Questa voce è stata curata da Simone Varva
Nozione
Con la formula intermediazione fra domanda e offerta di lavoro si fa di norma riferimento ad un servizio (fornito da un ente pubblico o privato) offerto agli operatori del mercato del lavoro e finalizzato a favorire l’incontro tra domanda (costituita dai lavoratori) e offerta (costituita dai datori di lavoro).
In sostanza, il tema della mediazione si connette strettamente a quello del collocamento della manodopera.
In epoca moderna e sino agli anni più recenti, i servizi di mediazione offerti sul mercato del lavoro italiano sono stati caratterizzati dalla natura pubblica (in regime di monopolio) e dalla gratuità, specialmente in favore dei prestatori di lavoro subordinato.
Ciò in ragione del comune sentire sociale circa la spregevolezza morale delle realtà in cui erano presenti soggetti che lucravano sul servizio fornitura di manodopera a favore di chi ne abbisognava (basti rammentare le sinistre figure del “caporale” nel settore agricolo e del “capo-cottimo” in quello edile).
Sebbene la regola della gratuità a tutt’oggi resista (ma, si badi, solo a favore del lavoratore subordinato), negli anni più recenti si è assistito al superamento del monopolio del collocamento pubblico e a una progressiva apertura dei servizi di mediazione a soggetti privati qualificati.
Con il termine interposizione si suole invece indicare l’attività di “mera fornitura di manodopera”: in altre parole viene indicato quel fenomeno per il quale un imprenditore utilizza lavoratori reclutati da un altro soggetto che ne è formalmente il datore di lavoro e dal quale ricevono dunque il compenso.
La peculiarità della fattispecie è da ricercarsi nella separazione tra datore di lavoro e utilizzatore della prestazione o, in un’altra prospettiva, nella distinzione tra datore di lavoro formale e datore di lavoro sostanziale.
In sintesi perciò l’intermediazione è strettamente connessa al tema del collocamento della manodopera sul mercato del lavoro, mentre l’interposizione si lega al tema del rapporto tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzo della prestazione dedotta in contratto: da una parte vi è la figura del mediatore, il quale favorisce l’incontro tra chi offre lavoro e la manodopera; dall’altra vi è l’interpositore, ovvero colui che, dietro compenso, “presta” propri lavoratori ad un soggetto che si avvantaggia direttamente della prestazione lavorativa resa.
Nonostante tale distinzione sul piano formale, le problematiche della mediazione e della interposizione vengono concretamente a sovrapporsi parzialmente e sono state storicamente affrontate in modo coordinato. Tanto che, fino agli anni più recenti, il divieto di mediazione privata – “è vietato l’esercizio della mediazione (privata, ndr) anche se gratuito”, art. 11, L. 264/1949 – si accompagnava al divieto di interposizione (“è vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di mano d’opera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario”, art. 1, L. 1369/1960).
Negli ultimi quindici anni, tuttavia, è stato superato il regime di monopolio pubblico e obbligatorio in favore di un sistema di mediazione e collocamento misto (pubblico-privato) e meramente facoltativo, dove (nelle intenzioni del legislatore) le agenzie private autorizzate sono contemporaneamente, in quanto concorrenti, di stimolo all’aumento dell’efficienza del collocamento pubblico e, in quanto vincolati a principi di trasparenza, di ausilio nella costituzione di una rete informatica nazionale e unitaria di collocamento aggiornata in tempo reale.
Fonti normative
- Legge 29 aprile 1949, n. 264
- Legge 23 ottobre 1960, n. 1369
- Legge 23 luglio 1991 n. 223
- Legge 28 novembre 1996, n. 608
- Decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469
- Legge 12 marzo 1999, n. 68
- Decreto legislativo 21 aprile 2000 n. 181
- Carta dei Diritti fondamentali UE, 18 dicembre 2000, art. 29
- Legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3
- Decreto legislativo 19 dicembre 2002 n. 297
- Legge 14 febbraio 2003, n. 30
- Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276
- Legge 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1 , c. 1180
- Legge 24 dicembre 2007, n. 247, art.1, c.46
- Legge 28 giugno 2012, n. 92
- Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 150
- Convenzione OIL 88/1948
- Convenzione OIL 96/1949
- Convenzione OIL 181/1997
L’evoluzione storica: la fase del monopolio pubblico
Da un punto di vista economico, il mercato del lavoro è tecnicamente assimilabile a qualsiasi altro mercato dei beni retto dai principi della domanda e dell’offerta.
