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Scheda sintetica
Il licenziamento è l’atto con cui il datore di lavoro risolve il rapporto di lavoro.
Esistono diverse motivazioni che possono dare origine al licenziamento:
- giusta causa
- giustificato motivo soggettivo
- giustificato motivo oggettivo
- licenziamento orale (o verbale)
- licenziamento in maternità o in conseguenza del matrimonio
Vediamo in sintesi di cosa si tratta, rimandando alle schede specifiche a ciascuna fattispecie per i necessari approfondimenti.
GIUSTA CAUSA
Comportamento del lavoratore che costituisca grave violazione ai propri obblighi contrattuali, tale da ledere in modo insanabile il necessario rapporto di fiducia tra le parti e che non consente la prosecuzione nemmeno temporanea del rapporto di lavoro (c.c. 2119).
La giusta causa pertanto, rappresenta nei fatti il licenziamento disciplinare per eccellenza; tale da troncare immediatamente il rapporto di lavoro senza neppure erogazione dell’indennità di preavviso.
In quanto sanzione disciplinare dovrà essere necessariamente preceduta dall’attivazione dell’obbligatorio procedimento disciplinare ed in particolare dalla preventiva comunicazione delle “contestazioni di addebito” al fine di consentire al dipendente una adeguata difesa da accuse eventualmente infondate.
I contratti collettivi elencano normalmente le ipotesi ed i fatti ritenuti tali da costituire giusta causa di licenziamento.
GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO
E’ rappresentato da comportamenti disciplinarmente rilevanti del dipendente ma non tali da comportare il licenziamento per giusta causa, e cioè senza preavviso.
Anche il giustificato motivo soggettivo pertanto rientra nell’ambito dei licenziamenti di tipo disciplinare, costituendo pur sempre una sanzione a comportamenti ritenuti tali da incidere in modo insanabile nel regolare proseguimento del rapporto di lavoro.
Ricordiamo che il licenziamento di tipo disciplinare è soggetto ad una specifica procedura, la cui violazione rende nullo il licenziamento stesso.
Vengono fatte rientrare nell’ambito del giustificato motivo soggettivo anche le figure dello scarso rendimento e/o del comportamento negligente del dipendente.
Trattandosi comunque di valutazioni sul comportamento del dipendente, anche nelle ipotesi di “scarso rendimento”, costituisce condizione di legittimità del recesso la preventiva contestazione degli addebiti con diritto del dipendente a svolgere adeguatamente le proprie difese.
GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO
E’ rappresentato da ragioni inerenti l’organizzazione del lavoro dell’impresa.
Costituisce pertanto G.M.O. la crisi dell’impresa, la cessazione dell’attività e, anche solo, il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, senza che sia possibile il suo “ripescaggio”, ovvero la ricollocazione del medesimo in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili con il livello di inquadramento.
Vengono ricondotti alla figura del giustificato motivo oggettivo anche le ipotesi in cui il lavoratore perda, non per propria colpa, le capacità necessarie a svolgere le mansioni per cui venne assunto.
Tale ipotesi tuttavia è stata più volte oggetto controversie giudiziarie e la giurisprudenza ha delimitato tale fattispecie.
E’ quindi estremamente importante che sia un esperto (ufficio vertenze sindacale o studio legale specializzato in diritto del lavoro) a considerare nel merito le motivazioni addotte, così da verificarne l’attendibilità.
LICENZIAMENTO VERBALE O ORALE
E’ il caso in cui il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera o altro).
Solitamente il datore di lavoro dice al lavoratore “non ho più bisogno di te”, “stai a casa, ti richiamo quando ho del lavoro da farti fare” ecc. o a seguito di un diverbio.
In questi casi è quantomeno necessario che il lavoratore faccia pervenire immediatamente una raccomandata A/R (di cui si tiene copia) nella quale lo stesso si mette a disposizione per la ripresa immediata dell’attività dando conto del fatto di essere stato allontanato dal datore di lavoro.
Anche in questo caso è opportuno un coinvolgimento immediato di un esperto (ufficio vertenze sindacale o studio legale specializzato in diritto del lavoro).
LICENZIAMENTO IN MATERNITA’ O IN CONSEGUENZA DI MATRIMONIO
Il licenziamento è nullo, in quanto la legge stabilisce precise norme a tutela della lavoratrice madre, tra cui appunto il divieto di licenziamento.
Ovviamente occorre procedere comunque all’impugnazione dello stesso con l’ausilio di un ufficio vertenze sindacale o di uno studio legale specializzato in diritto del lavoro.
Fonti normative
- Legge 604/1966
- Legge 108/1990
- Legge 300/1970, Statuto dei lavoratori
- Legge 4 novembre 2010 n. 183, cd. Collegato Lavoro
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Codice civile, art. 2118 2119
- Decreto legislativo n. 23/2015, recante disposizioni in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183
Cosa fare – Tempi
Occorre procedere all’impugnazione del licenziamento, che, secondo il quanto previsto dalla l. 183/2010 cd. Collegato Lavoro, deve avvenire entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale.
L’impugnazione del licenziamento può essere fatta con qualsiasi atto stragiudiziale comunque idoneo a manifestare la volontà del lavoratore: normalmente basta una raccomandata A/R (di cui si deve tenere copia).
Peraltro, tale impugnazione è inefficace se non è seguita entro il successivo termine di 180 giorni (270 giorni per i licenziamenti intimati prima del 18/07/2012, data di entrata in vigore della riforma), dal deposito in tribunale del ricorso oppure dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.
Si precisa che, a seguito della riforma del 2012, il datore di lavoro deve indicare, nella comunicazione del licenziamento, i motivi che l’hanno determinato (mentre, prima dell’entrata in vigore della legge, il datore aveva l’obbligo di comunicarli entro 7 giorni dalla richiesta di essi da parte del lavoratore, la quale, a sua volta, doveva avvenire entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento).
Inoltre può essere opportuno effettuare la messa a disposizione della prestazione per la ripresa dell’attività lavorativa.
Questa azione di tutela deve essere effettuata tempestivamente, meglio se fatta attraverso l’assistenza del sindacato o di uno studio legale.
Si vedano le modalità di impugnazione contenute nella specifica voce
A chi rivolgersi
- Ufficio vertenze sindacale
- Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Documenti necessari
Quando ci si rivolge ad un ufficio vertenze o ad uno studio legale è necessario portare con sé:
- lettera di assunzione
- lettera di licenziamento
- eventuali provvedimenti disciplinari irrogati nei 2 anni precedenti
- ultima busta paga
Informazioni utili
In caso di licenziamento individuale è importante presentare fare la domanda per l’indennità di disoccupazione.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di licenziamento
Nota: In questa voce sono riportate le decisioni riferite al licenziamento in generale.
Per informazioni sulle decisioni riferite:
- alle singole tipologie di licenziamento si vedano le singole voci (consultare il motore di ricerca digitando “Licenziamento”)
- agli effetti risarcitori di veda la voce Licenziamento illegittimo – Effetti
Impugnazione del licenziamento
- La compiuta giacenza della raccomandata inviata al domicilio del lavoratore è idonea a fondare la presunzione legale di conoscenza della lettera di licenziamento che contiene.
Tribunale e Corte d’appello, nel respingere la domanda di una lavoratrice diretta all’annullamento del licenziamento disciplinare intimatole, per intervenuta decadenza dal potere di impugnazione entro 60 giorni ai sensi dell’art. 6, l. 604/66, avevano giudicato valida la comunicazione del licenziamento avvenuta per compiuta giacenza della raccomandata inviata al domicilio della lavoratrice, e ciò sebbene la società datrice di lavoro avesse omesso di produrre in giudizio copia dell’avviso immesso nella cassetta. I giudici di merito avevano in particolare ritenuto idonea a dimostrare il perfezionamento del procedimento notificatorio la produzione della ricevuta di invio della raccomandata contenente la lettera di licenziamento, accompagnata dalle schede informative di Poste Italiane dalle quali si desumevano la mancata consegna della raccomandata, il suo deposito presso l’ufficio postale e la sua restituzione al mittente all’esito della compiuta giacenza. La Cassazione, nel rigettare il ricorso della lavoratrice, osserva che: (i) la presunzione legale di conoscenza degli atti unilaterali diretti a un determinato destinatario, di cui all’art. 1335 c.c., opera per il solo fatto oggettivo dell’arrivo dell’atto nel luogo indicato nella norma e può essere superata solo allorché sia fornita la prova contraria dell’impossibilità di averne notizia senza colpa da parte del destinatario; (ii) nel caso di specie, la presunzione di conoscenza della lettera di licenziamento non si fonda sulla sola prova della spedizione della raccomandata, avendo la società datrice di lavoro documentato anche le attività svolte dall’agente postale incaricato della consegna e la compiuta giacenza; (iii) la lavoratrice, dal canto suo, non è stata invece in grado di fornire la prova dell’impossibilità di avere notizia della comunicazione senza colpa, essendo la comunicazione pervenuta all’indirizzo che ella stessa aveva fornito al datore di lavoro, e non potendosi ritenere sufficiente a vincere la presunzione la mera allegazione di non avere mai rinvenuto l’avviso di giacenza nella sua casella postale. (Cass. 31/5/2023 n. 15397, Pres. Raimondi Rel. Michelini, in Wikilabour, Newsletter n. 11/23) - L’impugnativa stragiudiziale del licenziamento, ex art. 6, comma 1, della legge n. 604 del 1966, può efficacemente essere eseguita in nome e per conto del lavoratore dal suo difensore previamente munito di apposita procura scritta, senza che il suddetto rappresentante debba comunicarla o documentarla al datore di lavoro nel termine di sessanta giorni, perché, ferma la necessaria anteriorità della procura, è sufficiente che il difensore manifesti di agire in nome e per conto del proprio assistito e dichiari di avere ricevuto apposito mandato; il datore di lavoro convenuto in giudizio può contestare l’idoneità dell’impugnativa stragiudiziale sottoscritta dal solo difensore, anche se in precedenza non si sia avvalso della facoltà a lui concessa dall’art. 1393 c.c. (Cass. 13/4/2021 n. 9650 – Pres. Berrino – Rel. Amendola – P.M. Sanlorenzo (conf.) – D.R.E. c. Poste Italiane S.p.a.)
- Ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento ex art. 6, c. 2, L. n. 604 del 1966, come modificato dall’art. 32, c. 1, L. n. 183 del 2010, deve essere considerato idoneo, dopo la sentenza della Corte cost. n. 212 del 2020, anche il deposito di un ricorso cautelare anteriore alla causa, ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c. (Cass. 15/2/2021 n. 3818, Pres. Di Paolantonio Rel. Buffa, in Lav. nella giur. 2021, 549)
- L’allegazione e prospettazione di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro non vale ad escludere l’applicabilità della decadenza ex art. 32, L. n. 183/2010, in quanto pure in tale ipotesi non si può prescindere dall’accertamento di un rapporto di lavoro anche in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto. (Trib. Reggio Calabria 7/2/2021, ord., Pres. e Rel. Sicari, in Lav. nella giur. 2021, con nota di A. Romeo, (Presunto) unico centro di imputazione del rapporto di lavoro e decadenza dall’impugnazione del licenziamento, 754)
- È costituzionalmente illegittima, per violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), la mancata previsione anche del ricorso per provvedimento d’urgenza ex artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c., quale atto idoneo ad impedire l’inefficacia dell’impugnazione del comma 1 dell’art. 6, L. n. 604 del 1966 e a dare accesso alla tutela giurisdizionale, se posta in comparazione con l’idoneità riconosciuta, invece, dalla stessa disposizione censurata alla richiesta di attivazione della procedura conciliativa o arbitrale. Ed è altresì contraria al principio di ragionevolezza (riconducibile anch’esso all’art. 3 Cost.), in riferimento alla finalità sottesa alla previsione del termine di decadenza, essendo la domanda di tutela cautelare idonea a far emergere il contenzioso insito nell’impugnazione dell’atto datoriale. Invero, una volta definita la vicenda cautelare, ben può il datore di lavoro assumere l’iniziativa per far venir meno ogni incertezza sul rapporto giuridico sostanziale – ove ne residui alcuna – promuovendo egli stesso il giudizio di merito (massima non ufficiale). (Corte Cost. 14/10/2020 n. 212, Pres. Morelli Est. Amoroso, in Lav. nella giur. 2021, con nota di D. Borghesi, La Consulta inserisce forzosamente il ricorso ex art. 700 c.p.c. tra quelli che impediscono la decadenza dell’impugnazione del licenziamento, 50)
- È costituzionalmente illegittimo l’art. 6, comma 2, L. 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dall’art. 32, comma 1, L. 4 novembre 2010, n. 183, nella parte in cui non prevede che l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, oltre che dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, anche dal deposito del ricorso cautelare anteriore alla causa ai sensi degli artt. 669-bis, 669-ter e 700 c.p.c. (Corte Cost. 14/10/2020 n. 212, Pres. Morelli Est. Amoroso, in Lav. nella giur. 2021, con nota di F. Chietera, Ricorso cautelare ante causam e decadenza ex art. 32, L. n. 183/2010 di Francesca Chietera, 155)
- In tema di impugnazione del licenziamento, in caso di attivazione del procedimento stragiudiziale di conciliazione, ogniqualvolta esso non abbia esito positivo, per le parti insorge l’onere di depositare il ricorso giudiziario entro i successivi 60 giorni, rimanendo irrilevante la distanza temporale rispetto alla primitiva impugnazione stragiudiziale. (Trib. Venezia 7/3/2020, Giud. Menegazzo, in Lav. nella giur. 2020, 998)
- In caso di avvenuta impugnazione stragiudiziale di un licenziamento individuale a mezzo fax prima del compimento del 60° giorno, il termine per il deposito del ricorso decorre dalla spedizione dell’atto di impugnazione e non dalla conclusione del predetto periodo di 60 giorni. (Cass. 3/10/2016 n. 19710, Pres. Di Cerbo Rel. Balestrieri, in Lav. nella giur. 2017, 200)
- La raccomandata contenente la comunicazione del licenziamento che sia stata inviata a mezzo del servizio postale si presume conosciuta, ex art. 1335 c.c., nel momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, salvo che questi non provi di non averne avuto notizia; ne deriva che da tale data decorre il termine per impugnare il recesso intimato dal datore di lavoro. (Cass. 11/8/2016 n. 17062, Pres. Di Cerbo Rel. Amendola, in Lav. nella giur. 2016, 1124)
- L’art. 6, comma 2, L. n. 604 del 1966, nel testo modificato dall’art. 1, comma 38, L. n. 92 del 2012, deve essere interpretato, nel caso di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della L. n. 300 del 1970, e successive modifiche, nel senso che, ai fini della conservazione dell’efficacia dell’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, è necessario che, nel termine di centottanta giorni ivi previsto, venga proposto un ricorso secondo il rito di cui ai commi 48 ss. dell’art. 1 della stessa L. n. 92 del 2012 (nella fattispecie la S.C. ha di conseguenza ritenuto inidoneo a evitare l’inefficacia il deposito nel termine di un ricorso ante causam ai sensi dell’art. 700 c.p.c. (Cass. 14/7/2016 n. 14390, Pres. Macioce Rel. Napoletano, in Lav. nella giur. 2016, 1015)
- Una volta impugnato il licenziamento per mancanza di giusta causa e di giustificato motivo, non è poi possibile dedurre in secondo grado la nullità del licenziamento in quanto discriminatorio o ritorsivo, non essendo consentito addurre in grado di appello, a sostegno della propria pretesa, fatti diversi da quelli allegati in primo grado, anche quando il bene richiesto rimanga immutato, essendo, nella fase di gravame, precluse le modifiche che comportino anche solo una emendatio libelli, permessa solo all’udienza di discussione di primo grado, previa autorizzazione del giudice e solo ove sussistano i gravi motivi previsti dalla legge ex art. 420 c.p.c. (Cass. 5/7/2016 n. 13674, Pres. Venuti Rel. Lorito, in Lav. nella giur. 2016, 1017)
- In ipotesi di rifiuto del tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. il termine di decadenza ex art. 6, co. 2, ultimo periodo, della l. 604 del 1966 decorre dal momento in cui il diniego viene portato a conoscenza dell’istante e non trova applicazione la sospensione ex art. 410, co. 2, c.p.c. per la durata della conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, atteso che l’art. 6 legge 604/1966 prevede espressamente l’ipotesi in questione ed è norma speciale. (Trib. Milano 12/11/2014 n. 10790, ord., Est. Colosimo, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Frabrizio Ferraro, “Brevi note sulla sospensione della decadenza nel tentativo facoltativo di conciliazione”, 489)
- La tempestiva proposizione dell’impugnativa del licenziamento con le forme dell’art. 1, co. 48, l. 92/2012 impedisce definitivamente la decadenza di cui all’art. 6, co. 2, l. n. 604/1966, anche qualora il ricorso sia dichiarato inammissibile per errore sul rito. (Trib. Firenze 7/10/2014, Giud. Rizzo, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Angelo Danilo De Santis, “Errore sul rito, inammissibilità dell’impugnativa del licenziamento e impedimento della decadenza”, 478)
- L’impugnazione del licenziamento può essere fatta anche da un rappresentante del lavoratore a condizione che la procura o la ratifica dell’operato del rappresentante, a opera del lavoratore, avvenga per atto scritto avente data certa anteriore alla scadenza del termine di decadenza. Non può valere quale ratifica la procura ad litem conferita dal lavoratore in vista del giudizio, qualora sia stata rilasciata successivamente alla scadenza del termine di impugnazione del recesso. (Cass. 8/4/2014 n. 8197, Pres. Lamorgese Est. D’Antonio, in Lav. nella giur. 2014, 709)
- Il licenziamento si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore, anche se l’efficacia – ossia la risoluzione del rapporto di lavoro – è differita a un momento successivo, con la conseguenza che il termine di decadenza di 60 giorni, ai sensi dell’articolo 6 della legge n. 604 del 1966, decorre dalla comunicazione del licenziamento e non già dalla data di effettiva cessazione del rapporto. (Cass. 24/3/2014 n. 6845, Pres. Stile Rel. Buffa, in Lav. nella giur. 2014, 710)
- Il decorso del termine previsto a pena di inefficacia va ancorato al momento dell’invio della raccomandata di impugnativa del licenziamento. (Trib. Isernia 3/3/2014, Giud. Ciccarelli, in Lav. nella giur. 2014, 615)
- Oggetto della decadenza di cui all’articolo 6 della legge n. 604/1966 è l’impugnazione del licenziamento dapprima per via extragiudiziale (nel termine di 60 giorni), poi, per via giudiziale (entro il termine di 180 giorni), e ciò a prescindere dal tipo di tutela (ossia di sanzione in caso di illegittimità del recesso) richiesta nelle conclusioni. Si deve, perciò, reputare che, con l’impugnazione del recesso e con la richiesta di tutela processuale ai sensi dell’art. 18 Stat. Lav., dichiarata tempestiva nell’ordinanza del 12 luglio 2013 il ricorrente avesse già posto in essere il comportamento necessario per impedire la menzionata decadenza, ossia la proposizione dell’azione giudiziaria contro la risoluzione del rapporto (in tale ipotesi, il ricorrente aveva sostenuto la discriminatorietà del licenziamento con esito, però, avverso). Una volta, così, impedita la decadenza, null’altro termine risulta poi decorrere. (Trib. Milano 10/12/2013, Giud. Di Leo, in Lav. nella giur. 2014, 189)
- Il lavoratore che impugna il licenziamento, in presenza di un periculum qualificato, può agire col procedimento cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c. in ragione della sua differenza rispetto al nuovo rito previsto dalla l. n. 92/2012 che, invece, si profila come rito sommario. (Trib. Ravenna 18/3/2013, ord., Giud. Riverso, in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di Giorgio Bolego, “Il licenziamento disciplinare nel prisma della disciplina introdotta dalla l. n. 92/2012”, 549)
- La norma intervenuta a prorogare il termine previsto dal primo comma dell’art. 6, l. n. 604 del 1966 pare riguardare il differimento del termine di 60 giorni unicamente riferito all’impugnazione del licenziamento, con esclusione di tutte le altre fattispecie per le quali il collegato lavoro ha pure imposto il nuovo regime di decadenze, in coerenza con lo scopo della norma che è quello di far emergere tutto il contenzioso entro i termini fissati dalla legge. (Trib. Milano 12/11/2012, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2013, 203)
- I commi 49 e 57 dell’art. 1 l. n. 92 del 2012 (c.d. “Riforma Fornero”) distinguono una prima fase sommaria dal successivo giudizio di opposizione. Le regole istruttorie che presiedono alle due fasi sono nettamente differenti: nella prima fase vengono ammessi i mezzi istruttori indispensabili laddove, solo in sede di opposizione, valgono le ordinarie regole della cognizione piena. Lo stesso giudice persona fisica può definire (oltre che la prima fase) anche la fase eventuale di opposizione perché qualitativamente diverso è l’oggetto della cognizione: il fumus di fondatezza della domanda nella fase sommaria, sulla base di una istruttoria ridotta; il merito pieno nella eventuale fase di opposizione, sulla base di una istruttoria totale. La fase eventuale di opposizione nel c.d. “rito Fornero”, infatti, non ha carattere impugnatorio. (Trib. Piacenza, 12/11/2012, ord., Est. Picciau, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Mara Congeduti, 158)
- Il Tribunale di Milano è stato chiamato a pronunciarsi circa l’ambito di applicabilità della proroga disposta dal comma 1 bis aggiunto all’art. 32 del c.d. Collegato Lavoro; in particolare se questa concerna il solo licenziamento oppure anche le altre ipotesi diverse da questo previste dall’art. 32, commi 3 e 4, l. 4 novembre 2010, n. 183. (Trib. Milano 29/9/2011 n. 4404, Giud. Mariani, in Lav. nella giur. 2012, con commento di Claudio Menicagli, 489)
- In tema di impugnazione del licenziamento, per impedire il termine decadenziale basta depositare (entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento) la richiesta di procedura obbligatoria di conciliazione presso la Commissione di conciliazione. Il termine di sessanta giorni si sospende dal deposito di tale istanza perché è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di contratto del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provinciale del lavoro provvede a comunicare al datore la convocazione per il tentativo di conciliazione. Non è necessario, pertanto, che l’atto di impugnazione del licenziamento pervenga all’indirizzo del datore di lavoro entro i sessanta giorni previsti dall’art. 6, l. n. 604/66 per evitare la decadenza dalla facoltà di impugnare. (Cass. 2/12/2010 n. 24434, Pres. Roselli Rel. Roselli, in Lav. nella giur. 2011, 207)
- Nel procedimento di impugnazione del licenziamento, il lavoratore, dinanzi all’esistenza di un gruppo più o meno articolato e complesso, può cautelarsi formulando diverse ipotesi di reintegrazione, a seconda di quale sia l’effettivo datore di lavoro individuato dal giudice. Non è precluso alla parte formulare domande alternative o tra loro subordinate. Ma una volta accertato in fatto, con adeguata motivazione, che l’effettivo datore di lavoro ovvero il “dominus” del rapporto di lavoro è la società capogruppo, correttamente il giudice di merito dispone la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nei confronti di tale società. (Cass. 21/9/2010 n. 19931, Pres. Vidiri Est. Di Nubila, in Orient. Giur. Lav. 2011, 130)
- L’impugnazione del licenziamento ai sensi dell’art. 6, L. n. 604/66, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre il termine menzionato, atteso che – in base ai principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte Costituzionale – l’effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato a un servizio – idoneo a garantire un adeguato affidamento – sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta tra più forme di comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un’esistenza libera e dignitosa (art. 4 e 36 Cost.), concorre a mantenere un equo e ragionevole equilibrio degli interessi coinvolti. (Cass. 14/4/2010 n. 8830, Pres. Carbone Rel. Picone, in Lav. nella giur. 2010, 729, e in D&L 2010, con nota di Stefano Muggia, “Impugnazione del licenziamento: rileva la data di spedizione”, 574, e in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di D. Buoncristiani, “Tempestiva l’impugnazione se è avviato nei termini il procedimento di comunicazione”, 899)
- Al lavoratore che non abbia tempestivamente impugnato il licenziamento è precluso l’accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso e, conseguentemente, la tutela risarcitoria in base alle leggi speciali, né il giudice può conoscere dell’illegittimità del licenziamento per ricollegare al recesso illegittimo le conseguenze risarcitorie di diritto comune, in quanto l’ordinamento prevede, per la risoluzione del rapporto di lavoro, una disciplina speciale, con un termine breve di decadenza (sessante giorni) all’evidente fine di dare certezza ai rapporti giuridici. (Cass. 3/3/2010 n. 5107, Pres. Roselli Rel. Curzio, in Lav. nella giur. 2010, con commento di Daniele Iarussi, 1123)
- La decadenza dall’impugnativa del licenziamento impedisce al lavoratore di richiedere il risarcimento del danno secondo le norme codicistiche ordinarie, poiché non consente di far accertare in sede giudiziale l’illegittimità del recesso. L’azione di diritto comune può essere esercitata, anche in caso di decadenza, soltanto in via residuale per far valere profili di illegittimità del recesso che siano diversi da quelli previsti dalla normativa speciale sui licenziamenti, individuali o collettivi. (Cass. 5/2/2010 n. 2676, Pres. Roselli Rel. Zappia, in Lav. nella giur. 2010, con commento di Daniele Iarussi, 1123, e in Riv. it. dir. lav. 2011, con nota di Dario Scimè, “Per la Cassazione il diritto del lavoro, almeno per la fattispecie del licenziamento, è ancora un hortus conclusus”, 80)
- Il lavoratore che decade dall’impugnativa del licenziamento non può, in un secondo momento, chiedere il risarcimento dei danni derivanti dal recesso illegittimo secondo l’azione ordinaria. Se l’onere di impugnare nel termine di sessanta giorni non viene assolto, infatti, il giudice non può conoscere dell’illegittimità del licenziamento nemmeno per ricollegare, di per sé, al recesso conseguenze risarcitorie di diritto comune. (Cass. 5/2/2010 n. 2676, Pres. Roselli Rel. Zappia, in Lav. nella giur. 2010, con commento di Daniele Iarussi, 1123)
- Il lavoratore che decada dal termine per impugnare il licenziamento non può farne accertare l’illegittimità in giudizio e, pertanto, non potrà invocare né le tutele previste dalle leggi speciali, né il risarcimento del danno ai sensi della disciplina di diritto civile, poiché la decadenza preclude la possibilità di accertare il fatto costitutivo del diritto. Resta, tuttavia, salva la possibilità di esercitare l’azione risarcitoria di diritto comune per far valere i motivi di illegittimità del licenziamento che siano diversi da quelli previsti dalla normativa speciale, come nei casi di licenziamento ingiurioso o del licenziamento pubblicizzato con la finalità di nuocere alla figura professionale del lavoratore. (Cass. 4/5/2009 n. 10235, Pres. Ianniruberto Rel. Stile, in Riv. It. Dir. Lav. 2010, con nota di Paolo Emilio Rossi, “La formazione del consenso nel contratto estintivo del rapporto di lavoro subordinato”, 824)
- La decadenza dall’impugnativa del licenziamento preclude non solo l’azione reintegratoria ex art. 18 SL, ma anche la tutela risarcitoria di diritto comune, salvo che non sia dedotto un comportamento illecito diverso e ulteriore rispetto alla mera illiceità del recesso per difetto di giusta causa o giustificato motivo soggettivo e alla perdita della retribuzione. (Trib. Bolzano 30/1/2009, Est. Puccetti, in D&L 2009, con nota di Peter Michaeler, “La doppia vita del ‘padroncino’, vero trasportatore e vero subordinato”, 719)
