rapporto di lavoro deve essere effettuata in maniera rigorosa, tenendo conto delle particolari condizioni psicofisiche della lavoratrice (Cass. 17 agosto 2004 n. 16060); non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento, ma è necessario verificare, con onere probatorio a carico del datore di lavoro ai sensi della’art. 2697 c.c., se sussista quella colpa prevista specificatamente dalla norma suddetta, per la richiesta connotazione di gravità, da quella cui si riferisce la legge o la disciplina collettiva per casi generici di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto.
- cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta: tale deroga va interpretata in modo restrittivo, pertanto non può essere riconosciuta un’ipotesi di chiusura della sola unità produttiva alla quale la lavoratrice era addetta. (Pret. Milano 23/12/1996, Est. Di Ruocco, in D&L 1997, 646)
- ultimazione delle prestazioni per le quali la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine: la legge si riferisce solo all’ipotesi del contratto di lavoro a tempo determinato; pertanto è illegittimo il licenziamento intimato nell’ambito di uno specifico appalto di servizi di pulizie, se subentra alla società datrice di lavoro un’altra società che aveva assunto tutti i dipendenti eccetto una lavoratrice assente per maternità e assunta a tempo indeterminato (Cass. 27 agosto 2003 n. 12596);
- esito negativo della prova: il licenziamento è legittimo solo se il datore di lavoro non è a conoscenza dello stato di gravidanza. In caso contrario, per tutelare la lavoratrice da eventuali abusi il datore di lavoro deve motivare il giudizio negativo circa l’esito della prova. In tal modo si consente da un lato alla lavoratrice di fornire l’eventuale prova contraria, dall’altro al giudice di valutare i motivi reali del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dallo stato di gravidanza. (Corte Cost. 31/5/1996, n. 172)
Il datore di lavoro ha l’onere di provare la ricorrenza di una delle tassative ipotesi appena elencate per dimostrare che il licenziamento non sia stato “attuato a causa di maternità”. La lavoratrice è onerata a provare, quale fatto costitutivo, l’esistenza del rapporto, l’intimazione del licenziamento nel periodo di tutela legale e la presentazione del certificato medico entro i novanta giorni dal licenziamento.
Al di fuori delle ipotesi eccezionali indicate dal terzo comma dell’art. 54 del decreto legislativo 151/2001, il licenziamento intimato nel periodo di maternità è nullo e la lavoratrice ha diritto alle tutele previste dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012 – norme che si applicano alle lavoratrici assunte prima del 7 marzo 2015 – e dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del c.d. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti) – norma che invece disciplina le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti nulli comminati alle lavoratrici assunte dal 7 marzo 2015 in avanti.
Tali norme stabiliscono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla cd. tutela reintegratoria piena, che prevede:
- l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;
- la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
- il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;
- il cd. diritto di opzione a favore del lavoratore, ossia la possibilità per quest’ultimo di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.
La normativa comunitaria
Il divieto di licenziamento della lavoratrice durante il periodo di tutela ai sensi dell’art. 10 Direttiva 92/85/CE (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento) deve essere interpretato nel senso che esso vieta, non soltanto di notificare una decisione di licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio durante il periodo stesso, ma anche di prendere misure preparatorie a una tale decisione prima della scadenza di detto periodo. (Corte di Giustizia CE 11/10/2007 causa C-460/06, Pres. A. Rosas Rel. A.O Caoimh, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso, 81)
Il licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio è sempre discriminatorio ed è contrario alla Direttiva 76/207/CE (relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro), qualunque sia il momento in cui la decisione di licenziamento è notificata e, dunque, anche se essa è notificata dopo la scadenza del periodo di tutela.
In queste ipotesi la misura sanzionatoria scelta dallo Stato membro, deve essere almeno equivalente a quella prevista per il diritto nazionale in esecuzione degli artt. 10 e 12 della Direttiva 92/85/Ce per il licenziamento per gravidanza posto in essere all’interno del periodo di tutela. (Corte di Giustizia CE 11/10/2007 causa C-460/06, Pres. A. Rosas Rel. A.O Caoimh, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso, 81)
Licenziamento in conseguenza di matrimonio
Le conseguenze relative al licenziamento comminato in conseguenza del matrimonio erano inizialmente disciplinate dalla Legge 9 gennaio 1963, n. 7, interamente abrogata dal D.Lgs. 198/2006 Codice delle pari opportunità, che ora regola questa materia all’art. 35.