Tuttavia, sotto l’aspetto giuslavoristico, esso è invece caratterizzato dall’implicazione della persona nella sua interezza; quest’ultimo fondamentale assunto è chiaramente sintetizzato nella Dichiarazione di Filadelfia del ’44 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro secondo cui “il lavoro non è una merce”.
Nella prima fase della rivoluzione industriale, le legislazioni nazionali si astennero dall’intervenire nel mercato del lavoro in ossequio al fondamentale principio liberista del laissez faire. Solo con la progressiva sensibilizzazione verso le condizioni socio-economiche dei lavoratori i poteri pubblici emanarono le prime disposizioni per tutelare i lavoratori nella fase del collocamento.
In Italia i primi provvedimenti generali vennero promulgati nel corso del ventennio fascista. La tutela del collocamento del lavoro subordinato si realizzò attraverso l’affidamento della mediazione tra domanda ed offerta ai sindacati fascisti (enti di diritto pubblico).
Venne realizzato così, per la prima volta nel nostro paese, il c.d. monopolio pubblico dell’attività di mediazione, consistente nell’attribuire alle sole istituzioni pubbliche il compito (necessario) di inserirsi nel mercato del lavoro a titolo di mediatori tra la domanda e l’offerta. L’obiettivo fu quello di ripartire equamente le occasioni (scarse) di lavoro e di evitare gli abusi della mediazione privata.
Terminata la seconda guerra mondiale e caduto il regime fascista, il nuovo ordinamento repubblicano conservò in parte i principi corporativi in tema di collocamento.
Con la legge 264/1949 vennero recepiti i seguenti principi:
- monopolio pubblico del collocamento, affidato agli uffici provinciali del lavoro, articolazioni periferiche del ministero del lavoro;
- divieto di mediazione privata, sanzionata penalmente;
- obbligo d’iscrizione per i cittadini in cerca di occupazione alle c.d. liste di collocamento, utilizzate dagli uffici competenti per la compilazione delle graduatorie;
- avviamento al lavoro attraverso richiesta numerica.
Il principio della richiesta numerica vietava al datore di lavoro di “scegliersi” liberamente il dipendente da assumere: l’imprenditore era infatti tenuto a richiedere all’ufficio del lavoro competente il numero di lavoratori di cui necessitava; l’ufficio, a sua volta, provvedeva ad avviare i lavoratori idonei secondo i requisiti professionali indicati dal richiedente, attingendo dalle graduatorie precedentemente stilate.
Il disegno generale di estromissione degli operatori privati dal mercato del lavoro venne ulteriormente rafforzato attraverso la legge 1369/1960 la quale vietò la somministrazione di mere prestazioni di lavoro.
Un ulteriore irrigidimento della legge 264 avvenne ad opera dell’art. 34 legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori) il quale ridusse ulteriormente le già residuali eccezioni al divieto di avviamento numerico.
Liberalizzazione del mercato del lavoro
Il sistema di monopolio pubblico rivelò nel corso dei decenni grandi limiti intrinseci, legati alle croniche inefficienze del sistema dei servizi pubblici per l’impiego ed alle eccessive rigidità della disciplina.
I principi alla base del sistema vennero progressivamente annacquati attraverso correzioni legislative di segno de regolatorio.
Uno dei momenti fondamentali fu rappresentato dall’entrata in vigore della legge 223/1991, con la quale, tra le altre cose, venne liberalizzato il sistema della richiesta nominativa (art. 25, rubricato “riforma delle procedure di avviamento al lavoro”).
Con la legge 28 novembre 1996, n. 608, anche l’obbligo di richiesta del nulla osta preventivo all’ufficio di collocamento, condizione preliminare alla stipulazione del contratto di lavoro, venne sostituito dal più blando obbligo di comunicazione, secondo il D.Lgs. 297/2002 contestualmente all’assunzione.
Il medesimo D.Lgs. 297/2002 aggiunse un articolo (4-bis) al d.lgs.181/2000, introducendo nel nostro ordinamento il principio dell’assunzione diretta, vale a dire la possibilità riconosciuta ai lavoratori ed ai datori di lavoro d’incontrarsi e di stipulare il contratto di lavoro direttamente sul mercato, senza la necessaria mediazione del soggetto pubblico.
Caduto il rigido sistema di mediazione pubblica, il passo successivo è stato quello della (ri)apertura del mercato ai privati. La legge 469/1997 ha infatti riformato il collocamento in ambo i sensi: da una parte, è stato formalmente soppresso il sistema del collocamento pubblico obbligatorio; dall’altra, cono stati formalmente legittimati a esercitare l’attività di mediazione gli operatori privati.