- Con riguardo all’impugnazione stragiudiziale del licenziamento ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6 l. n. 604/1966, nel caso di dichiarazione a mezzo telegramma ex adverso contestata, il giudice, dopo aver accertato che il lavoratore non ha dato prova di aver sottoscritto l’originale consegnato all’ufficio postale di partenza, deve compiere indagini circa la sussistenza delle ulteriori due ipotesi dall’art. 2705 c.c. (aver consegnato personalmente o fatto consegnare l’originale del telegramma all’ufficio di partenza), che comunque legittimerebbero l’efficacia probatoria del telegramma e impedirebbero la decadenza dall’impugnazione. (Cass. 6/10/2008 n. 24660, Pres. Celentano Est. Mammone, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Andrea Rondo, “Impugnazione del licenziamento a mezzo di telegramma, onere della prova e poteri del giudice”, 355)
- L’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale e ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine. (Cass. 4/9/2008 n. 22287, Pres. Mattone Est. Roselli, in Orient. giur. lav. 2008, 728, e in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Marina Garattoni, “La Corte di Cassazione estende anche all’impugnazione stragiudiziale del licenziamento i principi della notifica di atti giudiziari”, 412)
- Una volta osservato il termine previsto dall’art. 6 della legge n. 604 del 1966 con l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo può essere proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., decorrente dalla comunicazione del recesso, senza che tale termine possa restare interrotto dal compimento di una divesra attività, quale l’istanza per il tentativo di conciliazione stragiudiziale. (Cass. 1/12/2008 n. 28514, Pres. ed Est. Mattone, in Lav. nella giur. 2009, 412)
- L’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiv, ossia impedisce la decadenza di cui all’art. 6, L. n. 604/1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale e ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine. (Cass. 4/9/2008 n. 22287, Pres. Mattone Est. Roselli, in Lav. nella giur. 2008, con commento di Orsola Razzolini, 1245)
- Poiché la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche, devolute al giudice, dei fatti che il datore di lavoro ha posto a base del recesso, la impugnazione della sentenza di primo grado che ha dichiarato la legittimità o illegittimità del licenziamento per sussistenza o insussistenza della giusta causa comprende la minor domanda relativa alla declaratoria della legittimità del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, e abilita il giudice di appello a pronunciarsi in tal senso anche in mancanza di espressa richiesta della parte, senza che vi sia lesione dell’art. 112 c.p.c. (Cass. 17/1/2008 n. 837, Pres. Mercurio Rel. De Matteis, in Lav. nella giur. 2008, 520)
- La mancata impugnazione del licenziamento nel termine di decadenza legale preclude l’accertamento dell’illegittimità del recesso ai fini della tutela sia reale che risarcitoria di diritto speciale (art. 18 St. Lav.) e di diritto comune (art. 1218 e art. 1453 c.c.), in quanto viene a mancre il presupposto necessario consistente proprio e soltanto nella dedotta illegittimità (nel caso di specie, il lavoratore non aveva fatto alcun cenno a qualche fatto illecito extracontrattuale da cui potesse derivare un’azione risarcitoria diversa da quella derivante dal licenziamento inteso come atto negoziale unilaterale del datore di lavoro incidente sul contratto. (Cass. 14/5/2007 n. 11035, Pres. Mattone Rel. Nobile, in Lav. nella giur. 2007, con commento di Alessio Muratorio, 879)
- Qualora, dopo aver già promosso un giudizio per l’impugnazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore proponga nuovo giudizio contenente impugnazione del medesimo licenziamento per violazione della L. 223/91, lo stesso deve ritenersi ammissibile in quanto il divieto di proporre nuove domande opera solo all’interno dello stesso giudizio e non ne preclude uno nuovo, basato su una diversa causa petendi. (Trib. Parma 13/4/2007 Est. Brusati, in D&L 2007, con nota di Alba Civitelli, “Sull’impugnazione dello stesso licenziamento per due distinti ricorsi”, 923)
- La mancata impugnazione del licenziamento nel termine fissato non comporta la liceità del recesso del datore di lavoro bensì preclude al lavoratore soltanto la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento ai sensi dell’art. 18 della L. n. 300 del 1970. Ne consegue che, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, qualora si sia verificata la decadenza dall’impugnazione è concesso al lavoratore di esperire la normale azione risarcitoria in base ai principi generali della responsabilità contrattuale o extracontrattuale, facendo valere i relativi presupposti, diversi da quelli previsti dalla normativa sui licenziamenti e tali da configurare l’atto di recesso come idoneo a determinare un danno risarcibile. (Cass. 10/1/2007 n. 245, Pres. De Luca Est. Figurelli, in Lav. nella giur. 2007, 826)
- Il licenziamento del dipendente che abbia già rassegnato le dimissioni è da considerarsi tamquam non esset e non può essere oggetto di impugnazione nemmeno quando detta impugnazione sia proposta al fine di rimuovere conseguenze ulteriori, diverse dalla cessazione del rapporto, che la legge riconnette all’esistenza o meno di un licenziamento (nella specie, l’impossibilità per il pubblico dipendente di accedere nuovamente a un pubblico concorso per l’assunzione ex art. 2, 2° comma, DPR 27/3/01 n. 220). (Trib. Milano 28/12/2006, Est. Peragallo, in D&L 2007, 266)
- La mancata impugnazione del licenziamento (nel termine fissato, a pena di decadenza, dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604) preclude al lavoratore licenziato l’azione diretta a ottenere l’accertamento della sua illegittimità, presupposto per conseguire il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ovvero dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, ma non preclude l’azione risarcitoria da fatto illecito, per la quale è comunque richiesta la ricorrenza di un fatto ingiusto che sia accompagnato al licenziamento, quale, per esempio, un licenziamento ingiurioso, un licenziamento come atto finale di una azione di “mobbing”, un licenziamento pubblicizzato al di fuori dell’azeinda con la finalità di nuocere alla figura professionale del lavoratore. (Cass. 12/10/2006 n. 21833, in ADL 2007, con nota di Luca Zaccarelli, “Ancora sulle conseguenze della tardiva impugnazione del licenziamento illegittimo”, 517)
- La mancata impugnazione del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo (nel termine fissato, a pena di decadenza, dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e, per i licenziamenti collettivi, dal terzo comman dell’art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223) preclude al lavoratore licenziato non solo l’azione diretta a conseguire il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, ovvero dell’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, ma anche l’azione risarcitoria di diritto comune ai sensi degli artt. 1218 e 1453 c.c. Se l’onere della tempestiva impugnazione non è assolto, il giudice non può conoscere dell’illegittimità del licenziamento neppure per ricollegare al recesso datoriale conseguenze risarcitorie di diritto comune. (Cass. 21/8/2006 n. 18216, Pres. Mileo Est. D’Agostino, in ADL 2007, con nota di Luca Zaccarelli, “Le conseguenze della tardiva impugnazione del licenziamento illegittimo”, 245)
- Il comportamento di un’infermiera di casa di cura privata che, nello svolgimento di attività di proselitismo religioso presso i parenti, tenta recidivamente di dissuadere i medesimi dallo svolgere le terapie, asserendo la natura demoniaca dei loro sintomi, e sostenendo che il datore, ben consapevole dell’inutilità delle cure, li trattiene in degenza per ragioni di profitto economico, può integrare gli estremi della giusta causa di recesso e costituisce quindi, a maggior ragione, esigenza obiettiva idonea a giustificare l’allontanamento definitivo del lavoratore dal contesto nel quale tali fatti si sono verificati; conseguentemente il dipendente che sia idoneo alle mansioni successivamente attribuitegli a seguito di tale allontanamento, non può impugnare il licenziamento invocando la sua idoneità a quelle precedenti. (Trib. Firenze 31/7/2006, Est. Taiti, in D&L 2007, con nota di Lisa Amoriello, “I provvedimenti datoriali alla luce del complicato intreccio fra oggettivo e soggettivo”, 527)
- Per evitare la decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento, è sufficiente che il lavoratore comunichi, entro il termine di decadenza previsto dall’art. 6 della L. 15/7/66 n. 604, all’organo amministrativo la richiesta di conciliazione prevista dall’art. 410, 2° comma, c.p.c., mentre la comunicazione di tale richiesta al datore di lavoro da parte dell’amministrazione può avvenire anche dopo la scadenza del termine di decadenza. (Cass. 19/6/2006 n. 14087, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in D&L 2006, con nota di Sara Vinciguerra e Giuseppe Bulgarini D’Elci, “Licenziamento: per evitare la decadenza dall’impugnazione basta l’avvio del tentativo di conciliazione”, 891)
- Il dovere di fedeltà, sancito dall’art. 2105 c.c., si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi; pertanto, rientra nella sfera di tale dovere il divieto di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore-datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, senza che sia necessaria, allo scopo, la configurazione di una vera e propria condotta di concorrenza sleale, in una delle forme stabilite dall’art. 2598 c.c. Nell’ipotesi di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore per assunta violazione del suddetto dovere di fedeltà, incombe al datore di lavoro l’onere di riscontrare rigorosamente i comportamenti attraverso i quali si sarebbe realizzata l’infedeltà del dipendente e, pertanto, la gravità della condotta di inaffidabilità tale da legittimare la sanzione del licenziamento. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza impugnata, con la quale era stata accolta l’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato nei confronti di un medico dipendente di una struttura medesima presso altri laboratori per indagini soprattutto sugli allergeni, senza che, però, fosse emersa un’idonea prova, incombente sulla datrice di lavoro, sui singoli casi comportanti la violazione ripetuta dell’obbligo di fedeltà, anche in considerazione della circostanza che l’avviamento di pazienti presso altri istituti privati poteva essere in ipotesi giustificato dalla inidoneità del laboratorio appartenente all’azienda da cui dipendeva il lavoratore a effettuare particolari complessi tipi di analisi e dalla necessità di osservare tempi più brevi per lo sviluppo di altre indagini). (Cass. 19/4/2006 n. 9056, Pres. Mattone Est. Lupi, in Lav. nella giur. 2006, 1019)
- Una volta osservato il termine previsto dall’art. 6, L. n. 604/1966 con l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, la successiva azione giudiziale di annullamento del licenziamento illegittimo può essere proposta nel termine quinquennale di prescrizione di cui all’art. 1442 c.c., senza che tale termine possa restare idoneamente interrotto dal compimento di una diversa attività, come nel caso in cui, nel corso del suddetto termine, sia intervenuta la costituzione di P.C. del datore di lavoro nel processo penale instaurato nei confronti del lavoratore, siccome l’azione risarcitoria fatta valere in sede penale non equivale alla predetta azione di annullamento, differenziandosene sia con riguardo al petitum sia che alla causa pretendi. (Cass. 13/12/2005 n. 27428, Pres.Sciarelli Rel. Di Cerbo, in Lav. Nella giur. 2006, 602)
- Con riguardo all’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 6, L. 15 luglio 1966, n. 604, nel caso di dichiarazione a mezzo di telegramma, incombe a colui che assume esserne il mittente la dimostrazione dell’esistenza delle condizioni richieste dall’art. 2705 c.c. perché il documento abbia l’efficacia probatoria della scrittura privata, che dall’altra parte sia stata contestata, fornendo la prova dell’incarico a consegnare, o dell’avvenuta consegna e anche mediante presunzioni. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto idoneamente provata la provenienza del telegramma contenente l’impugnativa di licenziamento da parte della lavoratrice sulla base del possesso della copia conforme del telegramma stesso). (Cass. 23/12/2003 n. 19689, Pres. Prestipino Rel. Balletti, in Lav. nella giur. 2004, con commento di Mauro Dallacasa, 1169)
- Per provare l’avvenuto recapito all’indirizzo del datore di lavoro dell’impugnativa di licenziamento (quale atto recettizio ex art. 1335 c.c.) il lavoratore può avvalersi di qualsiasi mezzo di prova, e quindi anche di presunzioni. (Cass. 30/7/2002, n. 11302, in Riv. it. dir. lav.2003, 400, con nota di Gilda Del Borrello, Sulla sede datoriale competente a ricevere l’atto d’impugnazione del licenziamento).
- Per indirizzo del datore di lavoro si intende un luogo che, per collegamento ordinario, o normale frequenza, o preventiva indicazione, appartenga alla sfera di dominio del destinatario. Pertanto, quando non sia contestato che il licenziamento provenga dalla sede regionale della società datrice di lavoro, è sufficiente, per escludere la decadenza ex art. 6, l. n. 604/1966, il tempestivo invio della impugnazione del licenziamento presso detta sede. (Cass. 30/7/2002, n. 11302, in Riv. it. dir. lav.2003, 400, con nota di Gilda Del Borrello, Sulla sede datoriale competente a ricevere l’atto d’impugnazione del licenziamento).
- La comunicazione al datore di lavoro, da parte dell’Ufficio provinciale del lavoro, della richiesta di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l’impugnativa scritta del licenziamento da parte del lavoratore, avvenuta nel termine di cui all’art. 6, l. 15/7/66, n. 604, impedisce la decadenza sancita nella medesima norma (Cass. 13/7/01, n. 9554, pres. Trezza, est. De Matteis, in Dir. lav. 2001, pag. 321)
- L’impugnativa per iscritto del licenziamento a norma dell’art. 6, l. n. 604/66 può essere validamente effettuata mediante telegramma inoltrato tramite l’apposito servizio di dettatura telefonica, sempreché l’invio del telegramma, anche se compiuto materialmente da parte di un altro soggetto e da un’utenza telefonica non intestata al lavoratore, avvenga per incarico ed a nome di quest’ultimo, il quale appaia autore della dichiarazione; in caso di contestazione in giudizio, l’interessato è onerato della prova dell’incarico anzidetto, che può essere fornita a mezzo di testimoni e per presunzioni (Cass. 5/6/01, n. 7620, pres. Santojanni, est. Toffoli, in Dir. lav. 2001, pag. 317)
- Costituisce atto scritto idoneo a impugnare il licenziamento, secondo il combinato disposto degli artt. 6, l. n. 604/66 e 2705 c.c., il telegramma inviato mediante dettatura telefonica del testo, rimanendo a carico del mittente, in caso di contestazioni, l’onere della prova della provenienza del telegramma, che potrà essere offerta anche mediante elementi indiziari, precisi e concordanti (Cass. 30/10/00, n. 14297, pres. De Musis, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 371, con nota di Palla, Revirement della S.C. sulla legittimità dell’impugnazione del licenziamento mediante telegramma telefonico)
- La mera accettazione del trattamento di fine rapporto ancorché non accompagnata da alcuna riserva non può essere interpretata, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinuncia ai diritti derivanti dall’illegittimità del licenziamento, non sussistendo alcuna incompatibiltà logica e giuridica tra l’accettazione di detto trattamento e la volontà di ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, al fine di conseguire l’ulteriore diritto alla riassunzione o al risarcimento del danno (Nella specie la S.C. ha ritenuto corretta anche la concorrente motivazione della sentenza di merito circa l’irrilevanza della rinuncia a precedente impugnazione stragiudiziale in6, l. 604/66) (Cass. 21/3/00 n. 3345, pres. Genghini, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 467) riferimento ad un licenziamento orale, non soggetto all’onere di impugnativa a pena di decadenza previsto dall’art.
- In caso di nullità del termine apposto al contratto di lavoro non sussiste per il lavoratore cessato dal servizio l’onere di impugnazione nel termine (di sessanta giorni) previsto a pena di decadenza dall’art. 6 L. 15/7/66 n. 604 (che presuppone un licenziamento), atteso che il rapporto cessa per l’apparente operatività del termine stesso in ragione dell’esecuzione che le parti danno alla clausola nulla. Si applica quindi la disciplina della nullità sicché in qualsiasi tempo il lavoratore può far valere l’illegittimità del termine e chiedere conseguentemente l’accertamento della perdurante sussistenza del rapporto e la condanna del datore di lavoro a riattivarlo riammettendolo al lavoro, salvo che il protrarsi della mancata reazione del lavoratore all’estromissione dall’azienda ed il suo prolungato disinteresse alla prosecuzione del lavoro esprimano, come comportamento tacito concludente, la volontà di risoluzione consensuale del rapporto stesso e sempre che il rapporto (apparentemente) a termine non si sia risolto per effetto di uno specifico atto di recesso del datore di lavoro (licenziamento), che si sia sovrapposto alla mera operatività del termine con la conseguente applicazione, in tale ultimo caso, sia del termine di decadenza di cui all’art. 6 cit., sia della disciplina della giusta causa e del giustificato motivo (Cass. 8/3/00 n. 2647, pres. Lanni, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 452)
- Il licenziamento privo della forma scritta non è soggetto al termine di decadenza di 60 giorni per la sua impugnazione (Cass. 27/7/99 n. 508, pres. Grossi, est. Ianniruberto, in D&L 1999, 889, n. Muggia, Violazioni gravi, tutela maggiore)
- Il licenziamento irrogato per giusta causa può essere impugnato dal lavoratore anche mediante telegramma dettato per telefono, che ha efficacia di scrittura privata e costituisce ipotesi simile alla consegna di un atto scritto (Trib. Messina 15/7/99, pres. Savoca, est. Conti, in Riv. It. Dir. Lav. 2000, pag. 533, con nota di Cattani, sull’impugnazione del licenziamento mediante telegramma telefonico)
- Non è necessaria l’impugnazione del licenziamento nel termine stabilito dall’art. 6 L. 15/7/66 n. 604 quando la domanda del lavoratore sia finalizzata unicamente al percepimento dell’indennità di preavviso ex art. 2118 c.c. (Trib. Milano 3/3/99, pres. ed est. Gargiulo, in D&L 1999, 673)
- L’acquiescenza alla risoluzione del rapporto e la rinuncia a impugnare il licenziamento non possono essere desunte dal fatto che il lavoratore abbia rilasciato quietanza a saldo di ogni diritto conseguente alla risoluzione del rapporto di lavoro, risolvendosi tale atto in una dichiarazione di scienza priva di qualsiasi valore negoziale (Cass. 26/7/96 n.6759, pres. Martinelli, est. Miani Canevari, in D&L 1997, 289, n. Muggia)
- E’ pienamente valida l’impugnazione del licenziamento da parte del solo sindacato anche qualora il lavoratore interessato non risulti iscritto all’associazione impugnante (Pret. Prato 20/7/95, est. Rizzo, in D&L 1995, 1026, nota CASAGNI, Note in tema di impugnazione del licenziamento di lavoratore non iscritto da parte del sindacato e di trasformazione del rapporto formalmente di apprendistato)
- Il licenziamento orale esclude l’onere per il lavoratore di impugnare, a pena di decadenza, il licenziamento stesso nel termine dei sessanta giorni, in quanto la carenza di forma scritta – prevista quale requisito sostanziale dell’atto di recesso – comporta l’assoluta inidoneità ad avviare la procedura di licenziamento nei termini di legge; il provvedimento in questione può essere impugnato nel termine di prescrizione quinquennale (Trib. Napoli 8/9/94, pres. Baccari, est. De Luca, in D&L 1995, 201)
Forma del licenziamento
- Al termine della cassa integrazione straordinaria per Covid il datore deve intimare un nuovo licenziamento in forma scritta e non può rifarsi a una precedente comunicazione, inefficace per contrasto con il divieto di licenziamento durante la pandemia.
Il Tribunale accoglie il ricorso presentato da un lavoratore, licenziato senza alcuna comunicazione scritta al termine del periodo coperto da cassa integrazione straordinaria per Covid, dopo che aveva già subito un licenziamento durante il periodo in cui operava il divieto di licenziamento dovuto all’emergenza pandemica. Secondo il Tribunale, infatti, non rileva che il lavoratore fosse già stato precedentemente licenziato per motivi economici, in quanto il datore di lavoro aveva revocato il licenziamento perché contrastante con il divieto stabilito dall’art. 18 DL 18/2020. Al termine della cassa integrazione straordinaria per Covid, il datore non ha né richiesto al ricorrente il rientro al lavoro, né intimato un nuovo licenziamento in forma scritta: di conseguenza, al lavoratore deve essere riconosciuta la tutela reintegratoria piena. (Trib. Castrovillari 16/1/2023, dott.ssa Caputo, in Wikilabour, Newsletter n. 8/23) - Nel caso di licenziamento comunicato via sms non può configurarsi una violazione dell’art. 2, co. 1, l. n. 604/1966. Il messaggio sms può assimilarsi al telegramma dettato per telefono o a una comunicazione via e-mail da valutare ai sensi dell’art. 20, co. 1-bis, d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione digitale). (Corte app. Firenze 5/7/2016 n. 629, Pres. Nistico Rel. Santoni Rugiu, in Riv. It. Dir. Lav. 2016, con nota di A. Rota, “Sul licenziamento intimato via sms”, 120)
- In caso di licenziamento intimato oralmente, il datore deve essere condannato all’immediato ripristino del rapporto di lavoro e a pagare al lavoratore tutte le retribuzioni dalla data di messa in mora, con offerta della prestazione lavorativa, sino all’effettiva riammissione in servizio, detratto l’aliunde perceptum. (Trib. Milano 19/7/2013, Giud. Colosimo, in Lav. nella giur. 2013, 1046)
- La consegna al dipendente del prospetto contenente l’indicazione dell’ammontare delle competenze spettanti a titolo di trattamento di fine rapporto, in assenza di altri elementi utili a supportarne la valenza, non è idonea a integrare la forma scritta richiesta per l’atto scritto di licenziamento. (Cass. 2/4/2013 n. 7980, Pres. Roselli Rel. Curzio, in Lav. nella giur. 2013, 615)
- Il licenziamento intimato oralmente è radicalmente inefficace per inosservanza dell’onere della forma scritta imposto dall’art. 2 l. 15 luglio 1966, n. 604, novellato dall’art. 2 l. 11 maggio 1990, n. 108, e, come tale, è inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro, non rilevando, ai fini di escludere la continuità del rapporto stesso, né la qualità di imprenditore del datore di lavoro, né il tipo di regime causale applicabile (reale o obbligatorio). (Cass. 10/9/2012 n. 15106, Pres. Roselli Est. Balestrieri, in Lav. nella giur. 2012, 1218)
- L’art. 6 sopra richiamato non può trovare applicazione in caso di licenziamento orale ovvero di licenziamento in cui non siano stati comunicati per iscritto i motivi. In questi casi trattandosi infatti di licenziamento nullo e/o inefficace per difetto di un requisito, la forma scritta, richiesta ad substantiam, il lavoratore che intenda agire per far valere tale vizio è tenuto a rispettare esclusivamente l’ordinario termine prescrizionale. (Trib. Milano 16/10/2008, Est. Lualdi, in Lav. nella giur. 2009, 312)
- Il licenziamento orale, disposto dal datore nei confronti di una lavoratrice qualificata come subordinata, in occasione della cessione in affitto di un proprio ramo d’azienda, è inefficace e può essere provato mediante una testimonianza de relato ex parte actoris. (Trib. Roma 13/5/2008, Est. Forziati, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Stefano Tortini, 278)
- Deve ritenersi idonea, ai fini del requisito della forma scritta, la riconsegna del libretto di lavoro con indicazione che il rapporto di lavoro è cessato e l’indicazione della data, avvenuta quando il rapporto è già interrotto e con lettera raccomandata, in quanto manifestazione indiretta ma inequivocabile della cessazione del rapporto medesimo e come tale dotato della forma scritta richiesta dall’art. 2 della L. n. 604 del 1966. (Trib. Venezia 26/2/2008, Giud. Coppetta Calzavara, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Silvia Foffano, 285)
- Il licenziamento deve essere comunicato in forma scritta, a pena di nullità. Il licenziamento del lavoratore marittimo è soggetto, senza alcuna attenuazione, a tale requisito di forma. Tale requisito di forma non può essere ravvisabile nell’annotazione della dicitura “fine contratto” sul libretto di navigazione. (Trib. Grosseto 8/1/2008, Rel. Ottati, in Lav. nella giur. 2008, 851)
- Il licenziamento intimato oralmente è inefficace e, quindi, inidoeno a risolvere il rapporto di lavor. Tale inefficacia determina la persistenza dell’obbligo retributivo in capo al datore di lavoro sino a quando non sopravvenga un’efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o la effettiva riassunzione. (Trib. Milano 21/12/2007, d.ssa Vitali, in Lav. nella giur. 2008, 961)
- Ai fini della validità formale del licenziamento non occorre che la comunicazione scritta, intesa alla risoluzione del rapporto di lavoro, sia formalmente diretta al lavoratore, ma è necessario almeno che essa sia portata a sua conoscenza. Così, la comunicazione del licenziamento indirizzata e spedita all’Ufficio del lavoro non è idonea a integrare i requisiti della forma scritta previsti per l’efficacia del recesso, se copia di essa non è inoltrata anche al lavoratore. (Cass. 19/6/2006 n. 14090, Pres. Ianniruberto Est. Di Nubila, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Valeria Nuzzo, “La forma scritta è richiesta o no ad substantiam per la comunicazione del licenziamento?”, 438)
- Non integra il requisito della forma scritta del licenziamento, richiesto dall’art. 2 della L. 15/7/66 n. 604, la consegna al lavoratore della busta paga con indicazione delle competenze di fine rapporto e della data di cessazione del rapporto di lavoro. (Corte app. Firenze 6/4/2006, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2007, con nota di Roberto Muller, “Sul requisito della forma scritta del licenziamento”, 237)
- Il licenziamento inefficace per mancanza di forma scritta dà diritto al lavoratore di ottenere le retribuzioni maturate senza necessità di un atto di costituzione in mora del datore di lavoro. (Corte app. Firenze 6/4/2006, Pres. Drago Est. Amato, in D&L 2007, con nota di Roberto Muller, “Sul requisito della forma scritta del licenziamento”, 237)
- La forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam sicchè, a norma dell’art. 2 L. 15/7/66 n. 604 sia l’intimazione del licenziamento che la comunicazione dei relativi motivi (ove il lavoratore ne abbia fatto richiesta), debbono, a pena di inefficacia, rivestire la forma scritta, con la conseguente irrilevanza di un’intimazione e di una contestazione espresse in forma diversa e della conoscenza che il datore ne abbia altrimenti avuto. Ai fini del risarcimento del danno, da determinarsi in base alle regole generali sull’inadempimento delle obbligazioni contrattuali, non è necessaria la costituzione in mora del datore di lavoro, mediante l’offerta delle prestazioni, occorrendo tuttavia che il lavoratore non abbia tenuto una condotta incompatibile con la reale volontà di proseguire il rapporto e di mettere a disposizione del datore le proprie prestazioni lavorative. (Cass. 9/3/2006 n. 11670, Pres. Mattone Est. Balletti, in D&L 2006, con nota di Enrico U.M. Cafiero, “Inefficacia del licenziamento, risarcimento del danno e non necessità della costituzione in mora del datore di lavoro”, 936)
- A norma dell’art. 2 della legge n. 604/1966, il licenziamento deve essere intimato per iscritto e la forma scritta del licenziamento è richiesta ad substantiam, per cui è stata considerata irrilevante la circostanza che il lavoratore destinatario del provvedimento abbia avuto conoscenza del provvedimento estintivo con mezzi diversi. Inoltre, qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità di tale licenziamento, mentre il datore di lavoro deduca la sussistenza di dimissioni del lavoratore, il materiale probatorio deve essere raccolto, da parte del giudice di merito, tenendo conto che, nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un’eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697, comma secondo, c.c. Segnatamente, ai fini della prova delle dimissioni, va verificato che la dichiarazione o il comportamento cui si intende attribuire il valore negoziale di recesso del lavoratore contenga la manifestazione univoca dell’incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che questa volontà sia stata comunicata in modo idoneo alla controparte, considerando che le dimissioni costituiscono un atto a forma libera, a meno che sia convenzionalmente pattuita la forma scritta ad substantiam. (Cass. 20/5/2005 n. 10651, Pres. Balletti Rel. Sciarelli, in Lav. e prev. oggi 2005, 1277)