Tale norma, in particolare, prevede, in linea generale, la nullità del licenziamento intimato per causa di matrimonio. La stessa norma pone, inoltre, una presunzione a favore del lavoratore, stabilendo che il licenziamento intimato nel periodo compreso tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione del matrimonio, è affetto da nullità presumendosi disposto a causa del matrimonio .
La presunzione di cui si è appena parlato non è assoluta ma juris tantum, potendo essere vinta da prova contraria: infatti il datore di lavoro può provare che il licenziamento, sebbene inflitto nel periodo considerato dalla norma sopra citata, trova la sua origine non nel matrimonio ma in uno dei casi eccezionali previsti dal comma 5 dello stesso art. 35:
- colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
- cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta;
- ultimazione delle prestazioni per le quali la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine;
Al di fuori di tali ipotesi, il licenziamento intimato nel periodo coperto da divieto è nullo e la lavoratrice ha diritto:
- alle tutele previste dai primi tre commi dell’art. 18 della legge 300/1970, come modificati dalla legge 92/2012, se è stata assunta prima del 7 marzo 2015;
- alle tutele indicate dall’art. 2 del decreto legislativo 23/2015 (decreto attuativo del c.d. Jobs act, contenente la disciplina del contratto a tutele crescenti), se è stata assunta dopo il 7 marzo 2015.
Tali norme hanno contenuto sostanzialmente identico: entrambe stabiliscono che la lavoratrice licenziata nel periodo di maternità o in conseguenza del matrimonio ha diritto alla cd. tutela reintegratoria piena, che prevede:
- l’ordine di reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro;
- la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, nella misura della retribuzione maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto solo quanto percepito attraverso un’altra occupazione (l’indennità non può comunque essere inferiore alle cinque mensilità);
- il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo intercorso fra il licenziamento a quello della reintegrazione;
- il cd. diritto di opzione a favore del lavoratore, ossia la possibilità per quest’ultimo di scegliere, in luogo della reintegra, il pagamento di un’indennità pari a quindici mensilità.
La lavoratrice che, invitata a riassumere servizio, dichiari, entro 10 giorni dall’invito, di recedere dal contratto, ha diritto, ex art. 35, comma 7 Codice delle pari opportunità, al trattamento previsto in caso di dimissioni per giusta causa (indennità sostitutiva del preavviso), fermo restando il diritto alla retribuzione sino alla data del recesso.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di licenziamento in maternità
In genere
- La deroga di cui all’art. 54, comma 4, secondo periodo, d.lgs. n. 151/2001 al divieto generale di licenziamento della lavoratrice madre durante i periodi di tutela deve essere interpretata tassativamente e non può pertanto essere estesa alle differenti ipotesi di cessazione del rapporto o del ramo d’azienda. (Cass. 31/7/2013 n. 18363, Pres. Vidiri Rel. Blasutto, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Daniele Zanetto, 261)
- In caso di licenziamento della lavoratrice madre, si (n.d.r.) ritengono applicabili le regole proprie della nullità di diritto comune, ragion per cui “nel caso si verifichi un simile licenziamento il rapporto deve ritenersi come mai interrotto e la lavoratrice ha diritto al risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 1223 c.c. (Trib. Trapani 9/6/2010, Giud. Antonelli, in Lav. nella giur. 2010, 953)
- In caso di licenziamento della lavoratrice madre i danni risarcibili subiti, in assenza di diversa assunzione e deduzione istruttoria, devono essere identificati nella mancata retribuzione percepita dalla dipendente a causa del forzato allontanamento dal luogo di lavoro. (Trib. Trapani 9/6/2010, Giud. Antonelli, in Lav. nella giur. 2010, 953)