Un’altra fondamentale riforma della legge 469/1997 è stata quella di attribuire alle regioni ampie competenze in relazione al collocamento ed ai servizi per l’impiego.
Le disposizioni del D.Lgs. 469/1997, ora solo brevemente accennate, verranno analizzate in parte e ratione materiae in sede di commento del D.Lgs. 276/2003.
La Riforma del mercato del lavoro attuata dalla Legge 30/2003 e dal D.Lgs. 276/2003
Nei paragrafi che seguono si tenterà di presentare in modo analitico i contenuti e le novità introdotte dalla legge 30/2003 e dal relativo D.Lgs. 276/2003 nell’ambito del mercato del lavoro, con particolare attenzione ai profili della mediazione e dell’interposizione.
La riforma del mercato del lavoro è stata sollecitata e stimolata dalle politiche sull’occupazione elaborate in sede comunitaria e a tali politiche, esplicitamente, si informa.
La c.d. “strategia europea per l’occupazione”, si può dire prenda avvio con il vertice del Consiglio europeo di Lussemburgo nel 1997. Essa si propone di realizzare in ambito europeo “il mercato del lavoro più dinamico e concorrenziale del mondo”, rendendo la tutela del lavoro uno strumento utile ed efficiente per tale fine.
Nell’agenda europea un ruolo di primo piano è senza dubbio ricoperto dalle politiche attive del lavoro: in questo senso vengono coinvolti i servizi per l’impiego con il compito di sviluppare politiche specifiche per le pari opportunità, l’inclusione sociale, l’orientamento e la formazione professionale.
Un concetto mutuato direttamente dal diritto comunitario è quello di Workfare o welfare attivo; con questo termine si indica la tecnica di incentivazione all’occupazione legata all’erogazione di sussidi a condizione che il disoccupato si dimostri pronto ad accettare un’occupazione.
Un elemento fondamentale nella società dell’informazione è quello dell’occupabilità, ovvero della capacità di adattamento del lavoratore ai continui mutamenti di scenario del mondo del lavoro; gli strumenti irrinunciabili per aumentare l’indice di occupabilità dei lavoratore sono quelli dell’istruzione coordinata alla formazione, dei contratti formativi, della formazione continua (integrazione del processo formativo).
Passando più specificamente ai principi sottesi al titolo secondo del D.Lgs. 276/2003 è di tutta evidenza come il legislatore abbia inteso valorizzare la presenza privata sul mercato del lavoro a scapito dei servizi pubblici per l’impiego.
Il peso delle amministrazioni pubbliche è fortemente ridimensionato: ad esse spettano, principalmente, i compiti di controllo e di coordinamento tra gli operatori presenti sul mercato. Per esemplificare, uno strumento come la somministrazione di lavoro, negli ultimi anni vero volano del collocamento, viene certamente liberalizzato, ma anche offerto in regime di monopolio dagli operatori privati.
La scelta del legislatore di emanare una normativa piuttosto “centrata” sul ruolo del Ministero del lavoro crea non pochi dubbi in ordine alla compatibilità con il nuovo reparto di competenze Stato-Regioni voluto dalla riforma costituzionale.
A norma dell’art.117 novellato, infatti, le materie sono suddivise secondo tre modelli competenza: competenza esclusiva statale, competenza esclusiva regionale, competenza concorrente.
Alla luce di quest’ultimo criterio, lo Stato dovrebbe limitarsi a porre i principi fondamentali da cui il legislatore regionale (concorrente) non può prescindere.
In tema di mercato del lavoro, lo Stato ha competenza esclusiva in tema di “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”; la competenza è invece concorrente per “tutela e sicurezza del lavoro”; infine, è attribuito alla competenza esclusiva delle regioni tutto ciò che residua dalle riserve legislative statali.
La questione del riparto del potere legislativo tra Stato e regioni passa, sostanzialmente, dalle decisioni della Corte costituzionale rispetto a due problemi: cosa si intenda per “principi fondamentali” e quanto la clausola “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” possa permettere allo Stato di interferire nelle materie di attribuzione regionale.
In prima battuta vi è insomma l’impressione che il legislatore della riforma del mercato del lavoro, più che dettare i principi fondamentali ai quali i legislatori regionali devono attenersi (secondo il riparto concorrente delle competenze), abbia invaso la sfera regionale con una normativa spesso di mero dettaglio.