- La forma scritta richiesta per il licenziamento e la sua impugnazione stragiudiziale può essere integrata da un telegramma, nella concorrenza del requisito della sottoscrizione da parte del mittente dell’originale consegnato all’ufficio postale oppure della consegna del medesimo da parte del mittente o per suo incarico, con l’ulteriore precisazione che alle stesse conclusioni deve pervenirsi in caso di telegramma dettato per mezzo dell’apposito servizio telefonico, qualora, in caso di contestazione, sia provata, anche per mezzo di testimoni o presunzioni, la effettiva provenienza del telegramma dall’apparente autore della dichiarazione. (Cass. 17/5/2005 n. 10291, Pres. Ravagnani Est. Toffoli, in Orient. Giur. Lav. 2005, 363)
- In base alle regole dettate dall’art. 2, L. n. 604/1966 (modificato dall’art. 2, L. n. 108/1990) sulla forma dell’atto e la comunicazione dei motivi del recesso, qualora l’atto di intimazione del licenziamento non precisi le assenze in base alle quali sia ritenuto separato il periodo di conservazione del posto di lavoro, il lavoratore – il quale, particolarmente nel caso di comporto per sommatoria, ha l’esigenza di poter opporre propri specifici rilievi – ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro di specificare tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento, con la conseguenza che nel caso di non ottemperanza con le modalità di legge a tale richiesta, il licenziamento deve considerarsi illegittimo. (Cass. 3/8/2004 n. 14873, Pres. Senese Rel. Cataldi, in Lav. nella giur. 2005, 171, e in Dir e prat. Lav. 2005, 81)
- Nei rapporti sottratti alla tutela reale, il licenziamento intimato oralmente deve ritenersi giuridicamente inesistente e come tale inidoneo ad incidere sulla continuità del rapporto di lavoro e quindi sul diritto del lavoratore alla retribuzione fino alla riammissione in servizio. (Corte d’appello Roma 3/6/2004, Pres. Zecca, in Lav. nella giur. 2005, 492)
- Come il telegramma dettato per telefono costituisce atto scritto idoneo ad impugnare il licenziamento ex art. 6, L. n. 604/1966, così analogo telegramma costituisce atto idoneo ad integrare la forma scritta richiesta dall’art. 2, comma 1, della stessa legge e successive modificazioni. Infatti la regola dettata dall’art. 2705, comma 1, c.c. è applicabile estensivamente all’ipotesi di telegramma dettato per telefono all’operatore dell’apposito servizio, in relazione al quale, in caso di contestazione, l’interessato dovrà fornire la prova della provenienza della dichiarazione da lui medesimo, anche con il ricorso a presunzioni, ponendosi al riguardo fare riferimento, in particolare, all’indicazione dell’autore della dichiarazione contenuta nel testo del telegramma, al possesso della copia del telegramma inviata la mittente in base alle vigenti norme postali, alla titolarità o all’uso esclusivo dell’utenza telefonica attraverso cui è avvenuta la dettatura del telegramma, all’eventuale pacificità per il destinatari, prima del giudizio, della provenienza del telegramma da parte dell’apparente autore della dichiarazione. (Corte d’appello Milano 6/8/2003, Pres. Ruiz Rel. De Angelis, in Lav. nellagiur. 2047, 88)
- Poiché, in tema di licenziamento intimato oralmente, l’inefficia dell’atto consegue alla sua nullità per mancanza della forma scritta ad substantiam, la domanda con la quale il lavoratore chiede la dichiarazione di nullità del licenziamento non si pone in contrasto con la contestazione del licenziamento per il fatto di essere stato intimato in forma orale; né il fatto che il lavoratore abbia formulato anche altre conclusioni o abbia attivato la procedura conciliativa presso la Commissione dell’Ufficio provinciale del lavoro può ritenersi incompatibile con la volontà del lavoratore stesso di far valere la inefficacia del licenziamento per tale ragione. (Cass. 16/9/2002, n. 13543, Pres. Sciarelli, Rel. Cataldi, in Lav. nella giur. 2003, 233, con commento di Gianluigi Girardi)
- La comunicazione del licenziamento acquista efficacia solo dal momento della ricezione della stessa da parte del destinatario, ed in caso di mancato recapito per assenza del destinatario la presunzione di conoscenza ex art. 1335 c.c. opera solo nel momento del rilascio, da parte dell’ufficio postale, dell’avviso di compiuta giacenza, e non dal momento in cui la comunicazione è giunto al recapito ove non è stata possibile la consegna. (Trib. Napoli 26/2/2003, Est. Caroppoli, in D&L 2003, 800)
- È inefficace il licenziamento intimato con lettera non recante la sottoscrizione del legale rappresentante della società datrice di lavoro. (Trib. Parma 16/12/2002, Est. Brusati, in D&L 2003, 414)
- Il licenziamento inefficace per vizi di forma (nella specie, perché intimato oralmente) rende improduttivo di effetti il recesso del datore di lavoro; tuttavia tenuto conto della natura corrispettiva delle obbligazioni a carico delle parti, in mancanza delle prestazioni lavorative il lavoratore non può avere diritto alla retribuzione ma al risarcimento del danno, presumibilmente commisurato alla mancate retribuzioni, restando a carico del datore di lavoro l’onere di provare l’aliud perceptum che il lavoratore possa aver conseguito svolgendo una qualsiasi attività lavorativa. A tale proposito, il datore di lavoro per essere ammesso a dedurre ed a provare tardivamente circostanze idonee a dimostrare l’aliud perceptum da parte del lavoratore, deve altresì provare di non aver avuto conoscenza delle stesse e di avere, una volta acquisita tale conoscenza, formulato le relative deduzioni nell’osservanza del principio, desumibile dagli artt. 414, 416 e 420 c.p.c., di tempestività di allegazione dei fatti sopravvenuti, all’uopo utilizzando il primo atto utile successivo alla conoscenza dei medesimi. (Cass. 16/9/2002, n. 13543, Pres. Sciarelli, Rel. Cataldi, in Lav. nella giur. 2003, 233, con commento di Gianluigi Girardi)
- E’ inefficace il licenziamento non comunicato per iscritto al lavoratore, ma posto direttamente in esecuzione con il suo allontanamento dal posto di lavoro, in tal caso spettando al lavoratore stesso, che abbia continuato ad offrire la prestazione al datore di lavoro, le retribuzioni non percepite durante il periodo di mancato svolgimento della prestazione stessa (nella specie, l’assemblea dei condomini di uno stabile aveva deliberato il licenziamento del portiere, al quale la delibera stessa non era però stata comunicata per iscritto) (Cass. 18/11/00, n. 14949, pres. Sciarelli, est. Amoroso, in Foro it. 2001, pag. 77)
- La finalità di certezza della manifestazione della volontà di licenziare e di ricezione della stessa da parte del destinatario, perseguita dal legislatore attraverso l’imposizione della forma scritta, è soddisfatta ogni qual volta il documento scritto basti alla estrinsecazione formale di detta volontà, ciò che si verifica anche col telegramma, purché il destinatario non ne disconosca la provenienza (Cass. 23/10/00, n. 13959, pres. Amirante, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1049)
- Il licenziamento orale (privo dei requisiti di forma di cui all’art. 2 L. 604/66 come modificato dalla L. 108/90) è inefficace e, pertanto, il rapporto di lavoro prosegue di diritto, con obbligo per il datore di lavoro di corrispondere le retribuzioni per il periodo dal giorno del licenziamento fino all’effettiva riammissione del dipendente nel suo posto di lavoro (Trib. Napoli 8/9/94, pres. Baccari, est. De Luca, in D&L 1995, 201. In senso conforme. v. Cass.1/10/97 n. 9606, est. Putaturo, pres. Panzarani, in D&L 1998, 472)
Comunicazione dei motivi
- Con la comunicazione del licenziamento è richiesta la contestuale comunicazione dei motivi, quale requisito di efficacia dell’atto, ai sensi dell’art. 2, co. 2 e 3, l. n. 604/1966. (Cass. 5/9/2016, n. 17589, Pres. Amoroso Est. Patti, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di R. Di Meo, “L’interpretazione contra legem del licenziamento inefficace nelle pmi e il livellamento verso il basso delle “tutele” in una recente pronuncia della Corte di Cassazione”, 227)
- Nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione ex art. 2, co. 2, l. n. 604/1966, come modificato dall’art. 1, co. 37, l. n. 92/2012, trova applicazione l’art. 8 della medesima legge, in virtù di un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche l’art. 18, l. n. 300/1970, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria. (Cass. 5/9/2016, n. 17589, Pres. Amoroso Est. Patti, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di R. Di Meo, “L’interpretazione contra legem del licenziamento inefficace nelle pmi e il livellamento verso il basso delle “tutele” in una recente pronuncia della Corte di Cassazione”, 227)
- Nel regime normativo vigente prima delle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, fermo restando l’obbligo della forma scritta, non era necessario che la comunicazione di licenziamento contenesse anche i motivi del licenziamento, in quanto tali motivi potevano essere richiesti da parte del dipendente entro 15 giorni dalla comunicazione del licenziamento, con conseguente obbligo del datore di fornirli nei successivi 7 giorni. (Cass. 19/12/2013 n. 28426, Pres. Lamorgese Rel. Amoroso, in Lav. nella giur. 2014, 407)
- I motivi del licenziamento devono contenere le necessarie precisazioni per consentire al lavoratore di esercitare il suo diritto di difesa, che non si risolve nella sola difesa giudiziaria, ma anche nel diritto di impugnare consapevolmente il licenziamento nei termini previsti dalla legge. (Cass. 3/8/2004 n. 14873, Pres. Senese Rel. Cataldi, in Lav. nella giur. 2005, 79)
- Il mero richiamo, nella comunicazione del licenziamento, alle formule linguistiche adoperate dal legislatore ai fini dell’esercizio del potere di recesso (nella specie “per riduzione del personale”) non integra motivazione del licenziamento ai sensi dell’art. 2 L. 15/7/66 n. 604, onde il licenziamento, sempre che sussista tempestiva richiesta di motivi formulata dal dipendente e rimasta inevasa, deve essere dichiarato inefficace. (Corte d’appello Potenza 4/12/2003, Pres. Scermino Est. Di Nicola, in D&L 2004, 197)
- L’obbligo del datore di lavoro, sancito dall’art. 2, 2° comma, L. 15/7/66 n. 604, di comunicare al lavoratore i motivi del licenziamento, se richiesti, sussiste solo nel caso di recesso da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (Trib. Milano 26 ottobre 1999, est. Frattin, in D&L 2000, 154)
- L’obbligo del datore di lavoro di comunicare, ove richiesto, i motivi del licenziamento è soddisfatto solo da un atto specificamente indirizzato al dipendente (nella specie è stato ritenuto insufficiente il mero richiamo a quanto esposto nelle assemblee condominiali) (Trib. Milano 9/2/94, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1995, 220, nota GUARISO, Licenziamenti nulli e inefficaci: crisi e resurrezione del diritto comune)
Rifiuto di ricevere comunicazione di licenziamento
- In tema di consegna dell’atto di licenziamento nell’ambito del luogo di lavoro, il rifiuto del destinatario di riceverlo non esclude che la comunicazione debba ritenersi regolarmente avvenuta, trattandosi di un atto unilaterale recettizio che non sfugge al principio generale per cui il rifiuto della prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell’obbligato e alla regola della presunzione di conoscenza dell’atto desumibile dall’art. 1335 c.c. (Cass. 18/9/2009 n. 20272, Pres. Ianniruberto Est. Balletti, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Daniela Comande, “Prima di tutto l’ambiente di lavoro: giusta causa di licenziamento per i ‘molestatori'”, 349)
- Il principio secondo cui, anche al di fuori dell’ambito di operatività dell’art. 138, secondo comma, c.p.c., il rifiuto del destinatario di un atto unilaterale recettizio di ricevere lo stesso non esclude che la comunicazione debba ritenersi avvenuta e produca i relativi effetti, ha un ambito di validità determinato dal concorrente operare del principio secondo cui non esiste, in termini generale e incondizionati, l’obbligo, o l’onere, del soggetto giuridico di ricevere comunicazioni e, in particolare, di accettare la consegna di comunicazioni scritte da parte di chicchessia e in qualunque situazione. In particolare, nel rapporto di lavoro subordinato è configurabile in linea di massima l’obbligo del lavoratore di ricevere comunicazioni, anche formali, sul posto di lavoro e durante l’orario di lavoro, in dipendenza del potere direttivo e disciplinare al quale egli è sottoposto (così come non può escluderi un obbligo di ascolto, e quindi ha confermato sul punto la sentenza di merito che aveva ritenuto illegittimo il rifiuto opposto dal lavoratore a ricevere la lettera di licenziamento che il datore intendeva consegnargli a mano all’interno della struttura nella quale lavorava e durante l’orario di lavoro. (Cass. 5/11/2007 n. 23061, Pres. Senese Est. Monaci, in Lav. nella giur. 2008, 307)
- La mancata sottoscrizione della lettera di licenziamento consegnata a mano al lavoratore e da quest’ultimo riconosciuta come atto riferibile al datore di lavoro, al punto da avere impugnato il licenziamento, non è causa di inesistenza/inefficacia dello stesso, in quanto, a differenza della comunicazione di licenziamento inviata per telegramma, non si pone il problema della verifica della riferibilità dell’atto al datore di lavoro. (Trib. Pistoia 20/4/2007, Est. De Marzo, in D&L 2007, con nota di Chiara Mancini, “Spunti in tema di sottoscrizione e motivazione della lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e di prova del requisito dimensionale”, 1213)
- Non può invocare il difetto di forma scritta del recesso e l’applicabilità della sanzione dell’inefficacia comminata dall’art. 2, per il caso di licenziamento orale, il lavoratore il quale rifiuti di accettare la lettera di licenziamento che il datore di lavoro abbia tentato di consegnargli in azienda durante l’orario di servizio. (Corte d’Appello Firenze 18/2/2003, Pres. Bartolomei Est. Amato, in D&L 2003, 796, con nota di Lisa Giometti, “Il rifiuto del lavoratore di accettare la consegna della lettera di licenziamento non priva del requisito della forma scritta l’atto di recesso”)
- Secondo un principio fondamentale del nostro ordinamento, desumibile dalle norme sulla mora credendi, nonché dall’art. 1335 c.c. e dall’art. 138 c.p.c., il rifiuto di una prestazione da parte del destinatario non può risolversi a danno dell’obbligato; per cui anche il rifiuto di ricevere l’atto scritto di licenziamento non impedisce il perfezionarsi della relativa comunicazione (Cass. sez. lav. 12 novembre 1999 n. 12571, pres. De Tommaso, est. Sciarelli, in D&L 2000, 209, n. Ianniello, Ancora sul licenziamento dei dirigenti intermedi. Una svolta?, e in Riv. it. dir. lav. 2000, pag. 746, con nota di Venditti, Recesso ad nutum e licenziamento del dirigente minore)
Revoca del licenziamento
- A seguito del licenziamento il rapporto di lavoro si risolve. Poiché, come per la costituzione, anche per la ricostruzione del rapporto è necessario il consenso del lavoratore, la revoca dell’atto non può avere, di per sé, l’effetto di ricostituire il rapporto stesso. Da ciò deriva che la revoca del licenziamento non determina l’estinzione dell’obbligazione con facoltà alternativa, a favore del lavoratore, di scegliere tra reintegrazione o indennità sostitutiva. La facoltà di chiedere l’indennità sostitutiva può essere pertanto esercitata anche ove il licenziamento sia stato revocato dal datore, purché alla revoca non sia seguito il ripristino del rapporto. (Cass. 17/11/2016 n. 23435, Pres. Amoroso Rel. Ghinoy, in Lav. nella giur. 2017, con commento di F. Di Martino, 125)
- La revoca del licenziamento non richiede la forma scritta atteso il principio per cui i negozi risolutori degli effetti di atti che richiedono – come il licenziamento – la forma scritta non sono assoggettati a identici requisiti formali in ragione dell’autonomia negoziale, di cui la libertà di forma costituisce, in mancanza di diversa prescrizione legale, significativa espressione. E parimenti libera, per le medesime ragioni, la forma dell’accettazione, da parte del lavoratore, della revoca del licenziamento, che può avvenire anche in forma tacita o presunta, ma il relativo accertamento presuppone una ricostruzione della volontà abdicativa, anche attraverso elementi indiziari ex art. 2729 c.c., in termini certi e idonei a consentire di attestare, in modo univoco, la volontà del lavoratore a rinunziare a un diritto già entrato nel suo patrimonio. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, da un lato, aveva escluso che la mera percezione dell’integrazione salariale costituisse comportamento tacito di accettazione della revoca – tanto più che il lavoratore collocato in CIGS a zero ore è alle dipendenze del datore di lavoro, non può dedicarsi ad altra attività lavorativa ed è vincolato al rispetto degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede – e, dall’altro, aveva accertato che il licenziamento era stato immediatamente impugnato dal lavoratore, che, successivamente, aveva pure invocato l’applicazione della garanzia di continuazione del rapporto ex art. 2112 c.c. nell’ambito della cessione d’azienda in corso). (Cass. 5/3/2008 n. 5929, Pres. Ciciretti Est. Stile, in Lav. nella giur. 2008, 728)
- La revoca da parte del datore di lavoro di un licenziamento illegittimo deve intendersi quale mera offerta, la quale, in mancanza dell’accettazione del lavoratore, non è idonea a rimuovere l’effetto estintivo del rapporto. (Trib. Napoli, sez. distaccata Ischia, 27/1/2005, ord., Est. Simeoli, in D&L 2005, con nota di Giuseppe Bulgarini d’Elci, “In tema di onere probatorio per la tutela reale”, 232)
- La revoca del licenziamento del lavoratore subordinato non richiede la forma scritta, poiché i negozi risolutori degli effetti richiedenti la forma scritta non sono assoggettabili ad identici requisiti formali, in ragione del principio secondo cui la forma degli atti è libera se la legge (o la volontà delle parti) non richiede espressamente una forma determinata; parimenti, e per lo stesso motivo, è libera la forma dell’accettazione della revoca del licenziamento, che comporta la rinunzia del lavoratore a far valere i diritti scaturenti dal licenziamento, ma il relativo accertamento richiede una ricostruzione della volontà abdicativa in termini certi, nel senso che la condotta del rinunziante attesti in modo univoco la volontà di dismettere un diritto entrato nel proprio patrimonio. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva negato che la percezione del trattamento CIGS potesse equivalere ad accettazione del ripristino del rapporto di lavoro, senza valutare adeguatamente la condotta della lavoratrice alla luce delle informazioni di cui la stessa disponeva sulle prospettive aziendali). (Cass. 1/7/2004 n. 12107, Pres. Sciarella Rel. Mazzarella, in Lav. nella giur. 2004, 1294)
- In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, la concessione del periodo di preavviso non costituisce un effetto direttamente derivante dalla legge, occorrendo invece che esso sia espressamente indicato nell’atto di recesso, cosicché, in mancanza della sua espressa previsione ed indicazione in tale atto, la prosecuzione di fatto della prestazione lavorativa in data successiva al licenziamento può costituire valido elemento dal quale ricavare la sopravvenuta revoca tacita del recesso. (Cass. 29/6/2003 n. 9973, Pres. Senese Rel. La Terza , in Lav. nella giur. 2004, 77; in Dir. e prat. lav. 2003, 3181)
- In ipotesi di licenziamento illegittimo, avverso il quale il lavoratore abbia ottenuto in sede cautelare un ordine di reintegrazione, è preclusa al datore di lavoro la possibilità di intimare, nelle more del giudizio di merito, un secondo licenziamento, quand’anche questo sia preceduto dalla revoca del primo e semprechè detta revoca sia stata rifiutata dal dipendente; infatti né la revoca non accettata, né la riammissione cautelare nel posto di lavoro possono produrre -a differenza di quanto accade con la reintegra- la ricostituzione del rapporto che pertanto non può validamente essere estinto da un nuovo licenziamento; ne consegue il diritto del dipendente di continuare a percepire, in forza dell’originario ordine cautelare, le retribuzioni maturate e maturande successivamente al primo licenziamento. (Trib. Firenze 16/8/2002, ord., Est. Muntoni, in D&L 2002, 984)
- La revoca di un licenziamento comporta l’inapplicabilità delle conseguenze di cui all’art. 18 SL solo ove vi sia stata immediata e piena restitutio in integrum dei diritti derivanti al lavoratore dal rapporto di lavoro o comunque l’offerta, da parte del datore di lavoro di un risarcimento pieno, tale da eliminare tutti gli effetti pregiudizievoli del licenziamento (Trib. Milano 30/1/99, pres. Mannacio, est. Gargiulo, in D&L 1999, 403)
- La prosecuzione del rapporto di lavoro, oltre il termine del periodo di preavviso convenzionalmente stabilito, deve intendersi quale revoca tacita del licenziamento intimato (Trib. Napoli 8/9/94, pres. Baccari, est. De Luca, in D&L 1995, 201)
Reiterazione del licenziamento
- Il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente. (Cass. 9/6/2015 n. 11910, Pres. Vidiri Est. Balestrieri, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Gabriele Di Martino, “Successione di licenziamenti, collettivo e individuale: effetti sul rapporto di lavoro nell’area della tutela reale”, 39)
- In merito al rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro, allorché abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne deriva che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nell’ipotesi in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente. (Cass. 6/12/2013 n. 27390, Pres. Vidiri Est. Nobile, in Lav. nella giur. 2014, 283)
- Il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo, con la conseguenza che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido e inefficace il precedente. (Cass. 20/1/2011 n. 1244, Pres. Foglia Est. Zappia, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Raffaele Galardi, “Art. 18 e continuità giuridica del rapporto: conferme sul potere del datore di licenziare”, 50)
- La rinnovazione del licenziamento, in base ai motivi posti a fondamento di un precedente licenziamento inficiato di nullità o comunque inefficace, non è in linea generale preclusa risolvendosi, detta rinnovazione, nel compimento di un negozio diverso dal precedente ed esulando l’ipotesi di inammissibilità della convalida del negozio nullo, ai sensi dell’art. 1423, norma diretta a impedire la sanatoria di un negozio nullo con effetti “ex tunc”, ma non a comprimere la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della loro autonomia negoziale al fine di regolare i loro interessi. (Principio affermato in controversia in cui nello stesso giorno in cui pervenivano le giustificazioni in ordine a un primo licenziamento, il datore di lavoro intimava nuovo licenziamento tenuto conto delle giustificazioni addotte dal lavoratore. La corte territoriale, con decisione confermata dalla S.C., aveva accertato la tempestiva impugnazione del primo licenziamento, ma non del secondo, con conseguente inammissibilità dell’azione proposta per la declaratoria dell’illegittimità del secondo licenziamento). (Rigetta, App. Napoli, 15 luglio 2003). (Cass. 6/11/2006 n. 23641, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in Dir. e prat. lav. 2007, 1312)
- Nel giudizio di impugnativa di un licenziamento, una volta che il lavoratore abbia chiesto la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 della legge n. 300 del 1970, la sopravvenienza nel corso del giudizio medesimo di un evento estintivo del rapporto di lavoro (nella specie, un nuovo licenziamento) non determina la carenza sopravvenuta dell’interesse alla pronuncia giudiziale, in quanto la domanda di reintegrazione ha ad oggetto l’accertamento della inidoneità del licenziamento impugnato ad estinguere il rapporto e del conseguente inadempimento del datore di lavoro, mentre l’evento sopravvenuto segna soltanto il dies a quo di un periodo successivo, al quale l’accertamento medesimo non può estendersi. (Cass. 5/7/2003 n. 10268, Pres. Ianniruberto Rel. Picone, in Dir. e prat. lav. 2004, 72)
- La rinnovabilità del recesso può essere consentita per recessi nulli o inefficaci per vizio di forma, poiché insuscettibili di incidere sulla prosecuzione del rapporto e tali da non escludere, per la inapplicabilità del divieto sancito dall’art. 1423 c.c., la libertà delle parti di reiterare la manifestazione della loro volontà negoziale al fine di regolare i loro interessi. Deve, pertanto, considerarsi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore dopo alcuni giorni dalla ripresa del servizio per gli stessi motivi addotti a sostegno di un precedente licenziamento per superamento del periodo di comporto che era stato revocato (perché ritenuto non valido dal datore, ma senza alcun accenno ai motivi della revoca), sia per violazione del principio di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c., sia perché la revoca preclude il successivo recesso quando esprima una volontà inconciliabile con quella di interrompere il rapporto per le stesse ragioni poste a fondamento del primo. (Trib. Milano 8/5/2002, Est. Marasco, in Lav. nella giur. 2003, 289)
- Al datore di lavoro è consentita la reiterazione del licenziamento dichiarato nullo per vizio di forma o per altro vizio procedurale, a ciò non essendo di ostacolo la necessità della sussistenza del requisito della tempestività del recesso, mentre la reiterazione stessa, se il vizio da cui è inficiato il primo licenziamento riguarda la configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo, è consentita solo se basata su nuova ragione giustificatrice, altrimenti essendo preclusa dal giudicato, o, se non si è ancora pervenuti alla formazione di quest’ultimo, dovendosi procedere, a seconda della situazione processuale in cui si versa, o alla riunione dei procedimenti, o alla dichiarazione di litispendenza, o alla sospensione del secondo giudizio, salva sempre, nelle more, l’esperibilità della procedura cautelare (Cass. 4/11/00, n. 14426, pres. Trezza, est. Vidiri, in Foro it. 2001, pag. 946)
- Il licenziamento dichiarato illegittimo (nella specie, per inosservanza delle garanzie di cui all’art. 7, 2° comma, l. 20/5/70, n. 300 ) non estingue il rapporto di lavoro, sul quale quindi possono avere definitivo effetto estintivo differenti cause sopravvenute, tra cui un successivo recesso che diviene privo di causa a seguito della pronunciata legittimità del primo licenziamento (Cass. 4/11/00, n. 14426, pres. Trezza, est. Vidiri, in Foro it. 2001, pag. 946)
- Nel caso in cui, dopo un primo licenziamento, ne sia intervenuto altro non tempestivamente impugnato, il giudice, chiamato a pronunziarsi sulle conseguenze del primo licenziamento, dichiarato illegittimo, deve limitarsi alla condanna del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 18, l. n. 300/ 70, quale sostituito dall’art. 1, l. 11/5/90, n. 108, al risarcimento dei danni subiti dai dipendente nel periodo corrente tra il primo e il secondo licenziamento, salva in ogni caso l’indennità minima di cinque mensilità, ma non può ordinare la reintegrazione nel posto prima occupato dal lavoratore, cui quindi non compete neppure il diritto all’indennità sostitutiva di cui all’art. 18, 5° comma, l. n. 300, cit., introdotto dall’art. 1, l. n. 108, cit. (Cass. 4/11/00, n. 14426, pres. Trezza, est. Vidiri, in Foro it. 2001, pag. 946)
Licenziamento in costanza di malatttia
- La giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro importa l’immediata estinzione del rapporto pur in costanza del periodo di comporto per malattia, e ciò anche quando la cognizione dei fatti da parte del datore di lavoro sia anteriore all’inizio della malattia e la contestazione sia successiva a questa (Cass. 20/10/00, n. 13903, pres. e est. Mercurio, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 1060)
- Il divieto di licenziamento del lavoratore in malattia prima della cessazione della stessa o dello scadere del comporto ex art. 2110, 2° comma, c.c. non opera in caso di integrale e definitiva cessazione dell’impresa (Trib. Torino 11/8/00, pres. e est. Paliaga, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 507, con nota di Pardini, Cessazione dell’impresa e licenziamento del lavoratore in malattia)
- Il licenziamento intimato in costanza di malattia del lavoratore non è nullo, ma solo temporaneamente inefficace fino alla guarigione o alla scadenza del comporto (Cass. 16/5/00, n. 6348, pres. Mercurio, est. Vigolo, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 562, con nota di Senatori, Relatività della regola dell’immediatezza della contestazione disciplinare e trasferimento d’azienda)