- Il divieto di licenziamento della lavoratrice durante il periodo di tutela ai sensi dell’art. 10 Direttiva 92/85Ce (concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e delle salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento) deve essere interpretato nel senso che esso vieta, non soltanto di notificare una decisione di licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio durante il periodo stesso, ma anche di prendere misure preparatorie a una tale decisione prima della scadenza di detto periodo. (Corte di Giustizia CE 11/10/2007 causa C-460/06, Pres. A. Rosas Rel. A.O Caoimh, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso, 81)
- Il licenziamento in ragione della gravidanza e/o della nascita di un figlio è sempre discriminatorio ed è contrario alla Direttiva 76/207/Ce (relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro), qualunque sia il momento in cui la decisione di licenziamento è notificata e, dunque, anche se essa è notificata dopo la scadenza del periodo di tutela; in tale ipotesi la misura sanzionatoria scelta dallo Stato membro dovendo garantire una tutela giurisdizionale efficace e avere per il datore di lavoro un effetto dissuasivo reale, deve essere almeno equivalente a quella prevista per il diritto nazionale in esecuzione degli artt. 10 e 12 della Direttiva 92/85/Ce per il licenziamento per gravidanza posto in essere all’interno del periodo di tutela. (Corte di Giustizia CE 11/10/2007 causa C-460/06, Pres. A. Rosas Rel. A.O Caoimh, in D&L 2008, con nota di Alberto Guariso, 81)
- La cessazione dell’attività quale ipotesi di deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre ex art. 2, 2° comma, lett. b), L. 1024/71 (ora art. 54, c. 3° lett. b, D.Lgs. 151/01), può ricomprendere anche la chiusura del reparto cui era addetta la dipendente, ma solo a condizione che la singola unità produttiva sia formalmente e strutturalmente autonoma e che non sussista nessuna possibilità di riutilizzare la lavoratrice presso un diverso reparto o una diversa struttura aziendale. La prova di siffatta impossibilità di ricollocamento ricade sul datore di lavoro, sicchè in difetto va dichiarata la nullità del licenziamento, con conseguente diritto della lavoratrice a ottenere il pagamento delle retribuzioni non corrisposte. Non rileva in proposito la mancata presentazione del certificato di gravidanza, trattandosi di adempimento che ha finalità esclusivamente probatorie e che come tale può essere sostituito dall’effettiva conoscenza dello stato di gravidanza ottenuta altrimenti dal datore di lavoro. (Cass. 16/2/2007 n. 3620, Pres. De Luca Est. Monaci, in D&L 2007, 497)
- Il divieto di licenziamento di cui all’art. 2, L. n. 1204/1971 opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, il licenziamento intimato nonostante il divieto comporta, anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto, il pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, le quali maturano a decorrere dalla presentazione del certificato attestante lo stato di gravidanza (art. 4, D.P.R. n. 1026/1976). Ove la lavoratrice sia stata assunta con contratto di formazione e lavoro, la determinazione del risarcimento in misura corrispondente all’importo delle retribuzioni maturate fino al termine del rapporto di formazione e lavoro tiene conto dell’effetto sospensivo del termine contrattuale per il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, con conseguente proroga del termine medesimo per un periodo pari a quello della sospensione, essendo l’esecuzione del rapporto sospensioni per fatti non riconducibili alla volontà delle parti. (Cass. 1/2/2006 n. 2244, Pres. Senese Rel. Miani Canevari, in Lav. Nella giur. 2006, 701)
- Pone in essere un comportamento discriminatorio il datore di lavoro che licenzi una lavoratrice per il suo stato di gravidanza, fuori dai casi consentiti dal D.Lgs. 26/03/01 n. 151, con conseguente obbligo del datore di lavoro, sul piano della rimozione degli effetti, di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro, di pagare alla stessa le retribuzioni dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa e di risarcire il danno non patrimoniale. (Trib. Pistoia 27/10/2005, decr., Est. De Marzo, in D&L 2006, con n. Sofia Lecconi, “Licenziamento discriminatorio e azione d’urgenza della Consigliera di Parità: presupposti e conseguenze”, 594)