Organizzazione e disciplina del mercato del lavoro – Finalità
L’art. 3 del D.Lgs. 276/2003 si occupa di indicare le finalità dell’intervento; si occupa cioè di esplicitare quale sia lo “scopo” del titolo II relativo alla “organizzazione e disciplina del mercato del lavoro”; lo scopo è dunque la realizzazione di un “sistema efficace e coerente di strumenti” volti a:
- garantire trasparenza ed efficienza al mercato;
- migliorare le capacità (ovvero le potenzialità) di inserimento professionale per coloro i quali sono in cerca di lavoro (con riferimento specifico alle “fasce deboli” che, vedremo, sono identificati nei “soggetti svantaggiati”).
Si tratta di finalità alquanto late che, più che contenere principi prescrittivi per l’interprete, esplicitano le scelte di politica del diritto, mutuandole di fatto da quanto già espresso dalla legge delega all’art. 1: al più, dunque, il comma primo fornirà orientamenti ermeneutici di massima tali da impedire interpretazioni palesemente contrarie allo “spirito della legge”.
Il secondo comma da un lato indica la posizione del legislatore nazionale in relazione al rapporto Stato Regioni e dall’altra compendia i contenuti degli articoli del titolo secondo (att.4-19). In questa sede occorre brevemente occuparsi di un particolare aspetto del rapporto Stato-Regioni.
Il regime autorizzatorio e gli accreditamenti
Gli artt. 4, 5 e 6 del d.lgs. 276/2003 si occupano del regime di autorizzazione e di accreditamento delle agenzie per il lavoro.
I principi fondamentali ed innovativi rispetto al passato sono la soppressione del requisito dell’esclusività dell’oggetto sociale (previsto all’art. 2 l. 196/1997) per il lavoro e la riconduzione a una sola disciplina di autorizzazione per le diverse agenzie.
Si prevede inoltre l’istituzione, presso il Ministero del lavoro, di un unico albo per le “agenzie per il lavoro”; l’albo, a sua volta, è suddiviso in sezioni, corrispondenti ai diversi tipi di agenzia che possono chiedere l’iscrizione:
- agenzie di somministrazione
- agenzie di intermediazione
- consulenza per ricerca-selezione del personale
- consulenza alla ricollocazione professionale.
Il recente decreto legislativo n. 150 del 2015, varato dal Governo in attuazione della legge delega n. 183 del 2014 (c.d. Jobs), ha da ultimo stabilito che l’albo nazionale delle agenzie per il lavoro è gestito dall’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL), un ente che è stato istituito dallo stesso decreto n. 150/15 (v. paragrafo conclusivo della scheda).
Agenzie di somministrazione
Le agenzie di somministrazione sono quelle autorizzate a svolgere l’attività di somministrazione di lavoro a termine.
L’attività di somministrazione consiste, secondo l’art. 2 del D.Lgs. 276/2003, ne “la fornitura professionale di manodopera”; dato che tale formulazione manca di qualsiasi efficacia definitoria si può mutuare la formulazione del vecchio contratto di lavoro temporaneo ex art. 1 legge 196/1997 che si esprime in questi termini: “Il contratto di fornitura di lavoro temporaneo è il contratto mediante il quale un’impresa di fornitura (…) pone uno o più lavoratori (…), da essa assunti (…), a disposizione di un’impresa che ne utilizzi la prestazione lavorativa”.
Si tratta, cioè di un rapporto che coinvolge tre diversi soggetti:
- un’impresa “somministratrice”
- un lavoratore “somministrato”
- un’impresa “utilizzatrice”.
La peculiarità fondamentale risiede nella scissione tra la figura del datore di lavoro formale (l’agenzia di somministrazione) e quella del reale fruitore della prestazione lavorativa (l’impresa utilizzatrice).
Il contratto di somministrazione di lavoro può essere concluso a termine o a tempo indeterminato; la somministrazione a tempo indeterminato (c.d. staff leasing) , in un primo momento abolita dalla Legge 247/2007, è stata successivamente reintrodotta dalla Legge 191/2009 (finanziaria 2010).
Originariamente, lo staff leasing era ammesso solo in relazione a una serie di attività specificatamente indicate dal legislatore– tra le quali i servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, i servizi di pulizia, custodia, portineria, trasporto, la gestione di biblioteche, parchi, musei, archivi, magazzini, servizi di economato e così via(art. 20, comma 3, D.lgs. 276/2003) –, con facoltà per la contrattazione collettiva di individuare altre ipotesi nelle quali ricorrere a questo tipo di somministrazione.
La riforma del 2015 ha eliminato l’elenco tassativo di causali legittimanti la somministrazione a tempo indeterminato, procedendo così a una piena liberalizzazione dello staff leasing.