- Il datore di lavoro può intimare il licenziamento per giusta causa durante il periodo di comporto, giacché il divieto di recedere posto dall’art. 2110 c.c. riguarda solo il licenziamento ex art. 2118 c.c. e non già quello per ragioni che non consentano la prosecuzione provvisoria del rapporto (Pret. Nola, sez. Pomigliano d’Arco, 16/1/96, est. Perrino, in D&L 1996, 761)
Licenziamento per limiti di età
- Una normativa nazionale che autorizza il datore di lavoro a licenziare un lavoratore per il fatto che questi ha raggiunto l’età pensionabile incide sulla durata del rapporto di lavoro che lega le parti nonché sullo svolgimento da parte del lavoratore della sua attività professionale e rientra dunque nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/Ce, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c). (Corte Giustizia Ce 5/3/2009 causa C-388/07, Pres. Rosas Rel. Lindh, in D&L 2009, 929)
- La donna ultrasessantenne può essere licenziata ad nutum, perdendo la tutela di stabilità legale come previsto dalla legge 108/1990, se al compimento dell’età pensionabile non abbia preventivamente esercitato il diritto di opzione nei termini perentori di legge. Il difetto di esercizio del diritto di opzione e la prosecuzione del rapporto lavorativo oltre l’età pensionabile non costituiscono rinuncia del datore di lavoro all’esercizio del diritto di recesso. (Cass. 6/2/2006 n. 2472, Pres. Ianniruberto Rel. Vidimi, in Lav. Nella giur. 2006, con commento di Davide Gallotti e Emanuela Cusmai, 798)
- Con riferimento alla non applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti in ragione dell’età o della condizione pensionistica, disciplinata dall’art. 4 della legge n. 108 del 1990, dal sistema dei rinvii previsti dalla suddetta norma risulta che l’intenzione del legislatore era quella di escludere nei confronti dei suddetti lavoratori (in linea di massima) l’applicabilità dell’intera legge n. 604 del 1966, a prescindere dalla dimensione occupazionale del datore di lavoro, ed in particolare l’applicabilità della norma (rilevante nel caso di specie) che prevede l’inefficacia del licenziamento per violazioni delle prescrizioni formali (articolo 2 della legge n. 604 del 1966). (Cass. 11/4/2005 n. 7359, Pres. Mercurio Rel. Toffoli, in lav. e prev. oggi, 2005, 1275)
- Al datore di lavoro è imposto il divieto – la cui violazione implica l’applicazione, a seconda delle diverse condizioni, della tutela obbligatoria o reale del posto di lavoro – di esercitare il recesso ad nutum nei confronti della lavoratrice che, pur in possesso dell’età pensionabile, non abbia raggiunto l’età lavorativa massima, ella avendo diritto di proseguire il rapporto di lavoro, senza avere alcun onere di comunicazione al riguardo, fino al raggiungimento di quest’ultima età. (Cass. 24/4/2003 n. 6535, Pres. Ianniruberto Est. Prestipino, in Foro it. 2003, parte prima, 1577)
- E’ infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 4, secondo comma, L. 11 maggio 1990 n. 108, dell’art. 6 d.l. 22 dicembre 1981 n. 791, convertito, con modificazioni, in l. 26 febbraio 1982 n. 54, dell’art. 6, primo comma, l. 29 dicembre 1990 n. 407, modificato dall’art. 1, secondo comma, d. leg. 30 dicembre 1992 n. 503, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, primo comma, stesso d. leg. N. 503 del 1992, come modificato dall’art. 11, primo comma, l. 23 dicembre 1994 n. 724, nella parte in cui prevedeva, in via transitoria, che, mentre gli uomini conservano la stabilità del posto di lavoro fino al compimento del sessantatreesimo anno di età, le donne potevano continuare fino al sessantesimo anno e per poter usufruire del prolungamento al sessantatreesimo anno erano soggette all’onere di opzione, in riferimento agli artt. 3 e 37 Cost. (Corte Cost. 20/6/2002 n. 256, Pres. Ruperto Est. Amirante, in Foro it. 2003, parte prima, 2577)
Licenziamento nel pubblico impiego
- In tema di pubblico impiego “privatizzato”, l’assoluzione penale (nel caso di specie, per omicidio colposo) non preclude la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato al dipendente a cui è contestata in sede disciplinare la violazione di obblighi desumibili dal Codice di comportamento dei dipendenti pubblici di cui al D.M. 28 novembre 2000. (Cass. 15/07/2019 n. 18883, Pres. Napoletano Est. Tricomi, in Lav. nella giur. 2020, con nota di G. Picco, Il licenziamento per giusta causa di un dirigente medico tra autonomia del procedimento disciplinare e principio di proporzionalità, 982)
- Le modifiche apportate dalla l. n. 92 del 2012 all’art. 18 della l. n. 300 del 1970 non si applicano all’impiego pubblico privatizzato, sicché la tutela del dipendente pubblico, in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata l. n. 92, resta quella prevista dall’art. 18 St. lav. nel testo antecedente la riforma. (Cass. 4/4/2017, n. 8722, Pres. Macioce Est. Di Paolantonio, in Riv. It. Dir. Lav. 2017, con nota di A. Tampieri, “Violazione dell’incompatibilità permanenza dell’illecito disciplinare e acquiescenza dell’amministrazione”, 853)
- È legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che nell’orario di lavoro si allontani dal posto di lavoro senza timbrare il badge, in quanto la ratio dell’art. 55-quater d.lgs. n. 165 (anche nel testo antecedente alle modiche introdotte dal d.lgs. 116/2016) è sanzionare ogni falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, dovendosi considerare falsa e fraudolentemente attestata qualsiasi registrazione che miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita. (Cass. 14/12/2016, n. 25750, Pres. Macioce Est. Torrice, in Riv. It. Dir. lav. 2017, con nota di A. Ingrao, “Le norme imperative nel procedimento disciplinare del pubblico impiego privatizzato: gli assenti hanno sempre torto”, 629)
- Ai rapporti di lavoro disciplinati dal d.lgs. 165/2001, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla l. n. 92/2012 all’art. 18 St. lav., per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva all’entrata in vigore della richiamata l. n. 92 resta quella prevista dalla l. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alla riforma. (Cass. 9/6/2016 n. 11868, Pres. Macioce Est. Di Paoloantonio, in Riv. giur. lav. e prev. soc. 2017, II, con nota di A. Allamprese, “Il licenziamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni davanti alla Corte di Cassazione”, 78)
- L’art. 18 della l. n. 300/70, come novellato dall’art. 1 della l. n. 92/12, trova applicazione ratione temporis al rapporto di lavoro di pubblico impiego cd. contrattualizzato a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione previste dalla legge cd. Fornero. (Cass. 25/11/2015 n. 24157, Pres. Stile Est. Manna, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Filippo Aiello, “L’applicabilità al pubblico impiego privatizzato dell’art. 18 St. Lav.”, 25)
- Al licenziamento intimato al pubblico dipendente continuano ad applicarsi le disposizioni dell’art. 18, l.n. 300 del 1970, prima delle modifiche introdotte dalla l. n. 92 del 2012. (Trib. Venezia 2/12/2014, ord., Giud. Menegazzo, in Lav. nella giur. 2015, con commento di Mauro Dallacasa, 609)
- L’art. 18 St. lav. nel testo novellato dalla l. n. 92/2012 trova applicazione anche in caso di controversie riguardanti rapporti di pubblico impiego, perché l’art. 51, comma 2, D.Lgs. 165/2001 contiene un rinvio mobile all’art. 18 St. lav. e successive modificazione e integrazioni, sicché ogni novella della norma statutaria si rende applicabile al pubblico impiego in forza del richiamato rinvio. (Trib. Santa Maria Capua Vetere 2/4/2013, Giud. Cervelli, in Lav. nella giur. 2013, 624)
- In caso di licenziamento di un dipendente di amministrazione pubblica, disposto prima dell’entrata in vigore della legge 29 maggio 2012 n. 92, ma impugnato in giudizio successivamente (9 ottobre 2012), la controversia deve essere trattata secondo le regole del rito speciale previsto dall’art. 1, commi 47 e ss. Della legge citata, atteso che sono applicabili al rapporto di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche tanto detto rito speciale, quanto, a monte – e sebbene soltanto per i licenziamenti intimati dal 18 luglio 2012 –, la norma sostanziale di cui al novellato art. 18 St. lav. (nel caso di specie, peraltro, il giudice ha escluso che la comunicazione di collocamento a riposo del dipendente per raggiungimento del limite massimo di età previsto dalla legge potesse essere qualificato come licenziamento). (Trib. Bari 14/1/2013, Giud. Vernia, in Riv. It. Dir. Lav. 2013, con nota di Riccardo Del Punta, “Sull’applicazione del nuovo art. 18 al rapporto di lavoro pubblico”, 410)
- La previsione contenuta nell’art. 72, 11° comma, DL 25/6/08 n. 112, che prevede per le amministrazioni pubbliche la facoltà di procedere al licenziamento del lavoratore che abbia raggiunto l’anzianità contributiva di 40 anni, è incompatibile con l’ordinamento comunitario e in particolare con la direttiva n. 2000/78/Ce in quanto non discrimina i lavoratori in ragione dell’età, ma stabilisce una particolare disciplina in ragione del raggiungimento della soglia di 40 anni di contributi. (Trib. Milano 14/6/2010, ord., Pres. Atanasio Est. Colosimo, in D&L 2010, con nota di Sonia Elena Bolatti, “La risoluzione del rapporto di lavoro dopo il raggiungimento dell’anzianità contributiva di quarant’anni”, 1149)
- La facoltà attribuita alle amministrazioni pubbliche dall’art. 72, 11° comma, DL 25/6/08 n. 112, di procedere al licenziamento del lavoratore che abbia raggiunto l’anzianità contributiva di 40 anni, è soggetta al rispetto dei principi privatistici di correttezza e buona fede e ai principi pubblicistici di ragionevolezza e trasparenza. (Trib. Milano 14/6/2010, ord., Pres. Atanasio Est. Colosimo, in D&L 2010, con nota di Sonia Elena Bolatti, “La risoluzione del rapporto di lavoro dopo il raggiungimento dell’anzianità contributiva di quarant’anni”, 1149)
- La facoltà che l’art. 72 c. 11 del d.l. n. 112/2008, convertito con l.n. 133/2008, assegna alla p.a. di risolvere il rapporto lavorativo con i dipendenti con anzianità contributiva di 40 anni deve essere esercitata nel rispetto della buona fede, con conseguente obbligo di motivazione da parte del datore di lavoro pubblico (nella specie, il Tribunale ha dichiarato illegittimo il collocamento a riposo di un medico, disposto senza espressa motivazione). (Trib. Reggio Emilia 12/1/2009, ord. Est. Parisoli, in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Davide Casale, “Il licenziamento del personale pubblico (dirigente) con quaranta anni di anzianità contributiva ex art. 72 del D.L. n. 112/2008”, 1051)
- L’art. 72 c. 11 del d.l. n. 112/2008, convertito con l. n. 133/2008, nel consentire alle p.a. la risoluzione del rapporto lavorativo con i dipendenti con anzianità contributiva di 40 anni, non ha inteso derogare alla disciplina delle durata e della revoca degli incarichi dirigenziali (nella specie, il Tribunale ha dichiarato illegittimo il collocamento a riposo di un medico che aveva un incarico dirigenziale preesistente al predetto decreto legge). (Trib. Reggio Emilia 12/1/2009, ord. Est. Parisoli, in Lav. nelle P.A. 2008, con commento di Davide Casale, “Il licenziamento del personale pubblico (dirigente) con quaranta anni di anzianità contributiva ex art. 72 del D.L. n. 112/2008”, 1051)
- In tema di licenziamento del dipendente (nel caso, il Direttore dei Servizi Generali Amministratividi un IstitutoScolastico) per persistente insufficiente rendimento l’amministrazione è tenuta alla specifica contestazione dei fatti oggetto di recidiva solo quando detti fatti risultino elemento costitutivo dell’addebito, e non meramente accidentale quale criterio di valutazione della gravità della condotta. (Trib. Bari 16/10/2008, ord., Est. Arbore, in Lav. nelle P.A. 868)
- Il licenziamento per persistente insufficiente rendimento può essere disposto dinanzi a una ipotesi di particolare gravità dell’infrazione purché sia concretamente sussistente il nesso di proporzionalità fra sanzione e infrazione. (Trib. Bari 16/10/2008, ord., Est. Arbore, in Lav. nelle P.A. 868)
- E’ legittima la risoluzione del rapporto di lavoro disposta dall’amministrazione allorché il dipendente abbia dichiarato l’inesistenza di situazioni di incompatibilità con il rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione in base all’art. 508 d.lgs. n. 297/1994 o all’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, essendo l’effetto risolutorio del rapporto di lavoro previsto per tale ipotesi tanto dalla fonte legislativa (art. 1, comma 61, L. n. 662/1996) quanto da quella contrattuale, posto che nel contratto individuale di lavoro in essere tra le parti era espressamente previsto che la non veridicità del contenuto delle dichiarazioni avrebbe comportato l’immediata risoluzione del rapporto di lavoro. Il contratto di servizio civile, pur non costituente lavoro pubblico, concretizza una situazione di incompatibilità, trattandosi di rapporto a titolo oneroso con un impegno di orario. (Nel caso, il dirigente scolastico aveva disposto la risoluzione di un rapporto di lavoro a termine con un collaboratore scolastico). (Trib. Parma 9/4/2008, ord., in Lav. nelle P.A. 2008, 408)
- Le garanzie procedimentali previste per il licenziamento individuale dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori trovano applicazione anche quando il licenziamento riguardi un dirigente, a prescindere dalla sua specifica collocazione nell’impresa, e ciò sia nel caso di addebito di comportamento negligente, sia nel caso in cui a fondamento del licenziamento siano poste condotte atte a far venire meno la fiducia del datore di lavoro. La mancata applicazione delle garanzie procedimentali comporta la non valutabilità delle condotte causative del recesso e l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione. (Cass. 30/3/2007 n. 7880, Pres. carbone Rel. Vidiri, in Lav. nelle P.A., 541)
- Poiché la disciplina della dirigenza privata non è sovrapponibile a quella della dirigenza pubblica, e il rapporto dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilato dall’art. 21 D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, a quello della categoria impiegatizia, la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici segue i canoni del rapporto di lavoro dei dipendenti privati con qualifica impiegatizia, ed è assoggettata, ex art. 51, 2° comma, D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 alla disciplina dello Statuto dei Lavoratori; pertanto, il dirigente illegittimamente licenziato dall’Amministrazione ha diritto alla reintegrazione ex art. 18 Statuto dei Lavoratori. (Cass. 1/2/2007 n. 2233, Pres. Senese Rel. Picone, in Lav. Nelle P.A. 515)
- In presenza di più impugnazioni dello stesso licenziamento, il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile implica che il risultato di un processo (conclusosi con sentenza passata in giudicato) non possa più essere messo in discussione mediante ragioni o argomentazioni che in quello stesso processo avrebbero potuto essere fatte valere dall’interessato; in particolare, riguardo al licenziamento disciplinare, è preclusa per effetto del precedente giudicato l’impugnazione che deduca nuovi e diversi profili di illegittimità da parte del lavoratore dipendente, dovendosi, in ogni caso, escludere che il giudicato sulla validità sostanziale del licenziamento consenta un’altra impugnazione per motivi formali, restando del tutto irrilevante che gli eventuali, relativi vizi non siano stati dedotti o siano stati tardivamente, e perciò inammissibilmente, fatti valere (fattispecie in tema di lavoro alle dipendenze di pubblica amministrazione). (Cass. 28/9/2006 n. 21032, Pres. Senese Est. Picone, in Giust. Civ. 2007, 1259)
- L’art. della l. 7 febbraio 1990, n. 19, sancisce il divieto dell’automatica destituzione di diritto a seguito di condanna penale, nel caso, però, di destituzione per applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, quid pluris rispetto alla sanzione penale, si ritiene ancora operante la destituzione di diritto data la gravità della sanzione. (Consiglio di Stato 6/8/2002, n. 4099, Pres. De Roberto, Est. Roxas, in Giur. italiana 2003, 374)
- L’estinzione del rapporto di servizio e di pubblico impiego non può avvenire tacitamente ma consegue sempre ad una determinazione espressa nelle forme di legge (Consiglio di Stato 20/11/00, n. 6181, pres. Catallozzi, est. Poli, in Foro it. 2001, pag.2, parte terza)
- Il provvedimento di riammissione in servizio ex art. 132, d.p.r. 10/1/57, n. 3 appartiene alla categoria degli atti negoziali discrezionali presupposti e, in quanto tale, comporta un obbligo di motivazione da parte dell’autorità amministrativa; ne consegue che, in applicazione dell’art. 68 d. lgs. 29/93, in caso di difetto di motivazione la natura della posizione tutelata (diritto soggettivo alla riassunzione) impone l’adozione di un provvedimento di condanna dell’amministrazione alla riassunzione, con decorrenza degli effetti giuridici ed economici non dalla data della domanda giudiziale, ma dalla delibera di ricostituzione del rapporto (Trib. Pordenone 20/3/00, pres. Lazzaro, in Lavoro nelle p.a. 2000, pag. 909, con nota di Vianello, Pubblico impiego privatizzato e posizioni giuridiche transgeniche)
- Qualora il lavoratore abbia presentato istanza per la concessione di un ulteriore periodo di aspettativa per malattia, l’omesso esame di tale istanza rende illegittimo il successivo provvedimento di sospensione dal servizio adottato dalla pubblica amministrazione per superamento del periodo di comporto: se è vero, infatti, che il provvedimento di sospensione dal servizio è un atto discrezionale, è altrettanto vero che tale atto presuppone un corretto esercizio del potere attraverso il preventivo esame della suddetta istanza del lavoratore (Trib. Milano 19 luglio 1999, est. Curcio, in D&L 2000, 193)
- Il fatto che nella sanità i due livelli di dirigenza siano contenuti in uno stesso inquadramento legale e che il contratto collettivo attribuisca agli stessi un identico trattamento normativo impone, in via di principio, la conseguenza che entrambi i livelli siano esclusi dalla tutela reale (art. 10 L. 15/7/66 n. 604) (Trib. Milano 22/6/99, est. Mannacio, in D&L 1999, 665, n. De Cesaris, I dirigenti nella dirigenza sanitaria: dai giudici del lavoro due pronunce contrastanti)
- Deve ritenersi nullo l’art. 36 del Ccnl del settore sanitario nella parte in cui prevede l’applicabilità del recesso ad nutum anche ai dirigenti sanitari inquadrati al I livello. A questi infatti sono attribuite funzioni equiparabili a quelle impiegatizie e devono pertanto ritenersi applicabili sia la L. 15/7/66 n. 604 sia l’art. 18 SL (Pret. Milano 3/5/99 (ord.), est. Curcio, in D&L 1999, 665, n. De Cesaris, I dirigenti nella dirigenza sanitaria: dai giudici del lavoro due pronunce contrastanti)
Licenziamento discriminatorio
- Discriminatorio applicare alle assenze per inabilità lo stesso comporto previsto per le assenze per malattia.
Un operatore ecologico, riconosciuto portatore di handicap con capacità lavorative ridotta del 75%, aveva impugnato il licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto (c.d. per sommatoria), sostenendone la natura discriminatoria. Sia i giudici di merito che la Cassazione riconoscono il carattere indirettamente discriminatorio del licenziamento, dichiarandolo pertanto nullo, con le conseguenze di legge. Secondo la Corte, infatti, per il personale disabile il rischio di accumulare giorni di assenza per malattia è maggiore di quello riferibile al restante personale; il che impone, alla stregua del diritto comunitario, prima ancora che del diritto interno di tutela dei disabili, una disciplina del comporto riferita a questi ultimi diversa e con un maggior numero di giorni tutelati. La sentenza in esame apre un grosso problema, dato che il Italia molti contratti collettivi prevedono un’unica disciplina del comporto per tutto il personale e sono pertanto a rischio di essere dichiarati parzialmente nulli, mentre l’alternativo ricorso all’equità, più che a usi in materia inesistenti, appare piuttosto problematico. (Cass. 31/3/2023 n. 9095, Pres. Raimondi Rel. Michelini, in Wikilabour, Newsletter n. 8/23) - La nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformità al contenuto della Dir. n. 2000/78/CE del 27 novembre 2000 sulla parità di trattamento in materia di occupazione, come interpretata dalla Corte di Giustizia UE, quindi quale limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale sulla base del principio di uguaglianza con gli altri lavoratori. (Cass. 12/11/2019 n. 29289, Pres. Nobile Est. Blasutto, in Lav. nella giur. 2020, con nota di G. Schiraldi, L’accomodamento ragionevole tra la roccaforte della tutela antidiscriminatoria e gli effetti indesiderati, 970)
- In tema di licenziamento discriminatorio incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso (nella specie, è stata esclusa la configurabilità di una condotta discriminatoria nel licenziamento di una lavoratrice affetta da handicap, in forza della dimostrata necessità di riduzione del personale di un’unità e del divieto di recesso nei confronti dell’unica altra dipendente ex art. 54, comma 9, d.lgs. 151/2001). (Cass. 27/10/2018 n. 23338, Pres. Di Cerbo Est. Ponterio, in Riv. It. Dir. lav. 2019, con nota di M. Novella, “Il licenziamento discriminatorio: fattispecie e ripartizione degli oneri probatori”, 46)
- Si considera discriminatorio il licenziamento fondato su ragioni inerenti la nazionalità e la lingua, ai sensi dell’art. 15 Legge 300/1970. Conseguentemente, quando il lavoratore soddisfi l’onere della prova posto a suo carico, è onere del datore di lavoro provare la sussistenza di cause di esclusione, tenuto conto che non può ritenersi discriminatoria la scelta datoriale che penalizzi il dipendente portatore di un fattore di protezione ove lo stesso, in ragione della peculiare attività svolta o del contesto in cui la stessa viene espletata, rappresenti un requisito essenziale allo svolgimento dell’attività medesima. (Trib. Milano 19/12/2017, ord., Est. Colosimo, in Riv. it. dir. lav. 2018, con nota di G. Pacella, “Fungibilità o non fungibilità della prestazione di lavoro: se la nazionalità non è la ragione dell’assunzione, non può essere criterio di scelta nel licenziamento per g.m.o.”, 538)
- In caso di licenziamento discriminatorio, la nullità opera obiettivamente in ragione del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro. Nell’ipotesi di licenziamento ritorsivo, invece, non solo il recesso deve essere ingiustificato, ma è necessario che il motivo che si assume illecito sia stato anche l’unico determinante. (Cass. 9/6/2017, n. 14456, Pres. Amoroso Est. Garri, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2018, con nota di D. Del Biondo, “Il regime della prova nel licenziamento discriminatorio ritorsivo”, 27)
- Nel caso in cui sia esclusa l’applicabilità della tutela reintegratoria, deve ritenersi rilevata l’inammissibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 e, conseguentemente, si deve pronunciare il rigetto del ricorso stesso. (Trib. Milano 22/2/2014, Giud. Martello, in Lav. nella giur. 2014, 617)
- Non può qualificarsi come discriminatorio il licenziamento collettivo che interessi tutti e solo i lavoratori a tempo indeterminato ancora in forza dell’impresa – avendo gli altri dipendenti aderito alla proposta di trasformazione dei rapporti in contratti a termine – se rispondente all’esigenza organizzativa dell’azienda di sospendere il sinallagma contrattuale nel periodo di sospensione dell’attività: è infatti la finalità perseguita a orientare in modo vincolante l’individuazione dei lavoratori da licenziare. (Trib. Padova 5/6/2013, Giud. Dallacasa, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Valeria Nuzzo, “Quanto la ‘forma comune di rapporto di lavoro’ diventa incompatibile con l’organizzazione datoriale”, 43)
- Sulla premessa della natura simulata del rapporto di apprendistato corrente con la società, deve ritenersi nullo, perché discriminatorio e riferibile a un motivo illecito determinante, il licenziamento intimato a una delle due lavoratrici per asserita giusta causa, ma senza previa contestazione di addebuto, alcuni mesi dopo l’inizio del rapporto, con le conseguenze di cui all’art. 18 St. lav. Non possono invece reputarsi nulle né annullabili per violenza morale le dimissioni rassegnate dall’altra lavoratrice successivamente alle condotte illecite. (Trib. Pistoia 8/9/2012, Giud. Tarquini, in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di Riccardo Del Punta, “Un caso esemplare di molestie sessuali sul lavoro”, 25)
- Il concetto di licenziamento discriminatorio, sancito dall’art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall’art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall’art. 3 della legge n. 108 del 1990, è suscettibile di interpretazione estensiva: l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione a comportamenti sgraditi all’imprenditore, quando quest’ultima rappresenti l’unica ragione del provvedimento espulsivo. (Cass. 3/8/2011 n. 16925, Pres. Vidiri Rel. Zappia, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di C. Pederzoli, “Licenziamento pretestuoso e motivo illecito: un’incerta linea di confine”, 362)
- Non costituisce violazione del divieto di trattamenti discriminatori il licenziamento disciplinare per “culpa in vigilando” disposto dal datore di lavoro nei confronti del dirigente, appartenente a un’associazione religiosa, che abbia incautamente autorizzato quest’ultima a somministrare ai dipendenti un test attitudinale invasivo nei riguardi della loro vita privata, non essendovi alla base del recesso l’orientamento etico religioso dell’associazione di appartenenza, ma solo i riflessi negativi della vicenda sul contesto aziendale e sulla serenità dei dipendenti. (Cass. 16/2/2011 n. 3821, Pres. Roselli Est. Arienzo, in Orient. Giur. Lav. 2011, 161)
- La prova dell’intento discriminatorio per motivi politici deve essere fornita dal lavoratore licenziato. Tale intento può escludersi qualora il datore si sia sforzato di ricercare il consenso del dipendente su possibili soluzioni bonarie ad una difficoltà occupazionale. (Corte d’appello de L’Aquila 5/8/2003, Pres. Finucci Rel. Sordi, in Lav. nella giur. 2004, 400)
- Sono utilizzabili per stabilire il carattere discriminatorio e antisindacale del licenziamento elementi indiziari gravi, precisi e concordanti che, nella fattispecie concreta, sono risultati essere la mancanza di effettiva consistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, l’accesa conflittualità sindacale tra le parti e la provata insofferenza del legale rappresentante della società nei confronti della lavoratrice, sfociata in insulti e propositi di liberazione (Pret. Milano 28/2/94, est. Ianniello, in D&L 1995, 93)
- Il licenziamento adottato per motivi discriminatori, in violazione dell’art. 15 SL, è nullo e a esso consegue l’applicazione dell’art. 18 della legge citata (nella fattispecie la ricorrente era stata licenziata dopo aver denunciato le molestie sessuali subite da parte di un altro dipendente) (Pret. Milano 27/5/96, est. Curcio, in D&L 1997, 157)
- Il regime della prova presuntiva, che è prova piena quando ricorrono i presupposti di cui all’art. 2729 c.c., è stato adottato dal legislatore in tema di discriminazione sessuale, e trova applicazione anche in caso di licenziamento determinato da motivo discriminatorio, imponendo al datore di lavoro, ai sensi dell’art. 4 c. 5 L. 125/91, un’inversione dell’onere della prova (Pret. Milano 27/5/96, est. Curcio, in D&L 1997, 157)
Licenziamento ritorsivo
- La ritorsività del licenziamento (per mancata adesione a un piano di incentivazione volontario) integra una eccezione di merito e spetta quindi al datore di lavoro escluderla provando la sussistenza dei motivi addotti a fondamento dello stesso.
Il Tribunale accoglie il ricorso ai sensi dell’art. 1, comma 48, L. 92/2012 e ordina la reintegrazione di un lavoratore che, dopo essere passato alle dipendenze della società cessionaria, era stato licenziato da quest’ultima per giustificato motivo oggettivo. Dopo aver escluso la fondatezza delle ragioni oggettive poste a fondamento del recesso, il Tribunale ha ritenuto sussistente il carattere ritorsivo del licenziamento, in realtà intimato per non avere il lavoratore aderito al piano di incentivazione all’esodo proposto a suo tempo dalla società cedente. Nel motivare la decisione, il Giudice ha affermato che, stante configurabilità della natura ritorsiva del recesso come una eccezione, sarebbe stato onere del datore di lavoro provare le ragioni formalmente poste alla base del provvedimento espulsivo, prova che nel caso di specie non è stata fornita neppure in punto di allegazione. (Trib. Busto Arsizio 18/4/2023, Giud. Molinari, in Wikilabour, Newsletter n. 10/23) - La data indicata sulla lettera di licenziamento per mancato superamento della prova è scorretta: il lavoratore lo dimostra per presunzioni e ottiene la nullità del licenziamento ritorsivo per malattia.