- La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre per cessazione dell’attività presuppone il verificarsi di entrambi i presupposti previsti dalla norma e l’impossibilità di estendere analogicamente la fattispecie. (Cass. 18/5/2005 n. 10391, Pres. Mileo Rel. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2006, 92)
- Il licenziamento intimato alla lavoratrice all’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino in violazione dell’art. 2, secondo comma, L. n. 1204/1971, è affetto da nullità, a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61/1991, ed è improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento, in ragione del mancato guadagno. (Cass. 15/9/2004 n. 18537, Pres. Mattone Rel. Castaldi, in Lav. nella giur. 2005, con commento di Lucia Casamassima, 237)
- Il divieto di licenziamento delle lavoratrici madri, previsto dall’art. 54, D. Lgs. n. 151/01, opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio, ancorchè il datore di lavoro sia inconsapevole, alla data del licenziamento, dello stato della lavoratrice. (Trib. Roma 10/4/2003, Pres. Cortesani Rel. Blasutto, in Lav. nella giur. 2003, 1172)
- Ai fini dell’applicabilità dell’art. 2, comma 3, lett. a), L. n. 1204/1971, il quale rende inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre quando ricorra la colpa grave della stessa, non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento, ma è necessario verificare, con onere probatorio a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2697 c.c., se sussista quella colpa prevista specificatamente dalla norma suddetta e diversa, per la richiesta connotazione di gravità, da quella cui si riferisce la legge o la disciplina collettiva per casi generici di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto. In definitiva, si tratta di un’ipotesi di colpa più qualificata dal punto di vista soggettivo in ragione delle condizioni psicofisiche in cui versa la lavoratrice madre. (Trib. Roma 30/5/2002, Est. Cocchia, in Lav. nella giur. 2003, 290)
- Il licenziamento intimato alla madre lavoratrice in violazione della L. n. 1204/71 è nullo , ma ad esso non è applicabile l’art. 18 St. lav. Ne consegue, alla stregua dei principi generali del vigente sistema, che la declaratoria di nullità comporta, da un lato, che il recesso va considerato fin dall’inizio privo di effetti risolutori del rapporto-che, pertanto, giuridicamente è sempre pendente fino a quando non se ne verifichi una legittima risoluzione-e, dall’altro lato, che il creditore ha diritto al risarcimento dei danni come previsto dall’art. 1223 c.c. Peraltro la speciale tutela stabilita per la lavoratrice madre non esonera la stessa dall’offrire la prestazione di lavoro per poter conseguire, con la ripresa della funzionalità in fatto del rapporto o, comunque, con la messa in mora del creditore, il diritto alle retribuzioni o al risarcimento del danno. (Trib. Milano 16/4/2002, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 191)
- La garanzia per la lavoratrice del divieto di licenziamento intimato a causa di matrimonio nel periodo compreso tra la richiesta delle pubblicazioni ed un anno dalla celebrazione trova le uniche eccezioni nelle ipotesi previste nella stessa L. 9/1/63 n. 7. Ne consegue che è nullo, ai sensi della citata legge, il licenziamento intimato nell’anno dalla celebrazione delle nozze per avvenuto superamento del periodo di comporto. (Cass. 9/4/2002 n. 5065, Pres. Senese Est. Miani Canevari, in D&L 2002, 680, con nota di Lorenzo Franceschinis, “Tutela della lavoratrice per il licenziamento a causa di matrimonio e superamento del comporto”)