Il Tribunale accoglie la domanda del ricorrente e annulla il licenziamento ritorsivo da questi subito dopo che il periodo di prova era già trascorso. La Corte ha infatti ricostruito per presunzioni che la data indicata nella lettera con cui il lavoratore veniva licenziato per mancato superamento della prova era in realtà precedente a quella reale. Di conseguenza, riscontrata l’inconsistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro, il licenziamento è stato considerato motivato dallo stato di malattia del ricorrente, e quindi dichiarato nullo in quanto ritorsivo. (Trib. Treviso 15/3/2023, dott.ssa Cusumano, in Wikilabour, Newsletter n. 6/23) - In un caso relativo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo della dipendente di un’associazione alberghiera, Tribunale e Corte d’appello, avendo accertato che il recesso era stato in realtà disposto in reazione al rifiuto della lavoratrice di rinunciare al superminimo, avevano dichiarato la nullità del licenziamento, in quanto determinato da intento ritorsivo e avevano ordinato la reintegrazione della dipendente. La Cassazione, nel rigettare il ricorso dell’associazione datrice di lavoro, osserva che: (i) come in più occasioni ribadito da recentissime sentenze di legittimità, la domanda di accertamento della nullità del licenziamento fondato su motivo illecito può essere accolta ogniqualvolta il lavoratore ne dimostri l’intento ritorsivo determinante e ciò anche in presenza di altri fattori che avrebbero potuto configurare una giusta causa o un giustificato motivo di recesso; (ii) l’intento ritorsivo può essere provato anche mediante presunzioni, prima fra tutte quella relativa all’assenza di una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento, elementi il cui onere probatorio grava sul datore; (iii) l’art. 4, l. 108/90, nel riconoscere alle organizzazioni di tendenza l’inapplicabilità dell’art. 18 St. Lav., fa salva l’ipotesi regolata dall’art. 3 – che prevede l’applicazione della tutela reale ai licenziamenti nulli in quanto discriminatori o determinati da motivo di ritorsione o rappresaglia a prescindere dal numero dei dipendenti dell’azienda e anche a favore dei dirigenti –, sicché, in tale evenienza, va ordinata, anche nei confronti di dette associazioni, la reintegra del lavoratore. (Cass. 7/2/2023 n. 6838, Pres. Doronzo Rel. Amendola, in Wikilabour, Newsletter n. 6/23)
- L’onere di provare il carattere ritorsivo del recesso grava sul lavoratore; tuttavia il giudice di merito può valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli considerati per escludere il giustificato motivo oggettivo, ove tali elementi, da soli o in concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del licenziamento. (Cass. 17/6/2020 n. 11705, Pres. Nobile Rel. Negri della Torre, in Lav. nella giur. 2020, 1099, e in Lav. nella giur. 2021, con nota di L. Cairo e I. Giovannelli, Licenziamento ritorsivo: insussistenza del fatto e prova presuntiva del motivo illecito, 748)
- Se la nullità derivante dal divieto di discriminazione discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo e, dunque, prescinde dalla motivazione addotta, incentrandosi, invece, sulla condotta discriminatoria – che, dunque, determina di per sé la nullità del licenziamento –, nel caso del licenziamento ritorsivo l’elemento qualificante è dato dall’illiceità del motivo unico e determinante del recesso. Da ciò deriva che, mentre il lavoratore che esercita l’azione a tutela della discriminazione può limitarsi a fornire gli elementi di fatto che siano idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori (spettando al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione che opera obiettivamente, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro), nel licenziamento ritorsivo, al contrario, il lavoratore ricorrente deve dare prova non solo del fatto che il licenziamento è ingiustificato, ma anche che il motivo illecito sia stato l’unico determinante. (Cass. 9/6/2017, n. 14456, Pres. Amoroso Rel. Garri, in Riv. It. Dir. Lav. 2017, con nota di F. Marinelli, “Ma il licenziamento ritorsivo è discriminatorio o per motivo illecito?”, 707)
- Va effettuata una distinzione tra il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo, caratterizzandosi le due diverse fattispecie non solo per gli elementi costitutivi, ma anche per il regime probatorio a ciascuno applicabile. I licenziamenti discriminatori sono quelli adottati in presenza dei fattori di rischio tipicamente individuati dalla legge, rispetto ai quali è del tutto irrilevante l’intento soggettivo dell’agente e il motivo formalmente addotto, bastando la prova del trattamento differenziato rispetto al soggetto non portatore del fattore tipico di rischio. Rientrano, invece, nella categoria dei licenziamenti ritorsivi quelli comminati dal datore di lavoro al solo scopo di rappresaglia o vendetta nei confronti del lavoratore per circostanze che esulano da fattori di rischio tipizzati, rispetto ai quali non solo devono ricorrere tutti i presupposti di cui all’art. 1345 c.c., ma assume rilevanza decisiva la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo, che escludono in radice l’unicità del motivo ritorsivo. (Trib. Nola 18/5/2017, Giud. Salvatore, in Riv. It. Dir. Lav. 2017, con nota di F. Marinelli, “Ma il licenziamento ritorsivo è discriminatorio o per motivo illecito?”, 707)
- Il licenziamento, ultimo di una chiara serie di atti volti a reagire al legittimo rifiuto del lavoratore alla cessione del suo contratto di lavoro, è da ritenere ritorsivo, dunque discriminatorio e determinato in via esclusiva da motivo illecito. (Corte app. Roma 5/4/2017, Pres. e rel. Panariello, in Riv. It. Dir. Lav. 2017, con nota di F. Marinelli, “Ma il licenziamento ritorsivo è discriminatorio o per motivo illecito?”, 707)
- È nullo il licenziamento formalmente intimato per crisi aziendale, ma comminato per ritorsione a seguito della rivendicazione di differenze retributive derivanti da ore di lavoro eccedenti quelle contrattualmente stabilite, laddove il datore di lavoro non dimostri la sussistenza dell’addotto g.m.o., costituito dalla crisi aziendale. (Trib. Taranto 20/2/2017, Est. De Napoli, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di F. Simeone, “Il licenziamento per ritorsione o rappresaglia”, 627)
- La sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento esclude in radice la configurabilità di un licenziamento ritorsivo, dovendo a tal fine l’intento ritorsivo risultare l’unica ragione determinante il recesso. (Trib. Milano 3/5/2013, Giud. Casella, in Lav. nella giur. 2013, 746)
Riferimento alla normativa contrattuale
- Allorchè il contratto collettivo stabilisca un termine massimo – decorrente dalla scadenza del termine per la presentazione delle giustificazioni – entro il quale il datore di lavoro è tenuto, a pena di decadenza, ad applicare la sanzione (nella specie trattasi di licenziamento), al fine di valutare la tempestività della comunicazione del licenziamento, ove venga utilizzato il servizio postale, deve aversi riguardo alla data di consegna dell’atto, non potendosi far carico al mittente di ritardi a lui non imputabili. (Corte d’appello Milano 28/12/2004, Pres. e Rel. Castellini, in Lav. nella giur. 2005, 591)
- All’autonomia individuale ed a quella collettiva non è consentito di regolare la disciplina della risoluzione del rapporto di lavoro prevedendo cause estintive del rapporto a tempo indeterminato ulteriori rispetto a quelle contemplate dal codice civile e dalle leggi speciali e, conseguentemente è nulla, ex art. 1428 c.c., la clausola, contenuta nel contratto individuale o nel contratto collettivo di diritto comune, che stabilisca la risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento di una determinata anzianità contributiva. (Cass. 15/1/2003, n. 535, Pres. Ianniruberto, Rel. Amoroso, in Lav. nella giur. 2003, 476)
- Il contratto collettivo contenente una clausola generale che consente il licenziamento in tutti i casi di improseguibilità del rapporto ed una clausola specifica che, in caso di condanna a pena detentiva, consente il licenziamento solo quando non sia stata concessa la sospensione condizionale, limita il campo del licenziamento ai soli reati seguiti da una pena non condizionalmente sospesa. Pertanto nel caso di commissione di reati con condanna a pena condizionalmente sospesa il licenziamento è illegittimo. Nel caso di condanna a pena detentiva non sospesa il licenziamento è legittimo, ma il giudice deve verificare l’idoneità del fatto a giustificare il licenziamento. (Trib. Sanremo 9/1/2003, Est. Cento, in Lav. nella giur. 2004, 71, con commento di Domenico Pizzonia)
- Nella nuova regolamentazione legislativa (d.l. n. 487/93, convertito in l. n. 71/94) del rapporto di lavoro di diritto privato dei dipendenti dell’Ente poste italiane, il contratto collettivo per tale categoria di personale – che non è autorizzato a derogare alla legge non essendo identificabile alcuna cosiddetta delegificazione della materia, ma solo privatizzazione del rapporto – non può innovare o derogare rispetto alle norme di legge imperative e quindi è nulla (ex art. 1418 c.c.) la previsione contrattuale, secondo cui (a partire dal 31/1/95) il rapporto di lavoro si risolve automaticamente (senza obbligo di preavviso o di erogare la corrispondente indennità sostitutiva) al raggiungimento della massima anzianità contributiva, con effetto dal giorno successivo al compimento di quaranta anni utili ai fini pensionistici, perché in violazione del principio (di natura inderogabile) secondo cui il rapporto di lavoro si può risolvere solo per licenziamento, per dimissioni, per mutuo consenso o per lo spirare dei termini per la ripresa del servizio previsti dall’art. 18, comma 5, l. 20/5/70, n. 300. (Cass. 27/1/01, n. 1165, pres. Mercurio, est. Stile, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 383)
- Né all’autonomia individuale né a quella collettiva è consentito, in ordine alla risoluzione del rapporto, sottrarsi alla disciplina limitativa dei licenziamenti (individuali o collettivi) o anche all’obbligo del preavviso, cosicché sono da ritenere nulle le clausole contrattuali che prevedano una risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento di una determinata età (come invece possibile nell’ambito del pubblico impiego). Ciò vale anche per il caso in cui la clausola de qua conferisca una stabilità d’impiego superiore a quella di fonte legale e pertanto si configuri, sotto questo profilo, di miglior favore, essendo sempre necessaria per la risoluzione del rapporto l’intimazione del recesso ed il preavviso ai sensi dell’art. 2118 e 2119 c.c.. Nel caso che, in applicazione della clausola illegittima concernente il limite di età, la prestazione lavorativa venga meno per comunicazione aziendale, il rapporto di lavoro continua giuridicamente per effetto della nullità della clausola ed il dipendente ha diritto di riprendere il suo posto di lavoro e di ottenere il risarcimento del danno, senza che peraltro ricorrano i presupposti di applicabilità, nel caso di specie, degli specifici rimedi reintegratori di cui all’art. 18, Statuto dei lavoratori (Cass. 25/1/01, n. 1011, pres. Mercurio, est. Spanò, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 377)
- E’ valida la clausola del contratto collettivo di lavoro (nel caso stipulato con l’Ente Poste Italiane ) che prevede la risoluzione automatica del rapporto di lavoro, quindi tecnicamente senza recesso e senza obbligo di preavviso, allorquando il dipendente abbia maturato la massima anzianità contributiva ai fini pensionistici (Trib. Palermo 8/6/00, est. Cavallaro, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 129)
- Il rapporto di lavoro dei dipendenti dell’Ente Poste Italiane, come tutti i rapporti di natura privatistica, è regolato dall’ordinaria disciplina civilistica anche con riguardo alle ipotesi di risoluzione; deve, pertanto, considerarsi nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c., per contrasto con norme imperative (codice civile, l. n. 604/66 e l. n. 300/70), l’accordo integrativo del CCNL per i suddetti dipendenti del 26/11/94, nella parte in cui prevede la risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento della massima anzianità contributiva, dovendo escludersi che la contrattazione collettiva possa, in assenza di una norma che ciò espressamente consenta, prevedere cause estintive del rapporto a tempo indeterminato diverse rispetto a quelle già individuate e disciplinate dall’ordinamento (licenziamento, dimissioni, mutuo consenso ovvero verificarsi delle ipotesi di cui all’art. 18, 5° comma, l. n. 300/70). Ne consegue che l’eventuale comunicazione da parte del datore di lavoro di cessazione del rapporto al verificarsi del suddetto evento non costituisce licenziamento, ma risoluzione del rapporto per un fatto oggettivo, sicché alla fattispecie non è applicabile l’art. 18 l. n. 300/70 nella parte relativa alla reintegra nel posto di lavoro, dovendo seguire alla nullità della suddetta clausola esclusivamente la declaratoria di prosecuzione del rapporto (Cass. 13/5/00, n. 6175, pres. Trezza, in Lavoro giur. 2001, pag. 55, con nota di Pellacani, Risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento della massima anzianità contributiva: il caso dell’Ente Poste Italiane s.p.a.)
- È nulla, per violazione di norme imperative, la clausola contenuta nell’accordo integrativo allegato al CCNL Ente Poste del 26/11/94, la quale stabilisce che a decorrere dal 31/1/95 la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato dei dipendenti dell’Ente Poste Italiane s.p.a. (EPI), oltre che nelle ipotesi previste dal contratto nazionale, si verifichi altresì al raggiungimento della massima anzianità contributiva, con effetto dal giorno successivo a quello del compimento di quaranta anni utili ai fini pensionistici, automaticamente e senza obbligo per l’Ente di dare preavviso o di erogare la corrispondente indennità sostitutiva. Il recesso intimato al lavoratore in forza della clausola predetta deve pertanto considerarsi nullo e al lavoratore deve essere riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18 Stat.Lav. (Trib. Udine 13/4/00, est. Carchio, in Lavoro giur. 2001, pag. 58, con nota di Pellacani, Risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento della massima anzianità contributiva: il caso dell’Ente Poste Italiane s.p.a.)
- L’Accordo integrativo al Ccnl 26/11/94 per i dipendenti dell’Ente Poste deve essere dichiarato illegittimo nella parte in cui prevede un’ipotesi di risoluzione automatica del rapporto di lavoro (il raggiungimento della massima anzianità contributiva) diversa e ulteriore rispetto a quelle legali (nella fattispecie, è stata dichiarata l’illegittimità del recesso intimato in forza della norma contrattuale citata) (Pret. Milano 3/2/98 est. Porcelli, in D&L 1998, 762, n. SUMMA, In tema di rapporti di gerarchia tra legge e contrattazione collettiva. In senso conforme, v. Trib. Milano 3/3/99, pres. ed est. Gargiulo, in D&L 1999, 673; Pret. Milano 2/3/99, est. Di Ruocco, in D&L 1999, 410)
- L’accordo integrativo al CCNL 26/11/94 per i dipendenti dell’Ente Poste deve essere dichiarato nullo nella parte in cui prevede un’ipotesi di risoluzione automatica del rapporto diversa e ulteriore rispetto a quelle legali, con conseguente illegittimità del recesso intimato in forza di tale norma (Trib. Roma 3/4/96, pres. ed est. Zecca, in D&L 1997, 149. In senso conforme, v. Pret. Milano 10/4/96, est. Atanasio, in D&L 1997, 149; Trib. Milano 15/3/97, pres. ed est. Mannacio, in D&L 1997, 643; Pret. Milano 25/2/97, est. Ianniello, in D&L 1997, 643)
- E’ illegittimo il recesso intimato sulla base della norma del contratto collettivo che abbia introdotto un’ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro nuova e ulteriore rispetto a quelle legali, giacché le parti collettive non possono disporre dei diritti di soggetti terzi (i lavoratori), in assenza di una specifica previsione di legge (Pret. Milano 25/10/95, est. Martello, in D&L 1996, 755; in senso conf., v. Trib. Milano 9/11/96, pres. ed est. Mannaccio, in D&L 1997, 397)
- La clausola di durata minima triennale garantita, inserita in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con previsione, per l’ipotesi di recesso datoriale anticipato senza giusta causa o giustificato motivo, della corresponsione in favore del lavoratore di importo pari alla differenza tra retribuzioni dell’intero triennio garantito, e retribuzioni già percepite sino alla data del recesso, non integra ipotesi di clausola penale ex art. 1382 c.c., né ipotesi di recesso anticipato da contratto a termine, bensì ipotesi di clausola di durata minima, di natura obbligatoria, la cui violazione, sia in virtù delle specifiche previsioni contrattuali delle parti, sia in applicazione delle regole generali in materia di inadempimento, obbliga il datore recedente al risarcimento del danno, corrispondente alle retribuzioni relative all’intero periodo non lavorato, sino al compimento del triennio di durata minima garantita (Pret. Milano 6/12/94, est. de Angelis, in D&L 1995, 399)
Questioni di procedura
- Avendo la giurisprudenza di legittimità sempre riconosciuto l’interesse ad agire del datore di lavoro, anche con azione di mero accertamento della legittimità del licenziamento, il datore di lavoro ha interesse e facoltà di instaurare il giudizio di merito rispetto al provvedimento di urgenza emesso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., che dispone la reintegra nel posto di lavoro. (Trib. Reggio Calabria 6/2/2013, ord., Giud. Picari, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 373)
- È ammissibile la domanda riconvenzionale del lavoratore di reintegra e risarcimento del danno ex art. 18 Stat. Lav. per l’illegittimità del licenziamento qualora il datore di lavoro chieda il giudiziale accertamento della legittimità del licenziamento intimato al dipendente, essendo il provvedimento che in luogo del rigetto della domanda statuisca l’illegittimità del recesso non affetta da vizio di ultrapetizione, atteso che il richiesto accertamento implica che sia verificata la ricorrenza dei requisiti formali e sostanziali atti a incidere sulla continuità giuridica del rapporto, quale parte integrante della tutela della situazione giuridica dedotta, e la adottata declaratoria di illegittimità riflette il risultato negativo di quella verifica. (Trib. Reggio Calabria 6/2/2013, ord., Giud. Picari, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 373)
- Il giudice dovrà attivare il nuovo procedimento ogni qual volta, impugnando il licenziamento, l’attore richieda la reintegra, salvo che si tratti di prospettazione palesemente strumentale, abnorme, errata (ad es., se l’attore riconoscesse fin dall’atto introduttivo che il datore ha meno di quindici dipendenti e non si tratta di licenziamento discriminatorio, a onta della domanda di reintegra, il giudice dovrebbe ab origine dar corso all’ordinario giudizio di lavoro; se l’attore impugnasse l’apposizione del termine al contratto di lavoro, chiedendo la reintegra, poiché, giuridicamente, non si verte in un caso di licenziamento ma di messa in libertà alla scadenza del termine, egualmente il giudice non dovrebbe aprire il nuovo procedimento). Qualora, invece, tali situazioni limite non ricorrano, il giudice aprirà il nuovo procedimento; se, poi, nel contraddittorio delle parti ma in limine litis (ossia prima della trattazione della istruttoria), egli rileverà che non ricorrono i presupposti della reintegra, si pronunzierà immediatamente, o dichiarando inammissibile la domanda o disponendo il mutamento di rito ex art. 4 d.lgs. n. 150/2011 (ovvero ex artt. 426 s. c.p.c.). Se, invece, l’insussistenza del requisito dimensionale per la reintegra emergerà a seguito dell’istruttoria, pare preferibile che il giudice si pronunzi ormai nel merito. (Trib. La Spezia 5/10/2012, ord., Giud. Panico, in Lav. nella giur. 2012, 1224)
- Nel rito del lavoro, caratterizzato da una rigida disciplina della fase introduttiva, integra una vera e propria “mutatio libelli”, come tale non consentita, la formulazione di una domanda che, ad integrazione di quella originariamente proposta, concernente la sola declaratoria di illegittimità di un licenziamento, abbia ad oggetto l’applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 della legge n. 300 del 1970, atteso che essa implica non solo un mutamento del “petitum” ma anche della “causa petendi”, in quanto l’applicabilità della tutela reale presuppone, in particolare, la sussistenza di un determinato requisito dimensionale la cui valutazione da parte del giudice comporta l’inserimento nel processo dell’allegazione di un fatto costitutivo precedentemente non dedotto. (Cass. 28/7/2005 n. 15781, Pres. Carbone Rel. Elefante, in Dir. e prat. lav. 2006, 404)
- Il lavoratore che deduca con il ricorso introduttivo l’illegittimità del licenziamento per difetto di giusta causa non può far valere successivamente nel corso del giudizio (con le note autorizzate prima dell’udienza di discussione, come nella specie) la nullità per l’inosservanza della procedura prevista dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, ai fini dell’irrogazione del licenziamento disciplinare, in quanto tale ulteriore prospettazione costituisce domanda nuova, trattandosi di una diversa “causa petendi”, con l’inserimento di un fatto nuovo a fondamento della pretesa e di un diverso tema di indagine e di decisione. La preclusione posta dall’art. 414 c.p.c. non può essere superata, né ritenendo riconducibili i passaggi procedurali richiesti dall’art. 7 cit. a requisiti formali, come tali sussumibili nelle generiche censure di ordine formale contenute nel ricorso, atteso che la prospettazione di detti profili implica l’allegazione di fatti nuovi; né dall’acquiescenza o dall’accettazione del contraddittorio della controparte, stante le esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento del processo poste a fondamento della disciplina della fase introduttiva del giudizio. (Cass. 20/4/2005 n. 8264, Pres. Miani Canevari Rel. Miani Canevari, in Dir. e prat. lav. 2005, 2107)
- Nell’ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o risoluzione per mutuo consenso) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo il primo comma dell’art. 2697 c.c., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere della controparte; regola che deve ritenersi violata nel senso di rigetto della domanda basato in sostanza sulla valorizzazione dell’ipotesi di mutuo consenso, privilegiata solo per la ritenuta insufficienza della prova del licenziamento. (Nella specie, la Corte Cass. ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda del lavoratore, ritenendo non sufficiente la prova del licenziamento orale e valorizzando l’eccezione – peraltro irrituale – del mutuo consenso, dando rilievo a fatti irrilevanti, quali la quietanza liberatoria rilasciata dal lavoratore nel riscuotere la liquidazione del tfr, il lungo tempo trascorso tra il licenziamento e la proposizione della domanda giudiziale, il reperimento di una nuova occupazione). (Cass. 18/3/2005 n. 5918, Pres. Ciciretti Rel. Balletti, in Dir. e prat. lav. 2005, 1634)
- L’illegittimità del licenziamento non può essere parte di un giudizio motivato con riferimento a circostanze, per quanto analoghe, emerse dal processo ma diverse da quelle originariamente contestate al lavoratore. (Cass. 12/1/2005 n. 428, Pres. Ciciretti Rel. Lupi, in Dir. e prat. lav. 2005, 1414)
- Ove il lavoratore impugni il licenziamento ed agisca in giudizio deducendo il difetto di giusta causa o giustificato motivo, l’eventuale motivo discriminatorio o ritorsivo, pur ricavabile da circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore, e non già compreso, motivo di illegittimità del recesso, come tale non rilevabile d’ufficio dal giudice e neppure configurabile come mera diversa qualificazione giuridica della domanda. (Nella specie la Corte ha respinto il motivo di ricorso in base al quale la lavoratrice aveva lamentato che il giudice di appello, anziché ritenere domanda nuova quella volta a dedurre il carattere ritorsivo del licenziamento, avrebbe dovuto accogliere la domanda stessa, seppure sulla base di una norma giuridica diversa da quella prospettata, considerato che nel ricorso introduttivo erano comunque stati indicati i fatti che dimostravano quel carattere). (Cass. 21/12/2004, Pres. Ciciretti Rel. La Terza , in Dir. e prat. lav. 2005, 1249)
- Incorre in violazione dell’art. 112 c.p.c. la decisione di merito che addivenga all’accoglimento della domanda di annullamento del licenziamento, rilevando d’ufficio l’irrituale esperimento della procedura di licenziamento collettivo, per nulla invocato dall’originario ricorrente. (Nella specie il lavoratore aveva impugnato il licenziamento per carenza del giustificato motivo oggettivo e il datore di lavoro aveva sostenuto che si trattava di licenziamento collettivo. La corte di appello, aderendo alla tesi del licenziamento collettivo, lo aveva, tuttavia, dichiarato inefficace per violazione degli obblighi di comunicazione di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991, emettendo, in tal modo, una statuizione basata su elementi fattuali non allegati. (Cass. 20/12/2004 n. 23611, Pres. Ciciretti Rel. La Terza , in Lav. nella giur. 2005, 484)
- In tema di licenziamento individuale per giusta causa o giustificato motivo oggettivo, il giudizio sulla proporzionalità o adeguatezza tra fatto addebitato e sanzione è rimesso al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato sul punto la decisione di merito che aveva ritenuto legittimo il licenziamento di un avvocato interno all’ufficio legale di un’azienda al quale era stato addebitato di aver trattenuto, oltre all’importo delle proprie competenze, la somma capitale di lire 722.000, rimessagli nel giugno 1986 dal legale di un debitore dell’azienda). (Cass. 7/4/2004 n. 6823, Pres. Senese Rel. Celentano, in Dir. e prat. lav. 2004, 2534)
- In un giudizio di impugnazione di licenziamento illegittimo il datore di lavoro non può allegare e provare per la prima volta in appello l’intervenuta cessazione dell’attività aziendale, ostativa alla liquidazione dei danni maturati successivamente a tale cessazione. (Cass. 20/12/2002, n. 18194, Pres. Prestipino, Est. Foglio, in Foro it. 2003 parte prima, 1516, con nota di Renato Oriani, “Il principio di non contestazione comporta l’improponibilità in appello di eccezioni in tal senso?”)
- Non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che, fondandosi sui fatti dedotti in giudizio dal ricorrente, dichiari il carattere ritorsivo e discriminatorio del licenziamento, pur in mancanza di un espresso richiamato all’art. 3 L. 11/5/90 n. 108 nel ricorso introduttivo. (Trib. Agrigento 11/6/2002, ord., Pres. D’Angelo Est. Occhipinti, in D&L 2002, 712, con nota di Massimo Aragiusto, “Buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro e nullità del licenziamento”)
- In caso di impugnazione di licenziamento il giudice ha potere di qualificare l’azione in relazione al concreto svilupparsi della fattispecie portata al suo vaglio (indipendentemente dalla prospettazione giuridica della parte) a condizione che la domanda possa ritenersi tacitamente proposta e virtualmente contenuta nell’istanza introduttiva del giudizio e che, con particolare riguardo al petitum ed alla causa petendi, si trovi in rapporto di necessaria connessione con l’oggetto della lite. (Cass. 21/1/2002 n. 572, Pres. Sciarelli Est. Mileo, in D&L 2002, 426, con nota di Roberto Muggia, “Licenziamento per comporto ed impossibilità della prestazione”)
- Non vi è periculum in mora qualora al lavoratore licenziato sia stata accreditata una somma di denaro (a titolo di competenze di fine rapporto) sufficiente a garantire le esigenze economiche familiari per più di un anno, né vi sarebbe periculum in mora se il ricorrente restituisse la somma erogatagli, perché così facendo aggraverebbe deliberatamente la propria posizione economica e la procedura d’urgenza non appare accoglibile a favore di chi si pone consapevolmente in condizioni di pericolo (Trib. Padova 8/5/01 ordinanza, pres. e est. Balletti, in Lavoro giur. 2001, pag. 853, con nota di Spolverato, Licenziamento e tutela d’urgenza)
- Non può ritenersi sussistente il requisito del periculum in mora richiesto per la proposizione del procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c., quando per l’inattività del ricorrente sia decorso un periodo di tempo eccessivo dalla comunicazione del licenziamento al momento della introduzione del giudizio cautelare (nella specie, cinque mesi) (Trib. Milano 18/9/00, est. Sala, in Orient. giur. lav. 2000, pag. 786)
- Sia la nozione di giusta causa sia quella di giustificato motivo di licenziamento rappresentano una specificazione, con riguardo la potere di recedere dal rapporto attribuito al datore di lavoro, della regola generale secondo cui l’inadempimento di una parte di un contratto sinallagmatico si pone in contrasto con la funzione del contratto medesimo solo se supera la soglia della non scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra (art. 1455 c.c.). Ne discende che non si è in presenza di una clausola generale che richieda una attività di integrazione da parte del giudice idonea a dare concretezza al precetto normativo e, come tale denunziabile direttamente in Cassazione sotto il profilo della violazione di legge, ma di un tipico giudizio di fatto rimesso al giudice di merito, con esclusivo riferimento alla concreta fattispecie contrattuale e alle obbligazioni che ne discendono. Pertanto, va cassata per insufficienza e contraddittorietà della motivazione, la sentenza che abbia escluso la legittimità del licenziamento disciplinare comminato al lavoratore per utilizzo di espressioni offensive sulla base della sola valutazione dei livelli culturali e delle abitudini lessicali del lavoratore e per gli altri addetti all’azienda (Cass. 19/6/00, n. 8313, pres. Prestipino, est. Picone, in Argomenti dir. lav. 2001, pag. 1099)
- Nel caso di impugnazione di un licenziamento con richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, incombe al lavoratore il solo onere di allegare e provare l’esistenza del rapporto di lavoro e del licenziamento (Cass. 3/4/00, n. 4038, pres. De Musis, est. Celentano, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 591, con nota di Cattani, Interpretazione della domanda giudiziale, possibili vizi e onere della prova nell’impugnazione del licenziamento)
- Il ricorso proposto ai sensi dell’art. 700 c.p.c. avente ad oggetto un licenziamento può essere ammesso in quanto sia suffragato da specifiche dettagliate e dimostrate ragioni d’urgenza, ulteriori rispetto a quella rappresentata dalla natura della causa, che giustifichino l’utilizzazione della misura cautelare in luogo dello speciale rito del lavoro; in particolare, il pregiudizio economico, derivante dalla perdita della retribuzione a seguito di un licenziamento, essendo per sua natura risarcibile, è privo del carattere della irreparabilità, potendo concretare un pregiudizio imminente ed irreparabile in quanto la retribuzione costituisca l’unica fonte di sostentamento per il lavoratore e per la sua famiglia (Trib. Roma 2/3/00, est. Delle Donne, in Lavoro giur. 2001, pag. 773, con nota di Menegatti, I provvedimenti d’urgenza nel processo del lavoro: limiti, contenuto e presupposti)
- Il lavoratore che agisce in giudizio per conseguire i rimedi contro il licenziamento illegittimo ha l’onere di provare l’esistenza del licenziamento, spettando al datore di lavoro provare la giusta causa o il giustificato motivo. Tuttavia, il datore di lavoro che neghi il licenziamento e affermi l’esistenza di dimissioni del lavoratore ha l’onere di provare queste ultime (Cass. 25/2/00, n. 2162, pres. Lanni, est. Roselli, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 162, con nota di Ponari, Contrasto sulle modalità di cessazione del rapporto di lavoro e onere della prova: la Cassazione muta orientamento. In senso conforme, v. Cass. 13/4/00, n. 4760, pres. Mercurio, est. Servello, in Riv. It. dir. lav. 2001, pag. 166, con nota di Caro, La ripartizione dell’onere della prova dell’estinzione del rapporto di lavoro, in assenza di dichiarazioni negoziali scritte)
- Il giudizio di valore sulla legittimità del licenziamento, espresso dal giudice di merito, è censurabile in Cassazione allorché si ponga in contrasto con i principi propri dell’ordinamento lavoristico, come individuati in attuazione della funzione nomofilattica propria della Corte di Cassazione e con quegli standard valutativi, propri di un certo contesto sociale, ma che devono tenersi nell’ambito dei predetti “principi cornice” realizzando globalmente il diritto vivente e nel campo del lavoro la cosiddetta “civiltà del lavoro” (Cass. 13/4/99 n. 3645, pres. Pontrandolfi, est. Guglielmucci, in D&L 1999, 657, n. Muggia, Giusta causa di licenziamento e <>)
- Sono irreparabili i danni derivanti dalla perdita del posto di lavoro per licenziamento illegittimo, in considerazione, in particolare, del loro profilo non patrimoniale con conseguente necessità di procedere alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro in via provvisoria e urgente (Pret. Milano 21/12/94, est. Santosuosso, in D&L 1995, 578. In senso conforme, v. Pret. Milano 13/3/95, est. Atanasio, in D&L 1995, 581; Pret. Milano 31/1/95, est. Peragallo, in D&L 1995, 583)
- Le controversie di lavoro relative all’impugnativa di licenziamento sfuggono alla vis attractiva del Tribunale fallimentare, e restano attratte dalla competenza funzionale del giudice del lavoro (Pret. Milano 27/9/94, est. Peragallo, in D&L 1995, 421, nota QUATTROMINI)
- In ipotesi di impugnativa di licenziamento il lavoratore ha soltanto l’onere di allegare e provare l’esistenza del rapporto di lavoro e l’evento del licenziamento con determinate modalità, mentre spetta esclusivamente al datore di lavoro comprovare i fatti che hanno determinato la risoluzione del rapporto di lavoro (Cass. 27/6/94 n. 6172, pres. De Rosa, est. Picone, in D&L 1995, 429)
Rito Fornero
- Nel vigore della L. n. 92 del 2012 in tema di licenziamento disciplinare, nella nuova disciplina prevista dall’art. 18 Stat. lav. riformulato, il giudice deve preliminarmente accertare se ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, quali presupposti condizionanti la legittimità del recesso secondo previsioni legali non modificate dalla riforma e, solo ove ravvisi la mancanza della causa giustificativa, deve provvedere a selezionare la tutela applicabile ed in particolare se si tratti di quella generale ex comma 5 ovvero quella ex comma 4, operante nei soli casi ivi previsti. (Corte App. Firenze 7/12/2020, Pres. D’Amico Rel. Rugiu, in Lav. nella giur. 2021, 426)
- Nel rito c.d. “Fornero”, il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione, di cui all’art. 1, comma 62, L. n. 92 del 2012, decorre dalla semplice comunicazione del provvedimento. Si tratta infatti di una previsione speciale, su cui non incide la modifica dell’art. 133, comma 2, c.p.c., nella parte in cui stabilisce, come regola generale, che “La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325 c.p.c.”. (Cass. 9/10/2020, Pres. Doronzo Rel. Leone, in Lav. nella giur. 2021, 196)
- Nel rito di cui all’art. 1, commi 48 ss., L. n. 92 del 2012 (c.d. rito Fornero), l’attività istruttoria svolta in entrambe le fasi del giudizio di primo grado va valutata unitariamente, senza che si possano scindere per fasi gli adempimenti richiesti alle parti in tema di formazione della prova, sicché nel giudizio di opposizione la parte conserva integra ogni opzione istruttoria, a prescindere dalle scelte processuali in precedenza operate (Nella specie, la S.C. ha ritenuto non preclusa la produzione nella fase di opposizione dell’originale del documento prodotto in fotocopia in fase sommaria, ancorché in quest’ultima, a seguito della contestazione di non attendibilità del predetto documento, la parte avesse rinunciato ad avvalersene). (Cass. 14/7/2020 n. 14976, Pres. Nobile Rel. Negri della Torre, in Lav. nella giur. 2021, 83)
- Appartiene alla cognizione del rito speciale anche la questione dell’accertamento di una certa anzianità di servizio, conseguente ad un trasferimento d’azienda, ove la circostanza sia rilevante per giungere ad una decisione circa la legittimità o meno del licenziamento, il quale non può che essere impugnato con il procedimento previsto dalla L. n. 92 del 2012, ove sia richiesta la tutela ivi prevista. (Cass. 31/1/2020 n. 2315, Pres. Di Cerbo Rel. Amendola, Lav. nella giur. 2021, con nota di L. M. Dentici, L’accertamento del trasferimento d’azienda in caso di cambio d’appalto nel rito “Fornero”, 256)
- Il lavoratore, licenziato per perdita dell’appalto con diritto all’assunzione da parte dell’impresa subentrante, conserva il diritto di impugnare il licenziamento della cessante. (Cass. 31/1/2020 n. 2315, Pres. Di Cerbo Rel. Amendola, Lav. nella giur. 2021, con nota di L. M. Dentici, L’accertamento del trasferimento d’azienda in caso di cambio d’appalto nel rito “Fornero”, 256)
- Pur restando applicabile ai rapporti di pubblico impiego privatizzato la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 l. 300 del 1970 nel testo antecedente le modifiche apportate dall’art. 1 c. 42 della l. n. 92 del 2012, alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni intimate successivamente all’entrata in vigore della richiamata legge n. 92 trova applicazione il rito disciplinato dall’art. 1 commi 48 e seguenti di tale legge. (Cass. 25/9/2018 n. 22683, Pres. Manna Rel. Torrice, in Riv. It. Dir. lav. 2019, con nota di R. Metafora, “L’applicabilità del rito Fornero al giudizio di impugnativa di licenziamento illegittimo dei dipendenti pubblici”, 109)
- Nell’ambito del cd. rito Fornero, la possibilità per le parti di proporre con il ricorso in opposizione domande nuove, nonché di svolgere nuove attività probatorie ed eccezioni in deroga a preclusioni processuali, deve attuarsi all’interno del perimetro costituito dalla causa petendi dell’azione di impugnazione già esercitata, ossia in relazione ai motivi di illegittimità del licenziamento dedotti nel ricorso originario di cui all’art. 1, c. 48, l. n. 92/2012. (Corte app. Torino 19/5/2017, Pres. Girolami Est. Biasi, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di M. Tufo, “Il rapporto tra il dedotto e il deducibile nella fase di opposizione del rito Fornero”, 602)
- Il deposito per via telematica, tutte le volte che la trasmissione dell’atto abbia generato la c.d. 3° ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della Giustizia, consente al deposito medesimo di produrre i suoi effetti tipici impeditivi di ogni decadenza anche qualora venga erroneamente effettuato all’interno di un fascicolo telematico ormai definito (fase sommario Fornero) con conseguente produzione di 4° ricevuta di rifiuto da parte della competente Cancelleria e mancato inserimento nei registri informatizzati dell’ufficio giudiziario. (Corte app. L’Aquila 1/12/2016 n. 1020, Pres. Sannite Est. Ciangola, in Lav. nella giur. 2017, con commento di M. Frediani, 185)
- È legittima una pronuncia di merito, emessa nell’ambito del procedimento ex art. 1, commi 47 e ss. L. n. 92/2012 (rito Fornero), che, riconosciuta la contitolarità del rapporto di lavoro in capo a più datori, ha ritenuto applicabile l’art. 18 Stat. Lav., ha annullato il recesso per giustificato motivo oggettivo in quanto motivato con riferimento a uno solo di essi e ha respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda, perché la natura giuridica del rapporto, così come l’individuazione del soggetto che si assume essere datore di lavoro e destinatario dei provvedimenti di tutela ex art. 18 Stat. Lav., integrano questioni che il giudice dovrà affrontare e risolvere necessariamente all’interno del percorso per giungere alla decisione di merito sulla domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento; principio che trova conferma nell’art. 1, comma 47, L. n. 92/2012, la cui forma è esplicativa della “volontà del legislatore di non precluderne l’utilizzo per barriere imposte dall’apparenza della forma”. (Cass. 8/9/2016 n. 17775, Pres. Di Cerbo Rel. Amendola, in Lav. nella giur. 2017, con commento di F. M. Giorgi, 172)
- Il termine breve per la proposizione del reclamo previsto dall’art. 1, comma 58, L. n. 92 del 2012 non può farsi decorrere dalla lettura in udienza del dispositivo e della contestuale motivazione della sentenza del tribunale ex art. 429, comma 1, c.p.c. (Cass. 19/8/2016 n. 17211, Pres. Di Cerbo Rel. Ghinoy, in Lav. nella giur. 2016, 1118)
- Nell’ambito del procedimento disciplinato all’art. 1, commi 48 ss., della L. n. 92 del 2012, l’attività istruttoria assunta in entrambe le fasi di giudizio di primo grado va valutata unitariamente, senza che si possano scindere per fasi gli adempimenti richiesti alle parti in tema di formazione della prova. (Cass. 6/7/2016 n. 13788, Pres. Nobile Rel. Esposito, in Lav. nella giur. 2016, 1017)
- La domanda di tutela avverso licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 Stat. Lav. e quella avente ad oggetto l’impugnativa del medesimo recesso cui possa essere, in via subordinata, riconosciuta la tutela di cui all’art. 8 della L. n. 604 del 1966, possono essere proposte in unico ricorso, con rito ex art. 1, comma 48, L. n. 92 del 2012, in quanto fondate sugli stessi fatti costitutivi, poiché la dimensione dell’impresa non è un elemento costitutivo della domanda del lavoratore e, la prospettata interpretazione estensiva della disciplina di cui alla L. n. 92 del 2012, consente di evitare la parcellizzazione dei giudizi in modo che da un’unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro possa scaturire un unico processo. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, a fronte di un’impugnativa di licenziamento di una lavoratrice, assunta formalmente con contratto di associazione in partecipazione, aveva riconosciuto la tutela di cui all’art. 8 della L. n. 604 del 1966, richiesta in via subordinata. (Cass. 13/6/2016 n. 12094, Pres. Venuti Rel. Amendola, in Lav. nella giur. 2017, con commento di G. Treglia, 78)
- La fase dell’opposizione ai sensi dell’art. 1, c. 51, l. n. 92/2012, non costituisce un grado diverso rispetto alla fase sommaria ex art. 1, c. 48, l. n. 92 cit., non integrando una revisio prioris instantiae, ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente; conseguentemente è da escludere che possa determinare un obbligo di astensione o la facoltà della parte di richiedere la ricusazione del magistrato (persona fisica) che abbia conosciuto della fase sommaria, al pari di quanto affermato dalla Corte costituzionale riguardo alla legittimità dell’art. 51, c. 1, n. 4 c.p.c., ove non preveda un obbligo di astensione del medesimo giudice che abbia previamente concesso una misura cautelare ante causam. (Cass. 16/4/2016 n. 7782, Pres. Lamorgese Rel. Tria, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Enrico Maria Terenzio, “Il giudizio di opposizione nel rito cd. ‘Fornero’ non riveste natura impugnatoria”, 60)
- Non è un giudizio di impugnazione quello instaurato ex art. 1, comma 51, della l. n. 92/2012, per cui non può applicarsi la normativa relativa alle impugnazioni, compresa quella concernente la possibilità di proporre impugnazione incidentale da parte del soggetto parzialmente soccombente che abbia scelto di non proporre autonomamente ricorso in opposizione. (Trib. Roma 2/7/2015 n. 6562, Est. Vincenzi, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Barbara Tabasco, “Rito Fornero: gli stretti rapporti tra le due fasi”, 178)
- La parte che subisce l’opposizione può proporre domande riconvenzionali a mezzo delle quali può chiedere anche un nuovo esame di domande od eccezioni che nella fase sommarie o non sono state trattate, perché ritenute assorbite da altre, o sono state respinte. In questo caso la parte che propone domanda riconvenzionale deve chiedere lo spostamento dell’udienza. (Trib. Roma 2/7/2015 n. 6562, Est. Vincenzi, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Barbara Tabasco, “Rito Fornero: gli stretti rapporti tra le due fasi”, 178)
- Non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51, c. 1, n.4, c.p.c., e 1, c. 51, l. n. 92/2012 (cd. “legge Fornero”) in quanto, con il disporre – quest’ultima norma – che contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto di cui al c. 49 può essere proposta opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., da depositare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, e nel contemplare – la prima norma – l’obbligo di astensione in capo al magistrato che abbia conosciuto della causa in altro grado, risulterebbero lesivi degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito del giudizio di opposizione ex art. 1, c. 51, l. n. 92/2012, che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, c. 49, della stessa l. n. 92; le dette previsioni, che si differenziano infatti dal reclamo nel procedimento cautelare ex art. 669-terdecies, c. 2, c.p.c., non vulnerano il principio dell’imparzialità del giudice e non limitano, anzi accrescono, la tutela del lavoratore. (Corte Cost. 13/5/2015 n. 78, Pres. Criscuolo Est. Morelli, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Enrico Maria Terenzio, “Il giudizio di opposizione nel rito cd. ‘Fornero’ non riveste natura impugnatoria”, 59)
- La fase dell’opposizione, ai sensi dell’art. 1, comma 51, L. 28 giugno 2012, n. 92, non costituisce un grado diverso rispetto quella che ha preceduto l’ordinanza, ma solo una prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria, sicché non è configurabile alcuna violazione riconducibile all’art. 51, n. 4, nel caso in cui lo stesso giudice-persona fisica abbia conosciuto della causa in entrambe le fasi. (Cass. 17/2/2015 n. 3136, Pres. Roselli Rel. Roselli, in Lav. nella giur. 2015, 633, e in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Enrico Maria Terenzio, “Il giudizio di opposizione nel rito cd. ‘Fornero’ non riveste natura impugnatoria”, 60)
- Tra la causa proposta con il rito di cui all’art. 1, cc. 47 ss., l. n. 92/2012, per l’accertamento della legittimità del recesso del datore di lavoro, pendente in fase di opposizione, e quella concernente l’impugnativa del medesimo licenziamento, pendente nella fase sommaria dello stesso rito avanti a diverso tribunale, pure in astratto territorialmente competente, sussiste un rapporto di continenza, sicché, ai fini della determinazione del giudice competente, occorre aver riguardo esclusivamente al criterio della prevenzione – avuto riguardo alla data di deposito del ricorso – a prescindere dall’individuazione della causa contente e di quella contenuta, nonché dall’esame di profili processuali relativi alla domanda proposta davanti al giudice preventivamente adito. (Cass. 20/11/2014 n. 24790, ord., Pres. Curzio Est. Garri, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Enrico Maria Terenzio, “Il giudizio di opposizione nel rito cd. ‘Fornero’ non riveste natura impugnatoria”, 61)
- La fase introduttiva del giudizio di cui all’art. 1, cc. 47 ss., l. n. 92/12 ha natura sommaria, non cautelare; qualificazione da ricondursi alla natura “semplificata” dell’attività istruttoria consentita al giudice di questa fase, paragonabile a quella di cui al procedimento sommario di cognizione, nonché alla mancanza di formalità conseguente all’inapplicabilità delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. L’ordinanza conclusiva di questa fase ha, tuttavia, efficacia di giudicato sostanziale, così come quella di cui all’art. 702-quater c.p.c. L’opposizione all’ordinanza non è una revisio prioris instantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado. (Cass. 20/11/2014 n. 24790, ord., Pres. Curzio Est. Garri, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Enrico Maria Terenzio, “Il giudizio di opposizione nel rito cd. ‘Fornero’ non riveste natura impugnatoria”, 61)
- Le domande di pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, delle differenze retributive, degli emolumenti per licenziamento derivanti da accordi collettivi, nonché di risarcimento dei danni connessi al recesso, proposte attraverso il rito Fornero unitamente all’impugnazione del licenziamento, devono essere dichiarate inammissibili, non potendosi dar luogo a conversione del rito ex artt. 426 e 427 c.p.c., ovvero ex art. 4 del d.lgs. n. 150/2011, insuscettibili di applicazione analogica. (Trib. Roma 23/10/2014, ord., Est. Marrocco, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Daniela Schiuma, “Licenziamento del dirigente, accordi aziendali e rito Fornero: una decisione controversa”, 427)
- Deve ritenersi che, con il rito speciale di cui all’art. 1 comma 48, L. n. 92/2012, la domanda proposta dal ricorrente in via subordinata, non riguardante l’illegittimità del recesso datoriale ma solo la sua decorrenza, si fondi su fatti costitutivi non identici rispetto alle domande ex art. 18, L. n. 300/1970. Tale domanda va dichiarata improponibile. (Trib. Roma 2/10/2014 Giud. Buconi, in Lav. nella giur. 2015, 423)
- Essendo ammissibile la domanda del datore di lavoro, il quale, con le forme del c.d. rito Fornero, chieda l’accertamento della legittimità del licenziamento intimato al lavoratore, deve ritenersi che, ove il lavoratore abbia già impugnato in giudizio il medesimo licenziamento, ricorre la litispendenza ai sensi dell’art. 39 c.p.c., in quanto tra i due giudizi sussiste identità, oltre che di soggetti, anche del petitum e della causa petendi, a nulla rilevando che il datore assuma formalmente in un giudizio la qualità di attore e nell’altro quella di convenuto. (Trib. Bari 30/9/2014, ord. Giud. Minervini, in Riv. it. dir. lav. 2015, con nota di Donato Marino, “Decidibilità di questioni pregiudiziali nella fase sommaria del rito Fornero e fruibilità del rito da parte del datore di lavoro: questioni ancora controverse”, 518)
- La fase introduttiva del primo grado del nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti di cui alla L. n. 92 del 2012 ha natura sommaria non cautelare, qualificazione da ricondursi alla natura “semplificata” dell’attività istruttoria consentita al Giudice di questa fase, paragonabile a quella di cui al procedimento sommario di cognizione, nonché alla “mancanza di formalità” conseguente all’inapplicabilità delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. L’ordinanza conclusiva di questa fase ha, tuttavia, efficacia di giudicato sostanziale, così come quella di cui all’art. 702 quater c.p.c. L’opposizione all’ordinanza non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado. (Cass. S.U. 18/9/2014 n. 19674, ord., Pres. Rovelli Est. Amoroso, in Lav. nella giur. 2015, con commento di Filippo Maria Giorgi, 269)
- È ammissibile il regolamento di giurisdizione proprio nella prima fase del procedimento di impugnativa del licenziamento, di cui all’art. 1, cc. 47 ss., l. n. 92/12, la quale, pur caratterizzata da sommarietà dell’istruttoria, ha natura semplificata e non cautelare in senso stretto, non riferendosi la sommarietà anche alla cognizione del giudice, né sussistendo un’instabilità dell’ordinanza conclusiva di tale fase, che è idonea al passaggio in giudicato in caso di omessa opposizione. (Cass. S.U. 18/9/2014 n. 19674, ord., Pres. Amatucci Est. Amoroso, in Riv. giur. lav. prev. soc. 2016, con nota di Enrico Maria Terenzio, “Il giudizio di opposizione nel rito cd. ‘Fornero’ non riveste natura impugnatoria”, 62)
- Nel caso in cui sia esclusa l’applicabilità della tutela reintegratoria, deve ritenersi rilevata l’inammissibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 e, conseguentemente, si deve pronunciare il rigetto del ricorso stesso. (Trib. Milano 22/2/2014, Giud. Martello, in Lav. nella giur. 2014, 617)
- Nel caso in cui sia esclusa l’applicabilità della tutela reintegratoria, deve ritenersi rilevata l’inammissibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012 e, conseguentemente, si deve pronunciare il rigetto del ricorso stesso. (Trib. Milano 22/2/2014, Giud. Martello, in Lav. nella giur. 2014, 617)
- Va disposta la trasmissione degli atti al primo presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite in relazione alle questioni di massima di particolare importanza relative a) all’ammissibilità nella fase sommaria del c.d. rito Fornero del rilievo e della decisione di questioni di rito; b) all’ammissibilità, proponibilità o fruibilità del medesimo rito da parte del datore di lavoro per l’accertamento della legittimità del licenziamento intimato, questione dalla cui risoluzione dipende anche l’esito dell’ulteriore concernente l’ammissibilità in fase sommaria della domanda riconvenzionale proposta dal lavoratore. (Cass. 18/2/2014 n. 3838, Pres. Mammone Est. Blasutto, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Domenico Dalfino, “Obbligatorietà del c.d. rito Fornero (anche per il datore di lavoro) e decisioni di questioni nella fase sommaria”, e di Dino Buoncristiani, “Successivo o anche preventivo controllo di validità di un licenziamento”, 380)
- Coloro che intendano contestare le parti di una pronuncia cautelare a loro sfavorevole hanno una duplice facoltà: o proporre opposizione “in via principale”, prospettandosi, in tal caso, la necessità di riunione dei giudizi; ovvero attendere (l’eventuale) notifica del ricorso in opposizione e proporre rituale domanda riconvenzionale, secondo le forme procedurali dettate dall’art. 416 c.p.c., richiamato dal comma 53 della l. n. 92/2012. (Corte app.Torino 10/2/2014, Pres. Girolami Est. Milani, in Riv. it. dir. lav. 2016, con nota di Barbara Tabasco, “Rito Fornero: gli stretti rapporti tra le due fasi”, 178)
- Il nuovo rito per l’impugnazione dei licenziamenti non prevede che, in primo grado, il giudice delle due fasi debba essere diverso e a una diversa conclusione non può pervenirsi nemmeno per via interpretativa, trattandosi di un procedimento bifasico (nel quale l’ordinanza opposta costituisce un mero provvedimento interinale non suscettibile di giudicato), al quale non si applica l’obbligo di astensione per aver “conosciuto” la causa “in altro grado”, procedimento che appare privo di affinità con quello ex art. 28 Stat. Lav. (rispetto al quale la Corte Cost. ha affermato l’applicabilità dell’art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c.) e che “nasce ab origine come affidato al medesimo giudice per una scelta precisa del Legislatore”. Ciò nonostante, dalla considerazione che la seconda fase può assumere valore impugnatorio, con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae, deriva il rilevante e non manifestamente infondato sospetto di incostituzionalità di tale disciplina per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. (Trib. Milano 27/1/2014, ord., Pres. ed Est. Manfredini, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Filippo Maria Giorgi, 577)
- È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 51, comma 1, n. 4 c.p.c. e 1, comma 51, legge 28 giugno 2012, n. 92 (disposizioni materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), nella parte in cui non prevedono l’obbligo di astensione per l’organo giudicante (persona fisica) investito del giudizio di opposizione ex art. 51, comma 1, l. n. 92/2012 che abbia pronunciato l’ordinanza ex art. 1, comma 49, l. n. 92/2012, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. (Trib. Milano 27/1/2014, Pres. e Rel. Manfredini, in Lav. nella giur. 2014, 293)
- La legge 28 giugno 2012, n. 92, meglio nota come riforma Fornero, di immediata applicabilità al pubblico impiego privatizzato limitatamente alle norme di azione e di carattere processuale, pur introducendo un rito speciale per l’impugnativa dei licenziamenti individuali, anche disciplinari, non preclude il ricorso all’azione monitoria ordinaria prevista dall’art. 700 c.p.c., soggetta, tuttavia, ad un controllo giudiziale più stringente in ordine all’allegazione dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora). (Trib. Napoli 9/1/2014, G.U. Barbato, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Paola Cosmai, 787)
- La sentenza emessa nell’ambito del procedimento ex art. 1, comma 51, L. 28 giugno 2012, n. 92 deve essere dichiarata nulla ai sensi degli artt. 158 e 161 c.p.c. se emessa dallo stesso giudice che ha giudicato nella prima fase conclusasi con ordinanza ai sensi dell’art. 1, comma 49, legge cit. (Corte app. Milano 13/12/2013, Pres. Sala Rel. Pizzi, in Lav. nella giur. 2014, 190)
- Nel procedimento disciplinato dal cd. “rito Fornero” non possono essere proposte domande fondate su fatti costitutivi diversi rispetto a quelli rilevanti ai fini della decisione sulla legittimità del licenziamento ex art. 18 l. n. 300/1970; esse devono quindi essere dichiarate improponibili, senza che si possa provvedere alla separazione dei procedimenti ed al mutamento del rito. (Trib. Roma 9/12/2013, ord., in Lav. nella giur. 2014, con commento di Luigi Andrea Cosattini, 799)
- Non è proponibile con il procedimento di cui all’art. 1, commi 47 e ss., l. n. 92/2012 la domanda con la quale il lavoratore licenziato chiede al Giudice di accertare che il datore di lavoro “sostanziale” è diverso da quello “formale” (nel caso di specie, pluralità di società facenti capo ad un unico centro di imputazione di interessi). La questione può essere invece affrontata incidentalmente e la decisione su di essa va assunta nell’ambito di un provvedimento di merito che statuisca sulla fondatezza o meno della domanda riguardante la legittimità del licenziamento. (Trib. Roma 9/12/2013, ord., in Lav. nella giur. 2014, con commento di Luigi Andrea Cosattini, 799)
- L’articolo 1 della legge n. 92/2012 prevede che con il tiro introdotto dai commi 47 e ss. della medesima legge possano essere affrontate tutte le questioni pregiudiziali rispetto alle domande ex art. 18 della legge n. 300/1970. Poiché tale disposizione parla di “questioni” e non di domande, deve ritenersi che non sia consentito proporre in via principale con il ricorso ex art. 1, comma 48, le domande di accertamento del carattere subordinato del rapporto in generale, né quelle di accertamento della titolarità del rapporto in capo a un datore di lavoro diverso da quello formalmente risultante (NDR nel caso di specie sulla sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto). (Trib. Roma 9/12/2013, Giud. Buconi, in Lav. nella giu. 2014, 191)