- Ai fini di verificare la sussistenza della colpa grave che, ex art. 2, l. 30/12/71, n. 1204, consente il licenziamento della lavoratrice in periodo di gestazione o puerperio, e che, per l’indicato connotato di gravità, è diversa dalla giusta causa e dal giustificato motivo soggettivo, nonché dalla colpa prevista dalla disciplina collettiva per generici casi d’infrazione o d’inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto, è necessario accertare, oltre che la ricorrenza di giusta causa di recesso, la sussistenza di quella colpa specificamente prevista, da provarsi dal datore di lavoro, nella condotta della lavoratrice, in ciò tenendosi conto del comportamento complessivo della lavoratrice stessa, in relazione alle sue particolari condizioni psicofisiche legate allo stato di gestazione, le quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso (nella specie, la corte ha precisato doversi tenere conto, per valutare l’elemento psicologico, dell’avere la stessa lavoratrice, un’impiegata esattrice che è stata licenziata per un ammanco contabile, avvisato il datore di lavoro della differenza contabile risultante dai bollettini di versamento per consentirne un immediato controllo) (Cass. 21/9/00, n. 12503, pres. Ianniruberto, est. Balletti, in Foro it. 2001, I, 110; in Lavoro giur. 2001, 343, con nota di Ferrau’, Lavoratrice madre e “giusta causa” di licenziamento per “colpa grave”)
- Il licenziamento intimato alla lavoratrice madre durante il primo anno di vita della figlia – in assenza della sopravvenuta impossibilità definitiva della prestazione lavorativa – è nullo per violazione dell’art. 2 L. 30/12/71 n. 1204 ancorché nella lettera di licenziamento l’effetto risolutivo del rapporto di lavoro sia stato differito a una data successiva al compimento del primo anno di età (Trib. Milano 15 aprile 2000, est. Cincotti, in D&L 2000, 785)
- Il licenziamento della lavoratrice madre intimato in violazione dell’art.2, 2° comma, L. 1204/71, nella formulazione risultante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 61/91, è nullo e, conseguentemente, non trova applicazione il regime sanzionatorio di cui all’ art. 18 S.L., bensì quello previsto per la nullità di diritto comune (Trib. Cassino 11/2/00,. est. Lisi, in Dir. lav. 2000, pag.376, con nota di Pietropaoli, La nullità del licenziamento della lavoratrice madre)
- Non integra la fattispecie della cessazione dell’attività dell’azienda, quale circostanza legittimante il recesso intimato nei confronti della lavoratrice madre o puerpera ex art. 2, 3° comma, lett. b), L. n. 1204/71, il licenziamento di tutti i dipendenti e la costituzione con alcuni di essi di rapporti di associazione in partecipazione (Trib. Cassino 11/2/00,. est. Lisi, in Dir. lav. 2000, pag.376, con nota di Pietropaoli, La nullità del licenziamento della lavoratrice madre)
- E’ nullo ai sensi dell’art. 2 L. 30/12/71 n. 1204 il licenziamento intimato alla lavoratrice madre prima del compimento del primo anno di età del bambino. Alla fattispecie si applica l’art. 18 SL a prescindere dalla verifica del numero dei dipendenti impiegati nell’impresa (Trib. Milano 9 febbraio 2000, est. Negri della Torre, in D&L 2000, 473)
- Alla lavoratrice madre illegittimamente licenziata non si applica il regime previsto dall’art. 18 SL, ma il regime della nullità di diritto comune, con la conseguenza che il licenziamento è inidoneo a estinguere il rapporto e la lavoratrice ha diritto al risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 1223 c.c. (Cass. sez. lav. 20 gennaio 2000 n. 610, pres. Delli Priscoli, est. Picone, in D&L 2000, 449, n. Messana, Licenziamento della lavoratrice madre)
- Al licenziamento della lavoratrice madre non è applicabile l’art. 6 L. 15/7/66 n. 604, che impone l’onere di impugnare il licenziamento entro il termine di decadenza di sessanta giorni (Cass. sez. lav. 20 gennaio 2000 n. 610, pres. Delli Priscoli, est. Picone, in D&L 2000, 449, n. Messana, Licenziamento della lavoratrice madre)