- L’art. 134 c.p.c. non si applica solo alle ordinanze istruttorie ma a qualsiasi tipo di ordinanza emessa in udienza, perché la conoscibilità del provvedimento deriva appunto dalla circostanza della pronunzia in udienza e dell’inserimento nel relativo verbale (tale principio è riferibile anche all’ordinanza che definisce la prima fase del c.d. rito Fornero NDR). (Da ciò discende che l’ordinanza, laddove emessa in udienza, non necessita di comunicazione da parte della Cancelleria, pertanto il termine per l’opposizione decorre dalla data dell’udienza stessa NDR). (Corte app. Roma 21/11/2013, in Lav. nella giur. 2014, 88)
- La l. n. 92/2012, nei commi 47 e seguenti dell’art. 1, disciplina un modello procedimentale, non certamente nuovo nel processo civile, c.d. bifasico, costituito da una fase preliminare e necessaria, prettamente sommaria, e una fase successiva ed eventuale, non soltanto a cognizione, ma anche a istruttoria piena. Il rapporto tra le due fasi è quello tipico di un momento di cognizione sommaria – previsto dal legislatore principalmente a scopi acceleratori – e una fase successiva, eventuale, a cognizione piena, non sovrapponibile per quanto attiene ai profili soggettivi, oggettivi e procedimentali alla prima, e quindi non comportante la necessità di dover ripercorrere, entro stretti e già delimitati binari, l’itinerario logico già seguito per pervenire all’adozione del provvedimento opposto. (Corte app. Brescia 25/9/2013, Pres. Nuovo Rel. Finazzi, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Filippo Collia, 1066)
- Non sussiste l’interesse ad agire del datore di lavoro, il quale, con le forme del cd. rito Forneo, proponga domanda di accertamento della legittimità del licenziamento intimato al lavoratore. (Trib. Palermo 10/6/2013, ord., in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Domenico Dalfino, “Obbligatorietà del c.d. rito Fornero (anche per il datore di lavoro) e decisioni di questioni nella fase sommaria”, e di Dino Buoncristiani, “Successivo o anche preventivo controllo di validità di un licenziamento”, 380)
- Nella fase sommaria del cd. rito Fornero è inammissibile la domanda riconvenzionale (nella specie, relativa alla legittimità del licenziamento, alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento dei danni, proposta dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, che, a sua volta, aveva chiesto accertarsi la legittimità del licenziamento intimato. (Trib. Palermo 10/6/2013, ord., in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Domenico Dalfino, “Obbligatorietà del c.d. rito Fornero (anche per il datore di lavoro) e decisioni di questioni nella fase sommaria”, e di Dino Buoncristiani, “Successivo o anche preventivo controllo di validità di un licenziamento”, 380)
- Lo speciale rito descritto dall’art. 1, commi da 48 a 68, l. n. 92 del 2012, ha natura sommaria ma non cautelare, sicché esso non appare astrattamente incompatibile con la procedura di cui all’art. 700 c.p.c. La tutela sommaria stabilita dal c.d. rito Fornero può essere anticipata da una tutela urgente ex art. 700 c.p.c. in presenza di un periculum qualificato, quando vengono in gioco questioni che attengono alla dignità umana e alla sopravvivenza libera e dignitosa della persona e della sua intera famiglia. (Trib. Ravenna 18/3/2013, Giud. Riverso, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Maria Dolores Ferrara, 567)
- Rilevato che la determinazione del rito utilizzabile è diretta conseguenza della prospettazione della domanda, ove questa abbia a oggetto l’accertamento dell’illegittimità di un contratto di somministrazione e del termine a esso apposto e l’attuale esistenza del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’utilizzatore, deve escludersi che la controversia abbia a oggetto l’impugnativa di un licenziamento regolato dall’art. 18 Stat. Lav. e che possa, quindi, essere utilizzato lo speciale procedimento di cui all’art. 1, comma 47 ss. l. n. 92 del 2012, con conseguente necessità di disporre il mutamento del rito in quello ordinario previsto per le controversie di lavoro. (Trib. Roma 21/2/2013, ord., Giud. Leone, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Filippo Maria Giorgi, 924)
- In assenza di specifica disciplina sul punto, non risulta possibile, nemmeno nella fase di cui al comma 49 dell’art. 1 l. n. 92 del 2012, convertire il rito (instaurato ex comma 48 art. 1 cit.) nelle forme di cui agli artt. 413 e ss. c.p.c., tale conversione è ancor più da escludersi che possa avvenire nella fase di opposizione, introdotta proprio sul presupposto che la domanda ex art. 18 Stat. Lav. sia fondata e debba essere azionata nelle forme processuali previste dalla l. n. 92 del 2012 e non con ricorso ex art. 414 c.p.c., la cui proposizione non era certo preclusa dalla dichiarazione, per ragioni di mero rito, di inammissibilità/improponibilità adottata dal Tribunale con l’ordinanza ex art. 1 comma 49 l. n. 92 del 2012. (Trib. Milano 15/2/2013 Giud. Greco, in Lav. nella giur. 2013, 525)
- A fronte di un ricorso che abbia i requisiti di cui all’art. 125 c.p.c., atteso che spetta al giudice di qualificare la domanda e per il principio di conservazione degli atti processuali, resta irrilevante l’omessa indicazione della l. n. 92 del 2010 nell’atto introduttivo, dovendosi avere riguardo alla domanda e applicare il rito di cui alla l. n. 92 del 2012 tutte le volte in cui la controversia abbia a oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 Stat. Lav., in quanto deve escludersi la “facoltatività” del rito. (Trib. Reggio Calabria 6/2/2013, ord., Giud. Picari, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 373)
- La domanda riconvenzionale del lavoratore volta a ottenere la pronuncia della illegittimità del licenziamento e il riconoscimento della conseguente tutela di legge è ammissibile anche nella prima fase del cd. rito Fornero che sia stato instaurato dal datore di lavoro per il giudiziale accertamento della legittimità del licenziamento, attenendo agli stessi fatti costitutivi. (Trib. Reggio Calabria 6/2/2013, ord., Giud. Picari, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 373)
- Laddove sia proposta la domanda con il c.d. rito Fornero ma l’oggetto del contendere non sia invia immediata “l’impugnativa di licenziamento nell’ipotesi regolate dall’art. 18 della l. n. 300/1970” come previsto dall’art. 1 comma 47 l. n. 92 del 2012, il Giudice propone il mutamento del rito assegnando alle parti dei termini per l’integrazione dei rispettivi atti. (Trib. Palermo 15/1/2013, Giud. Barone, in Lav. nella giur. 2013, 526)
- La comunicazione datoriale di scadenza del contratto di apprendistato per mancato raggiungimento della qualifica non può qualificarsi come licenziamento, trovando applicazione i principi in materia di disdetta da un contratto a termine; ne consegue l’inapplicabilità del rito speciale di cui all’art. 1, commi 47 ss. l. n. 92 del 2012 e, in mancanza di una specifica disposizione, l’applicazione del principio generale, desumibile dall’art. 702-ter c.p.c., che impone, in caso di errore nella scelta del rito, di dichiarare la inammissibilità della domanda. (Trib. Roma 14/1/2013, ord., Giud. Nunziata, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Filippo Maria Giorgi, 925)
- La riforma Fornero non ha inciso sull’orientamento giurisprudenziale di legittimità che ha sempre affermato l’interesse ad agire, con azione di mero accertamento, da parte del datore di lavoro ogni qualvolta ricorra una pregiudizievole situazione di incertezza relativa a diritti o rapporti giuridici, la quale, anche con riguardo ai rapporti di lavoro subordinato, non sia eliminabile senza l’intervento del giudice, sicché è ammissibile la domanda del datore di lavoro diretta all’accertamento della legittimità del licenziamento, ancorché questo risulti essere già stato impugnato dal lavoratore con l’instaurazione di un precedente giudizio. (Trib. Genova 9/1/2013, ord., Giud. Ravera, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 367)
- Il rito Fornero non è finalizzato alla reintegrazione o a evitare risarcimenti lievitanti nel tempo, ma a dare pronta certezza proprio ai rapporti di lavoro anche dove l’azienda per la fattispecie solutoria può da subito prevedere l’entità del risarcimento non destinato a crescere nel tempo per effetto della durata del processo. (Trib. Genova 9/1/2013, ord., Giud. Ravera, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 367)
- La chiarezza della disposizione “procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione” delle controversie in materia di licenziamenti e la sua collocazione all’inizio dell’art. 1, indicano che ogni volta che l’interpretazione letterale o sistematica del testo possa dare luogo a più soluzioni, bisognerà privilegiare quella che risponde meglio alla finalità della normativa. (Trib. Genova 9/1/2013, ord., Giud. Ravera, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 367)
- L’esecutività dell’ordinanza che chiude la fase sommaria vale anche per l’ordinanza di rigetto del ricorso introdotto dal lavoratore e quindi tale esecutività non è finalizzata alla stabilità della reintegra ma a dare certezza al complessivo rapporto di lavoro, secondo la ratio di fondo del nuovo rito processuale. (Trib. Genova 9/1/2013, ord., Giud. Ravera, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 367)
- L’azione proposta dal lavoratore non è tecnicamente una impugnativa di licenziamento ma una azione di accertamento negativo della sua legittimità, con conseguente domanda di reintegra e di risarcimento del danno, così come specularmente, l’azione proposta dal datore di lavoro, è un’azione di accertamento positivo della sua legittimità e implicita (e consequenziale) domanda che il lavoratore non ha diritto alla reintegra e al risarcimento. (Trib. Genova 9/1/2013, ord., Giud. Ravera, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 367)
- Il rito c.d. Fornero è obbligatorio per entrambe le parti e deve trovare applicazione per tutte le controversie nelle quali si discuta della legittimità di un licenziamento venga richiesta o meno l’applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970 come modificato: il rito non è infatti funzionale alla reintegrazione ma alla certezza dei rapporti cui deve pervenirsi per mezzo della celerità del rito. (Trib. Genova 9/1/2013, ord., Giud. Ravera, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 367)
- In ogni caso sussiste un interesse concreto e attuale del datore di lavoro che riceve una richiesta di costituzione del collegio di conciliazione e arbitrato previsto dall’art. 7 l. n. 300 del 1970 ad agire in prevenzione, operando così il trasferimento della sede arbitrale a quella giudiziale. (Trib. Genova 9/1/2013, ord., Giud. Ravera, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Alberto Piccinini, 367)
- Il nuovo speciale procedimento ex l. n. 92 del 2012 dovrà essere attivato dal giudice ogni qual volta, impugnando il licenziamento, l’attore chieda la reintegra, salvo che si tratti di prospettazione palesemente strumentale, abnorme, errata. Qualora invece tali situazioni limite non ricorrano, il giudice aprirà il nuovo procedimento; se poi, nel contraddittorio tra le parti ma in limine litis (ossia prima della trattazione istruttoria), egli rileverà che non ricorrono i presupposti della reintegra, si pronunzierà immediatamente, o dichiarando inammissibile la domanda o disponendo il mutamento di rito ex art. 4 d.lgs. n. 150 del 2011 (ovvero ex artt. 426 s., c.p.c.). Se, invece, l’insussistenza del requisito dimensionale per la reintegra emergerà a seguito dell’istruttoria (ricordando che l’onere grava sul datore di lavoro), pare preferibile che il giudice si pronunci ormai nel merito. (Trib. La Spezia 7/1/2013, Giud. Panico, in Lav. nella giur. 2013, 313)
- Con il ricorso ex art. 1, commi 47 ss. l. n. 92 del 2012 non possono essere proposte domande diverse da quelle di impugnativa del licenziamento e di tutela ex art. 18 Stat. Lav. novellato (comma 48), salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi. Nel caso di errore nella scelta del rito che emerga sin dall’atto introduttivo del giudizio deve, pertanto, emettersi un provvedimento con il quale si disponga la conversione del rito, assegnando un termine per la regolarizzazione degli atti, in aderenza al principio di conservazione degli atti. Devono viceversa essere dichiarate inammissibili le domande riconvenzionali, anche se fondate su fatti costitutivi identici, non essendo prevista nella fase sommaria la possibilità della loro proposizione, trattandosi di determinazione legislativa chiaramente connessa alle esigenze di celerità che la caratterizzano. (Trib. Taranto 30/11/2012, Giud. Magazzino, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Simona Santaroni, 587)
- Caratteristica fondamentale del nuovo procedimento risiede nel fatto che, per le controversie alle quali esso è applicabile, il rito di cui all’art. 1 l. n. 92 del 2012 costituisce l’unica modalità di esercizio dell’azione giudizile. In altri termini, non è concessa alla parte interessata la facoltà di scelta tra l’ordinario rito del lavoro di cui al codice di procedura civile e quello introdotto dal legislatore del 2012, essendo il ricorrente tenuto a seguire questo secondo. (Trib. Roma 28/11/2012, Giud. Sordi, in Lav. nella giur. 2013, 314, e in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di Giovanna Pacchiana Parravicini, “Il rito Fornero: un labirinto senza uscita?”, 288)
- L’individuazione delle controversie soggette al rito speciale si deve procedere senza alcun riguardo alla circostanza che i licenziamenti che vi hanno dato origine siano poi in concreto assoggettati alla disciplina contenuta nella nuova versione dell’art. 17 St. lav: quest’ultima, infatti, si applicherà ratione temporis solo ai licenziamenti a far data dal 18 luglio 2012, mentre – secondo quanto previsto dall’art. 1 comma 67 l. n. 92 del 2012 – il nuovo rito si applica alle “controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge”. (Trib. Roma 31/10/2012, Giud. Pucci, in Lav. nella giur. 2013, 315)
- Nel caso di recesso ante tempus da un contratto a tempo determinato intimato a una lavoratrice in stato di gravidanza antecedentemente al 18 luglio 2012, esclusa l’applicabilità dell’art. 18 Stat. Lav. come modificato dalla l. n. 92 del 2012, deve ritenersi l’erroneità del ricorso al rito speciale introdotto da detta legge e, nel silenzio del legislatore in ordine alle conseguenze dell’erronea adozione del nuovo rito piuttosto che di quello lavoristico, può farsi riferimento all’art. 4 d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, che conferma l’individuabilità nell’ordinamento di un principio generale di “mutamento del rito”. (Trib. Roma 31/10/2012, ord., Giud. Pucci, in Lav, nella giur. 2013, con commento di Filippo Maria Giorgi, 926)
- Le controversie di cui all’art. 1, comma 47 e 48 l. n. 92/2012 si caratterizzano per l’identità del rapporto di lavoro dedotto in giudizio con quello per cui si chiede la tutela reintegratoria ai sensi dell’art. 18 St. lav. con conseguente esclusione, a titolo esemplificativo, di tutte le domande, anche preliminari e incidentali, relative all’accertamento della costituzione di diversi e ulteriori rapporti di lavoro con soggetti terzi rispetto al formale datore di lavoro. L’accertamento di un rapporto di lavoro diverso da quello dedotto in causa richiede, infatti, un’indagine istruttoria che appare incompatibile con la sommatorietà del rito di cui all’art. 1 comma 48 L. 92/2012 e, pertanto, la relativa domanda è inammissibile. (Trib. Milano 25/10/2012, ord., Giud. Scarzella, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1086)
- Nel caso in cui il ricorrente chieda l’accertamento del suo diritto a essere reintegrato presso un datore di lavoro diverso da quello da cui lo stesso era stato formalmente assunto, la controversia non rientra tra quelle ricomprese nel nuovi rito di cui all’art. 1 comma 47 ss. l. n. 92 del 2012, disciplina da interpretarsi restrittivamente e che non tollera indagini istruttorie incompatibili con la natura sommaria del procedimento; la conseguente inammissibilità del ricorso non rileva ai fini della configurabilità di una causa di decadenza ex art. 32 l. n. 183/2010, al qual fine rileva soltanto la data del deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale funzionalmente e territorialmente competente. (Trib. Milano 23/10/2012, ord., in Lav. nella giur. 2013, con commento di Filippo Maria Giorgi, 928)
- L’applicabilità del rito sommario ex art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012 è retta, al pari della competenza, dal principio della prospettazione, fatti salvi i casi in cui la prospettazione offerta dalla parte ricorrente appaia prima facie artificiosa e volta al solo fine di sottrarre la cognizione della causa al giudice predeterminato per legge. Il rito rimane legato al petitum a prescindere dalle evoluzioni di quest’ultimo nel corso del processo. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- Nel caso in cui il lavoratore, con ricorso ex art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012, denunzi l’esistenza di un organico sufficiente all’applicazione dell’art. 18 St. Lav. o chieda l’applicazione dell’art. 18 deducendo trattarsi di licenziamento vietato o inefficace per difetto di forma, il nuovo rito sommario sarà applicabile e l’eventuale domanda subordinata di tutela debole (ex art. 8 della legge n. 604/1966) rientrerà per trascinamento nel rito speciale. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- La lettura costituzionalmente orientata dell’espressione “questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” utilizzata dal legislatore, impone di considerare rientranti tra dette questioni e quindi ammissibili ex art. 1, comma 47 e ss. l. n. 92/2012 anche le questioni nelle quali è in contestazione tra le parti l’esistenza di un qualunque vincolo sinallagmatico, nonché le ipotesi in cui è richiesto l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro con un soggetto diverso da quello che formalmente ha rivestito tale posizione nel sinallagma contrattuale, ovverosia la fattispecie della interposizione fittizia di manodopera. L’accertamento sulle domande “relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” deve arrestarsi a ciò che è necessario e sufficiente a reggere la domanda principale (l’impugnazione del licenziamento), essendo a questa pregiudiziali e non assurgendo ad autonomo capo di domanda. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- Le domande ultronee che non trovano spazio nell’ambito di applicazione del nuovo processo sommario ex art. 1, comma 47 e ss., l. n. 92/2012 devono esere dichiarate improponibili in rito, con pronuncia che non incide sulla riproponibilità delle stesse con ricorso ordinario. (Trib. Napoli 16/10/2012, ord., Giud. Picciotti, in Riv. It. Dir. lav. 2012, con nota di Aldo Bottini, “Il nuovo processo per l’impugnazione dei licenziamenti: obbligatorietà e selezione all’ingresso”, 1085)
- L’impugnativa di licenziamento con richiesta di applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970, depositata dopo il 18 luglio 2012, va trattata con il procedimento sommario previsto dall’art. 1, commi 48 ss. l. n. 92 del 2012, nel quale tuttavia non possono essere formulate domande diverse dall’impugnativa predetta limitatamente alle ipotesi regolate dal citato art. 18, a meno che siano “fondate sugli identici fatti costitutivi”; con l’effetto che, ove proposte, dette domande devono essere dichiarate inammissibili. (Nella specie, il Tribunale di Palermo ha dichiarato inammissibili le domande relative a mansioni superiori e pagamento di differenze retributive, anche in relazione a un inizio anticipato del rapporto rispetto alla sua regolarizzazione, nonché quelle di accertamento della temporanea sospensione degli effetti dell’intimazione di licenziamento fatta al lavoratore in malattia, in concreta rivolta al pagamento di retribuzioni sino all’effettiva cessazione del rapporto al termine della malattia, e di condanna al pagamento dell’indennità di malattia per il medesimo periodo spiegata nei confronti dell’INPS). (Trib. Palermo 15/10/2012, Giud. Marino, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Simona Santaroni, 591)
Lavoro all’estero
- Poichè la legge dello Stato di New York – applicabile nella fattispecie di lavoro sorto e svoltosi in detto stato in virtù dell’art. 6 della Convenzione di Roma del 19/6/80 – non prevede tutela contro il licenziamento ingiustificato, detta legge deve essere ritenuta contraria al principio di ordine pubblico italiano che prevede la necessaria giustificazione dell’esercizio della facoltà di recesso datoriale. Ne consegue l’applicazione al regime del recesso della normativa italiana, ai sensi dell’art. 16 della Convenzione di Roma, con le conseguenze concrete dalla stessa previste in relazione alla fattispecie (tutela reale od obbligatoria). (Cass. 9/5/2007 n. 10549, Pres. Mattone Est. Miani Canevari, in D&L 2007, “con nota di Maddalena Russo, “Rapporto di lavoro all’estero e legge applicabile in caso di licenziamento”, 891)
- L’art. 18 SL, come modificato dalla L. 11/5/90 n. 108, nel riferirsi alla complessiva dimensione organizzativa dell’azienda non pone alcuna restrizione di ambito territoriale e pertanto i requisiti di legittimità della scelta imprenditoriale e i requisiti numerici per l’applicazione della tutela reale non possono essere valutati alla stregua della sola situazione italiana, ma dell’impresa nella sua interezza. (Corte App. Roma 29/3/2007, Pres. Cataldi Est. Cocchia, in D&L 2007, con nota di Emanuela Fiorini, “Società con sede all’estero, numero dei dipendenti e tutela reale”, 905)
- Ai fini del diritto privato internazionale privato italiano, la domanda con la quale il lavoratore italiano chiede la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro, in relazione ad un rapporto di lavoro sorto all’estero con datore di lavoro italiano, ivi eseguito e poi risolto a seguito di recesso datoriale, introduce una controversia relativa ad obbligazioni contrattuali ai sensi dell’art. 57 l. n. 218 del 1995, cui pertanto si applica la normativa individuata ai sensi della l. n. 975 del 1984, che ha ratificato la convenzione di Roma del 19 giugno 1980. In particolare, ai sensi dell’art. 6, 2° comma, lett. a), della convenzione di Roma del 19 giugno 1980, ratificata con l. n. 975 del 1984, il rapporto di lavoro tra lavoratore e datore di lavoro italiani sorto, eseguito e risolto negli Stati Uniti d’America è regolato dalla legge del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, salvo che questa non risulti manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico italiano. Pertanto, in ipotesi di controversia relativa al licenziamento di lavoratore italiano svolgente attività di lavoro negli Stati Uniti d’America, va ritenuta inapplicabile la legge staunitense che non appresti tutela contro il licenziamento ingiustificato, in quanto disciplina manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico italiano. (Cass. 11/11/2002, n. 15822, Pres. Senese, Est. Cuoco, in Foro it. 2003, parte prima, 484; in Giur. italiana 2003, 1117, con nota di Lina Del Vecchio, La legge regolatrice del rapporto di lavoro all’estero ed il limite dell’ordine pubblico internazionale)
Questioni varie
- No al licenziamento se in scritti difensivi si attribuisce al datore di lavoro fatti non veri con espressioni offensive, purché inerenti l’oggetto del giudizio.
In un caso in cui il dipendente di una società era stato licenziato in tronco perché in un giudizio da lui promosso nei confronti della datrice di lavoro per ottenere differenze retributive aveva usato in scritti difensivi, per sostenere le proprie tesi, espressioni di aspra critica, con l’attribuzione di fatti costituenti in astratto reato (violenza privata), la Corte, confermando la non ricorrenza della calunnia nell’attribuzione di fatti di violenza per difetto dell’elemento del dolo, ha ricordato l’esimente stabilita dall’art. 598 c.p. per le offese concernenti l’oggetto della causa contenute negli scritti difensivi, alle quali, come all’attribuzione di fatti non veri, ma verosimili, non è pertanto consentito reagire col licenziamento. (Cass. 11/7/2023 n. 19621, Pres. Raimondi Rel. Garri, in Wikilabour, Newsletter n. 14/2023) - È inammissibile la richiesta di referendum popolare per l’abrogazione del d.lgs. 4.3.2015 n. 23 – Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti –, e dell’art. 18 della legge 20.5.1970, n. 300 (richiesta dichiarata legittima con ordinanza del 9.12.2016 dell’Ufficio centrale per il referendum,, costituito presso la Corte di Cassazione). (Corte Cost. 27/12/2017, n. 26, Pres. Grossi Est. Lattanzi, in Riv. Giur. Lav. prev. soc. 2017, con nota di F. Pallante, “La dubbia inammissibilità del referendum sui limiti alla tutela reale contro i licenziamenti illegittimi”, 523)
- Anche in assenza di responsabilità disciplinare del prestatore di lavoro, il licenziamento intimato dal datore di lavoro nella consapevolezza di ciò, e al solo fine di trovare un capro espiatorio e di coprire proprie responsabilità, non è comunque viziato da motivo illecito, non essendovi violazione di norma imperativa. (Trib. Roma 4/3/2015 n. 2318, Giud. Pangia, in Lav. nella giur. 2015, con commento di Carlo Cester, 605)
- La previsione di cui all’art. 2, comma 2, L. n. 604/1966, alla cui stregua, dalla violazione dell’obbligo datoriale di esplicitare specificatamente la motivazione del licenziamento consegue la declaratoria di inefficacia del recesso, è applicabile non soltanto in caso di totale carenza della motivazione, bensì anche in ipotesi di motivazione generica. Anche a seguito delle modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012 in materia di licenziamento, e della previsione, di cui all’art. 18, comma 6, Stat. Lav., di una tutela di natura meramente indennitaria in presenza di vizi formali e procedurali, nei rapporti soggetti alla disciplina limitativa per le piccole imprese, il licenziamento motivato genericamente continua a essere regolato dall’art. 2, comma 3, L. n. 604/1966, che, nel prevederne l’inefficacia, produce gli effetti di rito comune della accertata persistenza del rapporto di lavoro: diritto al ripristino e all’integrale risarcimento dei danni subiti; anche il novellato art. 18, comma 6, si applica, infatti, soltanto ai datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze più di quindici lavoratori. (Trib. Roma, 17/11/2014, n. 8365, Cons. Est. Masi, in Lav. nella giur. 2015, con commento di Elena Giorgi, 382)
- Non è ammissibile un’azione preventiva di mero accertamento intesa a verificare se la condotta del lavoratore sia, per la sua gravità, tale da ledere l’elemento fiduciario alla base del rapporto di lavoro e, dunque, da giustificare il licenziamento, considerato che l’interesse ad agire sussiste solo ove ricorra una pregiudizievole situazione di incertezza relativa a diritti o rapporti giuridici non eliminabile senza l’intervento del giudice, mentre, in tale evenienza, l’esito del giudizio non risolve la questione controversa poiché è comunque rimessa alla successiva determinazione discrezionale del datore di lavoro la valutazione se procedere alla contestazione degli addebiti, peraltro con palese violazione dei principi di immediatezza della contestazione e di tempestività del recesso datoriale, che rispondono all’esigenza di rispettare le regole di buona fede e correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro. (Cass. 30/6/2014 n. 14756, Pres. Roselli Rel. Venuti, in Lav. nella giur. 2014, 1023)
- Il licenziamento ingiurioso, ossia lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, che dà luogo al risarcimento del danno, ricorre soltanto in presenza di una particolare offensività e non funzionalità delle espressioni usate dal datore di lavoro o di eventuali forme ingiustificate e lesive di pubblicità date al provvedimento, le quali vanno rigorosamente provate da chi le adduce, unitamente al lamentato pregiudizio. (Cass. 13/3/2014 n. 5885, Pres. Miani Canevari Est. Venuti, in Lav. nella giur. 2014, 606)
- La pronuncia di illegittimità del licenziamento ha effetti retroattivi, che comportano la non interruzione del rapporto lavorativo, assicurativo e previdenziale; ne consegue che il datore di lavoro ha, pertanto, l’obbligo di versare all’ente previdenziale i contributi assicurativi per tutta la durata del periodo e l’eventuale ritardo, che, dipendendo da un atto illegittimo dello stesso datore di lavoro, non può reputarsi giustificato, comporta l’applicazione delle sanzioni civili previste dall’ottavo e dal nono comma dell’art. 116 della legge 2000 n. 388. (Cass. 11/10/2013 n. 23181, Pres. Roselli Re. Curzio, in Lav. nella giur. 2014, con commento di Agostino Di Feo, 351)
- Il termine finale fissato dal CCNL per l’irrogazione della sanzione del licenziamento deve intendersi come perentorio. (Trib. Patti 1/10/2013, Est. La Spada, in Lav. nella giur. 2013, 1046)
- Nei giudizi di impugnativa di un licenziamento, l’aliunde perceptum non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto ed è, pertanto, rilevabile d’ufficio dal giudice se le relative circostanze di fatto risultano ritualmente acquisite al processo, anche se per iniziativa del lavoratore. (Cass.- 25/7/2013 n. 18093, Pres. Stile Est. Matera, in Riv. It. Dir. lav. 2014, con nota di Giuseppina Pensabene Lionti, “Licenziamento e mobbing: profili sostanziali e processuali di un rapporto ‘complesso’”, 254)
- In caso di licenziamento di direttore di giornale non qualificabile come dirigente è applicabile l’art. 18 l. 20 maggio 1970 n. 300. (Trib. Perugia 5/1/2013, Giud. Liscio, in Lav. nella giur. 2013, con commento di Ilaria Fiaoni, 712)
- A seguito della riforma del 2012, le ipotesi di licenziamento nullo effettuate da parte di un datore di lavoro non imprenditore che svolge attività di natura politica, in tutti i casi in cui dall’art. 1 comma 42 lett. b l. n. 92 del 2012, prevedono l’applicazione della tutela reale. Depongono in tale senso ragioni di carattere generale, laddove il legislatore ne ha previsto l’applicazione all’imprenditore o non imprenditore. Nello stesso senso ragioni di carattere sistematico, considerando che la nuova normativa ha riorganizzato l’intera materia relativa ai licenziamenti nulli e, infine, ragioni di carattere logico. (Trib. Roma 21/11/2012, Giud. Billi, in Lav. nella giur. 2013, 315)
- È nullo il licenziamento formalmente intimato per giustificato motivo oggettivo a seguito di chiusura di un punto vendita, ove in adempimento dell’obbligo di repêchage siano esercitate pressioni sulla lavoratrice per indurla ad accettare condizioni di lavoro deteriori quali il passaggio al regime d’orario full-time presso un’unità produttiva sita in altro comune. La condotta del datore di lavoro viola l’art. 5, d.lgs. n. 61/2000 e comporta la nullità del licenziamento per motivo illecito di natura ritorsiva. Ne consegue l’applicazione della tutela reintegratoria prevista dal novellato art. 18, c. 1, l. n. 300/1970. (Trib. Bologna 19/11/2012, Giud. Coco, in Riv. It. Dir. lav. 2013, con nota di Pietro Ichino, “Quando il giudice confonde il difetto di giustificato motivo con il motivo illecito”, e di Franco Scarpelli, “Giustificato motivo di recesso e divieto di licenziamento per rifiuto della trasformazione del rapporto a tempo pieno”, 271)
- Deve considerarsi illegittimo, con conseguente applicazione dell’art. 18, comma 4, della l. n. 300/1970, il licenziamento intimato per un fatto previsto dal contratto collettivo tra le infrazioni punibili con una sanzione conservativa. (Trib. Bologna 15/10/2012 Giud. Marchesini, in Riv. It. Dir. lav. 2012, in con nota di Maria Teresa Carinci, “Il licenziamento non sorretto da giusta causa e giustificato motivo soggettivo: i presupposti applicativi delle tutele previste dall’art. 18 St. Lav. alla luce dei vincoli imposti dal sistema”, e di Raffaele De Luca Tamajo, “Il licenziamento disciplinare nel nuovo art. 18: una chiave di lettura”, e Roberto Romei, “La prima ordinanza sul nuovo art. 18 della legge n. 300/1970: tanto rumore per nulla?”, 1049)
- Il licenziamento è un negozio unilaterale recettizio che è diretto a determinare la cessazione del rapporto di lavoro ed è assoggettato alla norma dell’art. 1334 c.c., sicché produce effetto nel momento in cui il lavoratore riceve l’intimazione da parte del datore di lavoro, con la conseguenza che la verifica e le condizioni che legittimano l’esercizio del potere di recesso deve essere compiuta con riferimento al momento in cui detto negozio unilaterale si è perfezionato. (Cass. 10/9/2012 n. 15102, Pres. Roselli Est. Tria, in Lav. nella giur. 2012, 1219)
- Se il licenziamento non può avvenire per fatti diversi da quelli contestati, a maggior ragione quando essi sono posti a giustificazione del recesso, la valutazione della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento non può avvenire su fatti diversi da essi, anche se quei fatti siano emersi nel corso del giudizio e presentino degli aspetti comuni con quelli contestati. (Cass. 12/7/2012 n. 11775, Pres. Miani Canevari Rel. Filabozzi, in Lav. nella giur. 2012, 1111)
- Il recesso intimato al lavoratore accusato di aver intascato il prezzo di merci di proprietà del datore di lavoro, cedute a clienti senza emettere regolare ricevuta fiscale, comporta che sia fornita la piena prova dei fatti contestati, in difetto di che il licenziamento deve essere annullato. (Cass. 18/4/2011 n. 8832, Pres. Vidiri Rel. Amoroso, in Lav. nella giur. 2011, 740)
- Ove il lavoratore deduca il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale, è necessario che tale intento abbia avuto un’efficacia determinativa ed esclusiva del licenziamento anche rispetto agli altri eventuali fatti idonei a configurare un’ipotesi di legittima risoluzione del rapporto, dovendosi escludere la possibilità di procedere a un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili a una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altre inadempienze. (Cass. 9/3/2011 n. 5555, Pres. Roselli Est. Morcavallo, in Orient. Giur. Lav. 2011, 157)
- Il licenziamento che, per quanto formalmente intimato per giustificato motivo oggettivo, risulti essere stato adottato per ragioni di carattere ritorsivo, la cui prova può anche essere desunta da una valutazione presuntiva fondata su indizi gravi, precisi e concordanti, deve essere dichiarato nullo, in quanto sorretto da un motivo illecito determinante, con conseguente applicazione del regime della tutela reale, a prescindere dal requisito dimensionale della società datrice di lavoro e anche in favore dei dirigenti. (Cass. 1/12/2010 n. 24347, Pres. Vidiri Est. Ianniello, in D&L 2010, 1141, con nota di Andrea Bordone, “Il licenziamento ritorsivo: prova presuntiva e tutela reale”, 1141)
- L’art. 7, 11° comma, L. 6/8/08 n. 133, come modificato dalla L. 4/3/09 n. 15 e successivamente dalla L. 3/8/09 n. 102 deve essere interpretato nel senso che non consente il licenziamento ad nutum e generalizzato di tutti i dipendenti pubblici che abbiano raggiunto l’anzianità contributiva di 40 anni, ma attribuisce alle pubbliche amministrazioni la facoltà di risolvere il rapporto in relazione a specifiche e concrete esigenze della singola amministrazione; diversamente interpretata, la norma si porrebbe in contrasto con la Direttiva 2000/78 e il D.Lgs. 9/7/03 n. 216, in forza dei quali le differenze di trattamento in ragione dell’età devono essere giustificate non solo da una finalità legittima, ma anche dall’utilizzo di un mezzo adeguato, la cui proporzionalità con il fine perseguito deve essere verificata con riferimento al caso concreto (nella specie è stato ritenuto illegittimo il licenziamento di tutti i dipendenti aventi il predetto requisito contributivo motivato dalla generica volontà di “assicurare la piena evoluzione dei modelli organizzativi e l’ottimale utilizzo delle tecnologie di supporto al rafforzamento della gestione del sistema fiscale che renderebbero necessario il più ampio e rapido ricambio generazionale”). (Trib. Milano 10/5/2010, Est. Di Leo, in D&L 2010, con nota di Alberto Guariso, “Il convergente attacco di diritto comunitario e diritto costituzionale alla ‘legge Brunetta’”, 612)
- L’ingiustificatezza del recesso datoriale può evincersi da un’incompleta o inveritiera comunicazione dei motivi di licenziamento ovvero da un’infondata contestazione degli addebiti o, ancora, dalla pretestuosità o insussistenza dei motivi addotti, potendo tali condotte rendere almeno più disagevole la verifica che il recesso sia eziologicamente riconducibile a condotte disciminatorie, ovvero prive di adeguatezza sociale. (Cass. 22/3/2010 n. 684, Pres. Roselli Est. Morcavallo, in D&L 2010, con nota di Vania Scalambrieri, “Il risarcimento del danno biologico per illegittimo licenziamento presuppone la prova dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave in capo al datore di lavoro”, 582)
- L’illegittimo collocamento a riposo è equiparato al licenziamento illegittimo con conseguente applicazione della tutela prevista dall’art. 18 SL. (Trib. Milano 19/1/2010, est. Perillo, in D&L 2010, con nota di Sonia Elena Boatti, “Il diritto insindacabile della lavoratrice a non essere collocata a riposo prima dei colleghi uomini”, 619)
- Una normativa nazionale che, ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento, non prende in considerazione i periodi di lavoro compiuti dal dipendente prima di aver raggiunto il venticinquesimo anno d’età, incide sulle condizioni di licenziamento dei dipendenti e rientra dunque nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78/Ce, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. C). (Corte di Giustizia CE 19/1/2010, causa C-555/07, Pres. Skouris Rel. Lindh, in D&L 2009, con nota di Silvia Borelli, “La Corte di Giustizia (ancora) alle prese con discriminazioni in ragione di età”, 932)
- A seguito dell’estensione dell’applicabilità della disciplina di cui alla l. 15 luglio 1966, n. 604, e all’art. 18, l. 20 maggio 1970, n. 300, al personale marittimo navigante delle imprese di navigazione, disposta dalla Corte Costituzionale con sentenza 3 aprile 1987, n. 96, ai fini dell’applicabilità di tale normativa limitativa del potere di licenziamento, relativamente al suddetto personale, è sufficiente che tra le parti sussista un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in base alla loro volontà o per effetto della normativa del codice della navigazione e della contrattazione collettiva che prevalgano sulla volontà delle parti, mentre non è necessaria la concorrenza dei presupposti particolari dell’istituto, previsto dai contratti collettivi, della c.d. continuità del rapporto di lavoro. (Cass. 27/10/2009 n. 22649, Pres. Sciarelli Rel. Monaci, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di M. M. Mutarelli, “L’applicazione dell’art. 18 St. Lav. al licenziamento illegittimo del lavoratore marittimo”, 784)
- Con la decisione in esame, la Corte di Cassazione ribadisce il principio in base al quale la carcerazione del dipendente, che derivi da fatti estranei al rapporto di lavoro, non può dar luogo a un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, ma eventualmente soltanto a una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione che è possibile fa rientrare nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604/1966, in relazione alle specifiche esigenze dell’impresa, da valutarsi peraltro caso per caso. (Cass. 1/6/2009 n. 12721, Pres. De Luca Est. Cuoco, in Lav. nella giur. 2009, con commento di Gianluigi Girardi, 903)
- Con riferimento al riparto dell’onere probatorio nell’azione di accertamento dell’invalidità del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, che fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e, sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della L. n. 300 del 1970, costituiscono, insieme alla giusta causa o al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi del diritto soggettivo del lavoratore all’applicazione della tutela reale e devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro. (Trib. Bologna 30/4/2009, Giud. Pugliese, in Lav. nella giur. 2009, 963)
- In base al principio di immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo di licenziamento, la giustificazione del datore di lavoro non può fondarsi su fatti diversi da quelli addotti nella motivazione del licenziamento stesso quale enunciata all’atto della sua intimazione. Tale regola, invero, ha carattere generale e opera come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore, il quale vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata e la validità dell’atto di recesso. (Trib. Milano 24/3/2009, Est. Bianchini, in Orient. Giur. Lav. 2009, 168)
- La prova gravante sul lavorator, che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto, riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo (cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro, ovvero, più correttamente sotto il profilo terminologico-giuridico, mancata accettazione, da parte del datore di lavoro, della prestazione lavorativa messagli a disposizione dal lavoratore). D’altro canto, allorquando il datore di lavoro non abbia comprovato la circostanza delle dimissioni del lavoratore, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta ex lege a pena di nullità) resta carico del datore di lavoro; ciò, in quanto, alla luce della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro, avente valore di una eccezione, ricade sull’eccipiente, datore di lavoro ex art. 2697 c.c. (Trib. Bari 10/3/2009, Giud. Spagnoletti, in Lav. nella giur. 2009, 638)
- Posto che il licenziamento illegittimo, nel regime di tutela reale, non è idoneo a estinguere il rapporto di lavoro, determinando unicamente una sospensione della prestazione dedotta in contratto, è ben ammissibile che il datore di lavoro proceda validamente a un nuovo licenziamento, fondato su ragioni diverse, nelle more dell’accertamento della legittimità del primo. (Cass. 22/10/2008 n. 25573, Pres. Cuoco Est. Nobile, in Riv. it. dir. lav. 2009, con nota di Oronzo Mazzotta, “La ‘parola’ del legislatore e il sistema della legge: a proposito del potere del datore di rilicenziare un lavoratore già licenziato”, 313)
- Nei rapporti di lavoro sottratti al regime della tutela reale, il licenziamento, affetto da uno dei vizi formali di cui all’art. 2 della L. n. 604/66 non produce effetti sulla continuità del rapporto e che, in ragione della natura sinallagmatica di quest’ultimo, il lavoratore ha diritto alla corresponsione di tutte le retribuzioni perdute per effetto del licenziamento, non trovando applicazione i limiti minimi e massimi di indennizzo posti dall’art. 8 della medesima legge n. 604/1966 che disciplina le ipotesi di licenziamento privo di giustificazioni. (Trib. Milano 24/9/2008, d.ssa Preagallo, in Lav. nella giur. 2009, 204)
- Il motivo illecito (ritorsivo e discriminatorio), quale unico motivo del negozio unilaterale estintivo del rapporto di lavoro, come tale nullo, non può che essere provato per presunzioni. (Trib. Milano 21/8/2008, Est. Atanasio, in Orient. giur. lav. 2008, 751)
- L’accertamento della natura ritorsiva del licenziamento non può che avvenire attraverso presunzioni. Qualora il lavoratore provi una serie di fatti, quali la richiesta di rilascio di dimissioni in bianco da parte del datore di lavoro dietro minaccia di licenziamento, la dequalificazione del lavoratore e infine il suo licenziamento, temporalmente e funzionalmente posti in sequenza tra loro senza soluzione di continuità, questo è idoneo a dimostrare che l’intento ritorsivo sia stato l’unico motivo di risoluzione del rapporto di lavoro. (Trib. Milano 14/8/2008, Dott. Atanasio, in Lav. nella giur. 2009, 95)
- Benché la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p., che disciplina l’applicazione della pena su ruchiesta dell’imputato, non sia tecnicamente configurabile come una sentenza di condanna, anche se è a questa equiparata a determinati fini, tuttavia, nell’ipotesi in cui una disposizione di un contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna passata in giudicato, ben può il giudice di merito, nell’interpretare la volontà delle parti collettive, ritenere che gli agenti contrattuali, nell’usare l’espressione “sentenza di condanna”, si siano ispirati al comune sentire che a questa associa la sentenza c.d. “patteggiamento” ex art. 444 c.p.p., atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità, ma esonera l’accusa dell’onere della relativa prova in cambio di una riduzione di pena. Ne consegue che, ai fini della legittimità del licenziamento, non rileva che lo stesso sia stato intimato prima dell’irrevocabilità della sentenza di patteggiament. (Cass. 26/3/2008 n. 7866, Pres. De Luca Est. Mammone, in D&L 2008, con nota di Roberto Muggia, “La sentenza di patteggiamento come giusta causa di licenziamento: la conferma di un pericoloso revirement della Cassazione”, 1019)
- Il licenziamento intimato senza la previa osservanza delle garanzie procedimentali non è nullo, ma ingiustificato, nel senso che il comportamento intimato al dipendente, ma non fatto valere attraverso quel procedimento, non può, quand’anche effettivamente sussistente e rispondente alla nozione di giusta causa o giustificato motivo, essere addotto dal datore di lavoro, per sottrarsi alla tutela apprestata all’ordinamento per le diverse situazioni. (Trib. Milano 29/2/2008, D.ssa Beccarini, in Lav. nella giur. 2008, 1064)
- E’ nullo, per frode alla legge, il contratto di affitto di azienda finalizzato e idoneo a produrre l’effetto dell’elusione della tutela reale in materia di licenziamento. (Cass. 7/2/2008 n. 2874, Pres. Mattone Est. Nobile, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Vitale, “Appunti sulla fraus legi nei processi di esternalizzazione”, 641)
- Non sussistono le condizioni di cui all’art. 4 L 11/5/90 n. 108 per escludere l’applicabilità dell’art. 18 SL nel caso di licenziamento comminato da un istituto di patronato e assistenza sociale, in quanto lo stesso non svolge compiti di natura politica e sindacale. (Cass. 20/11/2007 n. 24043, Pres. Sciarelli Est. Di Nubila, in D&L 2008, con nota di Alba Civitelli, “Gli istituti di patronato e assistenza sociale non sono organizzazioni di tendenza”, 294)
- Nell’ipotesi di controversia in ordine al quomodo della risoluzione del rapporto (licenziamento orale o dimissioni) si impone una indagine accurata da parte del giudice di merito, che tenga adeguato conto del complesso delle risultanze istruttorie, in relazione anche all’esigenza di rispettare non solo il primo comma dell’art. 2697 c.c., relativo alla prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere dall’attore, ma anche il secondo comma, che pone a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dalla controparte. Sicché, in mancanza di prova delle dimissioni, l’onere della prova concernente il requisito della forma scritta del licenziamento (prescritta ex lege a pena di nullità) resta a carico del datore di lavoro, in quanto nel quadro della normativa limitativa dei licenziamenti, la prova gravante sul lavoratore riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo, mentre la prova sulla controdeduzione del datore di lavoro – avente valore di una eccezione – ricade sull’eccipiente – datore di lavoro ex art. 2697 c.c. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in sede di rinvio, aveva applicato un principio di diritto contrario a quello enunciato dalla sentenza rescindente – secondo la quale la c.d. “estromissione” del lavoratore dal posto di lavoro invertiva l’onere probatorio, ponendo a carico del datore la prova di un fatto estintivo del rapporto diverso dal licenziamento – giacché si era impegnata a dimostrare che la pur controversa estromissione del lavoratore dal posto di lavoro non configurasse un licenziamento orale, addossando ancora una volta sullo stesso lavoratore l’onere di provare l’estinzione del rapporto lavorativo). (Cass. 27/8/2007 n. 18087, Pres. Mattone Est. Maiorano, in Lav. nella giur. 2008, 189)
- La consegna del libretto di lavoro con l’indicazione della data di cessazione del rapporto integra il requisito della forma scritta prevista per il licenziamento dall’art. 2 della l. n. 604/1966. (Cass. 13/8/2007 n. 17652, Pres. Ianniruberto Est. Balletti, in Riv. it. dir. lav. 2008, con nota di Madia D’Onghia, “La forma del licenziamento: brevi riflessioni sulla rilevanza di forme sostitutive della usuale dichiarazione scritta”, 172)
- La genericità della motivazione addotta nella lettera di licenziamento non è suscettibile di integrazione nel corso del giudizio e può di per sè comportare l’illegittimità del recesso. (Trib. Milano 15/12/2006, Est. Vitali, in D&L 2007, con nota di Matteo Paulli, “Sull’obbligo di motivazione”, 233)
- Non può essere consentita all’autonomia privata, individuale o collettiva, di introdurre ipotesi estintive del rapporto di lavoro a tempo indeterminato diverse da quelle tassativamente fissate dal legislatore di cui alla L. n. 604/1966 e alla L. n. 300/1970; deve, pertanto, essere considerata nulla, ai sensi dell’art. 1418 c.c., ogni diversa clausola contrattuale che preveda la risoluzione automatica del rapporto di lavoro per raggiungimento della massima anzianità contributiva con conseguente diritto al risarcimento del danno non per licenziamento illegittimo, ma per nullità dell’atto interattivo del rapporto e, dunque, a titolo di responsabilità contrattuale ai sensi degli artt. 1218, 1223 e 1224 c.c. (Cass. 18/10/2006 n. 22342, Pres. Mattone Rel. Roselli, in Lav. nella giur. 2007. con commento di Giuseppe Abbracciavento, 603)
- E’ illegittimo il licenziamento del lavoratore rappresentante dei lavoratori per la sicurezza motivato dal suo rifiuto di ricoprire anche l’incarico di responsabile del servizio di prevenzione e protezione. (Cass. 15/9/2006 n. 19965, Pres. Sciarelli Est. Celentano, in Riv. it. dir. lav. 2007, con nota di Valentina Pasquarella, “Incompatibilità degli incarichi di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e di responsabile del servizio di prevenzione e protezione”, 676)
- Nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio inadempimento con l’inadempimento dell’altra, occorre procedere alla valutazione comparativa del comportamento dei contraenti non soltanto in riferimento all’elemento cronologico delle rispettive inadempienze, ma anche in relazione ai rapporti di causalità e di proporzionalità di tali inadempienze rispetto alla funzione economico-sociale del contratto al fine di stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell’altra di eseguire la prestazione dovuta, tenendo presente che va, in primo luogo, accertata la sussistenza della gravità dell’inadempimento cronologicamente anteriore, perché quando questo non è grave, il rifiuto dell’altra parte di adempiere non è di buona fede e, quindi, non è giustificato (v. pronunce di questa Corte n. 4743/1998 ; n. 10668/1999; n. 699/2000; n. 8880/2000 ecc.). Va inoltre aggiunto che il requisito della buona fede previsto dall’art. 1460 c.c. per la proposizione dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum sussiste quando, nella comparazione tra inadempimento cronologicamente anteriore e prestazione corrispettiva rifiutata, il rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l’art. 1175 c.c. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite (v. pronuncia di questa Corte n. 4743/1998). In particolare con riferimento al contratto di lavoro l’ipotesi del sopravvenuto venir meno in modo totale o parziale della prestazione tale da giustificare il licenziamento ex art. 18 della legge n. 300/1970 per giusta causa o per giustificato motivo ai sensi dell’art. 3 legge n. 604/1996 non è ravvisabile se il mancato o non completo adempimento del lavoratore trova giustificazione nella mancata adozione da parte del datore di lavoro delle misure si sicurezza che, pur in mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell’integrità fisica e psichica del prestatore di lavoro e se quest’ultimo prima dell’inadempimento secondo gli obblighi di correttezza informa il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare a tutela dell’integrità fisica e psichica del lavoratore, sempre che tale necessità sia evidente o, comunque, accertabile o accertata. (Cass. 7/11/2005 n. 21479, Pres. Mileo Rel. Capitanio, in Lav. e prev. oggi 2005, 1816 e in Lav. nella giur. 2006, 1193)
- Sussiste il requisito del periculum in mora in caso di licenziamento laddove la perdita del posto di lavoro e la conseguente perdita della retribuzione implichino un pregiudizio economico grave, impedendo al lavoratore di condurre un’esistenza libera e dignitosa fino all’esito del processo, e una lesione di diritti personali costituzionalmente garantiti. (Trib. Milano 28/5/2005, ord., Est. Ravazzoni, in Orient. Giur. Lav. 2005, 1001)
- Il licenziamento intimato, nell’ambito della tutela reale, per giusta causa o per giustificato motivo è efficace finchè non intervenga sentenza di annullamento ex art. 18, L. n. 300/1970; ne consegue che un secondo licenziamento, intimato prima dell’annullamento, è privo di oggetto, attesa l’insussistenza del rapporto di lavoro. (Cass. 18/5/2005 n. 10394, Pres. Ravagnani Rel. Di Cerbo, in Lav. nella giur. 2006, 93)
- Nel caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, ed in particolare dell’elemento fiduciario; la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto, fermo restando che, nell’ipotesi di dipendenti di istituti di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario -rapporto che è più intenso nel settore bancario- deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro. Il relativo accertamento costituisce apprezzamento di fatto, come tale riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto sorretto da giusta causa il licenziamento intimato da un istituto di credito ad un suo dipendente, responsabile dell’ufficio crediti speciali, per il mancato controllo delle pratiche delle filiali -controllo a lui demandato insieme al coordinamento dell’attività- ritenendo non rilevanti disfunzioni successive addebitabili ad altre strutture). (Cass. 27/1/2004 n. 1475, Pres. Sciarelli Rel. Curcuruto, in Dir. e prat. lav. 2004, 1506)
- Qualora il regolamento di un piano di stock options preveda che, nell’ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, le opzioni concesse al dirigente interessato diventino inefficaci e si estinguano alla data di interruzione del rapporto di lavoro con la conseguenza che da tale data non possono più essere esercitate, deve ritenersi illegittima la pretesa del dirigente licenziato in modo giustificato di esercitare le predette opzioni. (Trib. Milano 1/4/2003, Est. Peragallo, in D&L 2003, 767)
- La sussistenza del motivo sindacale del licenziamento va provata sia pure attraverso presunzioni e, in particolare, va provato che il licenziamento sia stato determinato in via esclusiva da motivi di ritorsione. (Trib. Grosseto 19/3/2003, Est. Ottati, in Lav. nella giur. 2003, 690)
- Il giudizio di impugnazione del licenziamento assistito dalla tutela reale del rapporto ex art. 18 St. lav. ha per oggetto il rapporto di lavoro, poiché presupposto logico necessario della decisione è l’accertamento della permanenza del rapporto stesso al momento della decisione. E’pertanto onere del datore di lavoro eccepire l’irrogazione di un secondo licenziamento, quale fatto che osta alla reintegra ed all'(ulteriore) risarcimento del danno richiesto dal lavoratore. In sede di esecuzione della sentenza di reintegra e risarcimento del danno, il datore di lavoro può quindi opporre un nuovo licenziamento soltanto ove esso sia successivo alla formazione del titolo esecutivo giudiziale, e tale non è un secondo atto di licenziamento, la cui efficacia sia condizionata sospensivamente all’accertamento giudiziale di illegittimità del primo, cioè alla formazione del titolo esecutivo (Trib. Firenze, 4/3/2003, Giud. Paparo, in Riv. it. dir. lav. 2003, 600, con nota di Dino Buoncristiani, Tecnica procedimentale di formazione del licenziamento e tecnica impugnatoria: reiterazione del licenziamento, sottoposizione a condizione sospensiva e oggetto del giudicato)
- Il datore di lavoro non ha l’onere di consegna materiale dell’intimazione di recesso e dei relativi motivi nelle mani del lavoratore, essendo tenuto, a norma dell’art. 1335 c.c., a comunicare il licenziamento all’indirizzo del medesimo lavoratore. Per “indirizzo del destinatario”, a norma del predetto art. 1335 c.c. si deve intendere il luogo più idoneo per la recezione, che, in base ad un criterio di collegamento ordinario (dimora o domicilio), o di normale frequenza (il luogo di esplicazione di un’attività lavorativa), o per preventiva comunicazione dell’interessato, risulti in concreto nella sfera di dominio o controllo del destinatario (nella specie, l’indirizzo fornito dal lavoratore-il domicilio della sorella-è quello che meglio assicura, ai fini della reperibilità, l’immediata conoscenza, da parte del lavoratore medesimo, delle comunicazioni del datore di lavoro) (Cass. 23/12/2002, n. 18272, Pres. Ciciretti, Est. De Matteis, in Riv. it. dir. lav. 2003, 616, con nota di Andrea Sitzia, Sulla comunicazione della lettera di licenziamento presso l’indirizzo fornito dal lavoratore al datore di lavoro per la reperibilità)
- Nell’ambito della tutela obbligatoria, l’inefficacia del licenziamento determina l’applicabilità non dell’art. 8 L. 15/7/66 n. 604, ma delle sanzioni di diritto comune con conseguente ripristino del rapporto e risarcimento del danno da liquidarsi facendo riferimento alle retribuzioni mancate dal momento del recesso fino al ripristino del rapporto, ovvero alla valida risoluzione dello stesso. (Trib. Parma 16/12/2002, Est. Brusati, in D&L 2003, 414)
- Il principio in forza del quale il rapporto di lavoro subordinato è un vincolo giuridico caratterizzato da tendenziale stabilità, investendo uno dei fondamenti dello stato e la dignità della persona, coinvolgendo un ampio quadro normativo ed essendo parte essenziale dell’assetto dell’ordinamento, rientra nello spazio dell’ordine pubblico: pertanto, è incompatibile con l’ordine pubblico italiano una legge che, in linea generale, non preveda alcuna tutela contro il licenziamento ingiustificato (Cass. 11/11/2002, n. 15822, Pres. Senese, Est. Cuoco, in Riv. it. dir. lav. 2003, 663, con nota di Carlo Fossati, La stabilità del rapporto di lavoro, ma non la regola della reintegrazione automatica, costituisce espressione dell’ordine pubblico internazionale)
- Le limitazioni dei poteri di rappresentanza degli amministratori delle società di capitali non hanno in alcun caso effetti nei confronti di terzi, ma rilevano esclusivamente, come fonte di responsabilità, nell’ambito dei rapporti interni; pertanto una eventuale carenza del potere di licenziamento in capo all’amministratore di società, essendo la materia dei licenziamenti attribuita all’assemblea dei soci, non inficia la validità del licenziamento da questi direttamente irrogato al lavoratore. (Cass. 18/6/2002, n. 8853, Pres. Mileo, Est. Di Lella, in Riv. it. dir. lav. 2003, 91, con nota di Sndro Mainardi, Vecchie e nuove questioni in materia di procedimento disciplinare, titolarità del potere e termini a difesa).
- La nullità del licenziamento per motivo illecito si fonda su di una interpretazione estensiva della previsione di nullità per licenziamento discriminatorio, sancita dall’art. 4, l. 604/1966 e successivamente estesa dall’art. 15, l. 300/1970 e dall’art. 3, l. 108/1990, con la conseguente applicazione delle garanzie di tutela reale anche a licenziamenti che siano determinati in maniera esclusiva da motivo illecito, di ritorsione o rappresaglia, costituendo essi l’arbitraria reazione datoriale a fronte di un comportamento legittimo posto in essere dal lavoratore o di rivendicazioni legittime avanzate dallo stesso. Ciò in quanto il licenziamento viziato da motivo illecito appare suscettibile di essere ricondotto alla generale previsione codicistica dell’atto unilaterale nullo, a norma dell’art. 1345 c.c. (Tribunale di Agrigento 11/6/2002, Pres. D’Angelo, Est. Occhipinti, in Riv. it. dir. lav.2003, 108, con nota di Valentina Pasquarella, Autotutela del lavoratore e licenziamento ritorsivo).
- La nullità di una clausola (del contratto collettivo) di risoluzione automatica del rapporto comporta che, non essendo ravvisabile un licenziamento nella comunicazione datoriale di cessazione del contratto, il rapporto continui sotto il profilo giuridico, essendo stato interrotto solo sul piano fattuale. In una situazione del genere, tuttavia, non si può ritenere che il rapporto continui immutato con le reciproche obbligazioni per un tempo indefinito, non potendo non acquistare rilevanza giuridica il comportamento tenuto dalle parti successivamente a quella vicenda che le stesse abbiano, comunque, ritenuta risolutiva del rapporto. (Trib. Milano 4/6/2002, est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 384)
- Nel caso in cui il lavoratore non provi il licenziamento verbale dedotto in giudizio e, contestualmente, il datore di lavoro non provi le asserite dimissioni del primo, il rapporto tra le parti, in difetto di prova di di un valido atto risolutivo, deve essere considerato ancora esistente con conseguente diritto del lavoratore alla riammissione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni dovute. (Trib. Firenze 8/2/2002, Est. Nuvoli, in D&L 2002, 980)
- In tema di licenziamento per giusta causa, i dati forniti da un sistema computerizzato di rilevazione e documentazione possono costituire, ai sensi dell’art. 2712 c.c., e dell’art. 5, comma 2, D.P.R. 10/11/97, n. 513, prova del fatto contestato, ove sia accertata la funzionalità del sistema informatico e le risultanze di esso possano assurgere a prova presuntiva congiuntamente a circostanze esterne ad esso, altrimenti provate (Cass. 6/9/01, n. 11445, pres. Trezza, est. De Matteis, in Lavoro e prev. Ogg 2001, pag. 1629)
- L’estinzione del rapporto di lavoro determinata da una clausola nulla di risoluzione automatica prevista dal contratto collettivo, con corrispondente lettera di avviso dell’impresa in prossimità della scadenza, non integra l’ipotesi di un licenziamento illegittimo; quindi avverso detta comunicazione non è prescritta alcuna impugnazione, derivandone inoltre l’inapplicabilità dell’art. 18 Stat. lav. (Cass. 19/10/00, n. 13851, pres. Mercurio, est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2001, pag. 551, con nota di Gianino, La nuova via in tema di clausola risolutiva automatica nulla)
- Nel nostro ordinamento giuridico è principio fondamentale e costituzionalmente riconosciuto la libertà d’impresa. Questa deve essere intesa non solo nel senso che qualsiasi cittadino è libero di intraprendere le iniziative economiche che ritiene più opportune, ma anche nel senso che ogni cittadino ha diritto di smettere o di ridurre le attività imprenditoriali da lui iniziate. I motivi della cessazione o della riduzione dipendono in genere dal cattivo andamento economico dell’impresa. Tuttavia, la riduzione o la cessazione dell’attività produttiva può avvenire per i più diversi motivi, come la scarsa fiducia dell’imprenditore nello sviluppo del settore, il cattivo stato delle proprie condizioni di salute o, addirittura, semplicemente il desiderio di godersi un meritato riposo. Il potere di cessazione o di riduzione dell’attività imprenditoriale rientra in sostanza nella libera scelta dell’imprenditore e il giudice non può sindacare i motivi della decisione (Cass. 18/8/00 n. 10966, pres. Giannantonio, in Orient. giur. lav.2000, pag. 739)