- Il licenziamento intimato da un’impresa con meno di 15 dipendenti nei confronti di una lavoratrice madre, in violazione della L. 30/12/71 n. 1204 (così come modificata dalla Corte Cost. con sent. n. 61 dell’8/2/91), è affetto da nullità, con conseguente carenza di effetti risolutori del recesso e continuazione del rapporto di lavoro, che è da considerare come giuridicamente esistente fino a quando non si verifichi una legittima causa di risoluzione. Non potendosi considerare interrotto il rapporto di lavoro, spetta il risarcimento dei danni, ai sensi dell’art. 1223 c.c., in misura pari alle retribuzioni non corrisposte (Pret. Vallo della Lucania, sez. Agropoli, 5/2/98, est. De Luca, in D&L 1998, 474)
- Durante il periodo di gravidanza delle lavoratrici addette ai servizi domestici non si applica il divieto di licenziamento stabilito dall’art. 1 della L. 30/12/71 n. 1204, ma ai sensi dell’art. 2110 c.c., il giudice determina equitativamente il periodo all’interno del quale è sottratto al datore di lavoro il potere di recesso, pena la nullità del relativo atto di esercizio (Trib. Roma 2/12/98 (ord.), pres. ed est. Cecere, in D&L 1999, 408)
- E’ illegittimo il licenziamento di una lavoratrice madre intimato , prima del compimento di un anno di età del bambino, da una società di gestione di servizi mensa per la cessazione di uno degli appalti di cui è titolare e a cui era addetta la lavoratrice, se non prova l’autonomia organizzativa o funzionale del servizio cessato rispetto agli altri da essa gestiti e la inutilizzabilità della lavoratrice licenziata in altra occupazione all’interno dell’impresa (Cass. 8/9/99, n. 9551, in Riv. It. Dir. Lav. 2000, pag. 517, con nota di Marra, Sul licenziamento della lavoratrice madre per cessazione di attività (ma non dell’azienda) )
- Il licenziamento che trova la sua reale motivazione nello stato di maternità della lavoratrice dev’essere dichiarato nullo perché discriminatorio. Le conseguenze sono quelle di cui all’art. 18 SL alla luce del disposto di cui all’art. 3 L. 11/5/90 n. 108 che richiama l’art. 15 SL, dovendosi ricomprendere nelle discriminazioni per ragioni di sesso a fortiori quelle a causa della maternità (Pret. Milano 19/9/97, est. Atanasio, in D&L 1998, 193)
- Il divieto di licenziamento della lavoratrice madre opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, a nulla rilevando la conoscenza o meno dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro al momento del licenziamento, mentre va interpretata in senso restrittivo, con riferimento ai soli casi di cessazione totale dell’attività, la deroga di cui all’art. 2, L.30/12/71 n.1204, che non può essere riconosciuta in ipotesi di chiusura della sola unità produttiva alla quale la lavoratrice era addetta (Pret. Milano 23/12/96, est. di Ruocco, in D&L 1997, 646)
- E’ costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 2 c. 3 L. 1204/71, nella parte in cui non prevede l’inapplicabilità del divieto di licenziamento nel caso di recesso per esito negativo della prova (Corte cost. 31/5/96, pres. Ferri, rel. Mengoni, in D&L 1996, 919, con nota di ROMEO)
- La nozione di colpa grave, di cui alla lettera a) del comma 3 dell’art. 2 L. 1204/71, è specifica rispetto a quella generale presupposta dall’art. 2119 c.c., per cui per la configurazione della deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre è necessaria la sussistenza di una riprovevolezza intrinseca, di una colpa morale, di una gravità oggettiva del comportamento della lavoratrice che serva a superare la considerazione in cui vanno tenute le condizioni psico – fisiche della gestante (o della puerpera), la quale si trova a vivere una rivoluzione dei ritmi biologici e psichici con ineliminabili effetti anche nell’immediata vita di relazione, compresa l’attività lavorativa (nella specie sono stati ritenuti non costituire giusta causa di licenziamento l’effettuazione di sette ritardi nell’inizio dell’attività lavorativa e la timbratura tempestiva del cartellino orario da parte del convivente, anch’egli dipendente del medesimo datore di lavoro) (Pret. Pistoia 12/12/94, est. Amato, in D&L 1995, 412)
- La deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice madre di cui all’art. 2 c. 3 lettera b) L. 1204/71 va intesa in senso restrittivo, con riferimento ai soli casi di cessazione totale dell’attività dell’azienda, con esclusione quindi dell’ipotesi di soppressione di un reparto o ufficio, anche se dotato di autonomia funzionale (Pret. Monza, sez. Desio, 8/11/94, est. Milone, in D&L 1995, 415)
- Il licenziamento intimato alla lavoratrice entro l’anno dalla celebrazione del matrimonio è nullo e non semplicemente inefficace e da tanto consegue il diritto della lavoratrice, oltre a un risarcimento del danno pari a tutte le retribuzioni dalla data del licenziamento sino alla ripresa del rapporto, alla reintegra nel posto di lavoro precedentemente occupato (Trib. Catania 23/11/94, pres. Pagano, est. Nigro, in D&L 1995, 433)
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di licenziamento in conseguenza di matrimonio
In genere
- La nullità del licenziamento a causa di matrimonio, prevista dall’art. 35, d.lgs. n. 198/2006, è limitata alla sola lavoratrice, senza che ciò possa essere considerato illegittimo o discriminatorio: la norma infatti risponde a una diversità di trattamento giustificata da ragioni legate alla maternità, costituzionalmente garantita alla donna, la quale, pur essendo titolare degli stessi diritti dei lavoratori uomini, adempie a un’essenziale funzione familiare, soprattutto nel periodo della gravidanza e del puerperio. (Cass. 12/11/2018 n. 28926, Pres. Di Cerbo Est. Patti, in Riv. It. Dir. Lav. 2019, con nota di D. Gottardi, “La protezione dai licenziamenti per causa di matrimonio delle lavoratrici non si estende ai lavoratori”, 188)
- Anche in forza di un’interpretazione della norma nazionale conforme alla normativa comunitaria sulla parità di trattamento tra uomo e donna, deve ritenersi nullo il licenziamento per causa di matrimonio intimato al “lavoratore”, superandosi in tal modo il dato letterale dell’art. 35, D.Lgs. n. 198 del 2006, nella parte in cui riferisce la tutela esclusivamente alle donne lavoratrici. (Trib. Milano 5/9/2016, Giud. Bertoli, in Lav. nella giur. 2017, 100)
- In assenza di prova che alla data di intimazione del licenziamento alla lavoratrice sposa l’attività della società fosse cessata, la situazione di crisi economica, ancorché grave, non può essere presa in considerazione di fronte a un’ipotesi di licenziamento intimato in un periodo in cui la tutela della lavoratrice è particolarmente forte. (Trib. Milano 10/3/2014, Giud. Moglia, in Lav. nella giur. 2014, 722)
- Il licenziamento intimato nel periodo compreso tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione del matrimonio, è affetto da nullità presumendosi, ai sensi dell’art. 1 della legge 7/63, disposto a causa del matrimonio; il divieto di licenziamento opera oggettivamente non sussistendo in capo alla lavoratrice alcun obbligo di comunicazione del matrimonio al datore di lavoro. (Trib. Milano 31/3/2006, Est. Ravazzoni, in D&L 2006, con nota di Alba Civitelli, “Sul divieto di licenziamento nell’anno del matrimonio”, 929)
- Il licenziamento della lavoratrice dopo la celebrazione del matrimonio, in mancanza di una colpa grave imputabile alla medesima, è nullo con conseguente riammissione in servizio e percezione della retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento all’effettiva riammissione al lavoro. (Trib. Firenze 28/2/2004, Est. Nuvoli, in D&L 2004, 412, con nota di Marco Orsenigo, “In tema di licenziamento disciplinare nell’anno di interdizione matrimoniale”)
- Latutela contro i licenziamenti per causa di matrimonio, prevista dall’art. 1, 2°e 3° comma, della legge 9/1/63 n. 7, è applicabile soltanto alle donne lavoratrici, non anche agli uomini, perché essenzialmente rivolta ad evitare che il datore di lavoro sia indotto a risolvere il rapporto in considerazione dei costi e delle disfunzioni conseguenti alle assenze per le eventuali maternità (Trib. Padova 9/5/00, est. Balletti, in Dir. Lav. 2000, pag. 261, con nota di De Cristofaro, Licenziamento per causa di matrimonio e tutela del lavoratore)