L’attuale disciplina contempla, tuttavia, una clausola di contingentamento: ai sensi del primo comma dell’art. 31 del d.lgs. 81/2015, infatti, il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione a tempo indeterminato non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto (nel caso di inizio dell’attività nel corso dell’anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento della stipula del contratto di somministrazione). La medesima norma fa salva la possibilità per la contrattazione collettiva di fissare limiti quantitativi diversi e precisa altresì che possono essere somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato. È infine esclusa la possibilità di ricorrere allo staff leasing da parte delle pubbliche amministrazioni.
Per quanto riguarda la somministrazione a tempo determinato, il d.lgs. 276/2003, nella sua prima formulazione, stabiliva che vi si potesse fare ricorso solo a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore.
Per effetto della legge 92/2012, la regola della necessaria sussistenza della ragione giustificatrice aveva subito una prima, importante deroga: la giustificazione del termine non veniva più richiesta nell’ipotesi di primo rapporto a tempo determinato di durata non superiore a dodici mesi, concluso fra l’utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualsiasi mansione, nel caso di prima di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato.
L’obbligo di indicare le ragioni giustificatrici del ricorso alla somministrazione a tempo determinato è infine venuto meno a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 34/2014, convertito con modificazioni in L. 78/2014 (c.d. Jobs Act), che ha definitivamente liberalizzato l’apposizione di termini ai rapporti di lavoro subordinato di durata non superiore a 36 mesi.
In base all’attuale disciplina, dunque, la stipulazione di un contratto di somministrazione a tempo determinato non è più subordinata alla sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, ma è rimessa alla discrezionalità dell’utilizzatore, il quale potrà farvi ricorso a condizione che siano rispettati i limiti quantitativi fissati dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore (in questo senso dispone l’art. 31, co. 2, d.lgs. 81/2015; la previgente disciplina faceva invece riferimento ai limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi).
È in ogni caso esente da limiti quantitativi la somministrazione a tempo determinato di lavoratori collocati in mobilità, di soggetti disoccupati che godono, da almeno sei mesi, di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori “svantaggiati” o “molto svantaggiati”.
L’agenzia autorizzata alla somministrazione deve rispettare i requisiti patrimoniali più onerosi (capitale versato non inferiore ai 600.000 euro e deposito cauzionale di 350.000 euro) e deve avere un’attività distribuita su almeno quattro regioni.
In aggiunta, deve indicare la somministrazione come oggetto sociale prevalente, anche se non esclusivo: pur nel rispetto del vincolo di “prevalenza” dell’attività, l’iscrizione alla sezione delle agenzie di somministrazione concede automaticamente la possibilità di esercitare le attività di intermediazione, ricerca selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale.
In particolare occorre sottolineare come l’autorizzazione a svolgere attività di intermediazione, vietata dalla normativa precedente a causa dell’esclusività dell’oggetto sociale, implichi che le agenzie possono legittimamente lucrare nel caso in cui il lavoratore somministrato venga poi assunto dall’impresa utilizzatrice.
Agenzie di intermediazione
Per intermediazione il decreto 276/2003 intende l’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, anche in relazione all’inserimento lavorativo dei disabili e dei gruppi di lavoratori svantaggiati, comprensiva tra l’altro:
- della raccolta dei curricula dei potenziali lavoratori;
- della preselezione e costituzione di relativa banca dati;
- della promozione e gestione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro;
- della effettuazione, su richiesta del committente, di tutte le comunicazioni conseguenti alle assunzioni avvenute a seguito della attività di intermediazione;
- dell’orientamento professionale;
- della progettazione ed erogazione di attività formative finalizzate all’inserimento lavorativo” (art. 2 c. 1 lettera b).
L’attività di (inter)mediazione consiste dunque, in primo luogo, nel favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e, in secondo luogo, nel fornire una serie di servizi connessi o accessori di cui la legge fa un elenco esemplificativo.
L’iscrizione alla sezione delle agenzie di intermediazione impone requisiti economici ridotti rispetto alle agenzie di somministrazione ma più significativi di quelli delle agenzie di mera consulenza.
L’attività di intermediazione deve essere distribuita su almeno quattro regioni e deve essere l’oggetto sociale prevalente: pur nel rispetto del vincolo di “prevalenza”, l’autorizzazione concede automaticamente la possibilità di esercitare le attività di ricerca-selezione del personale e supporto alla ricollocazione professionale.
Agenzie di mera consulenza
Le agenzie di mera consulenza sono di due tipologie; ciascun tipo svolge una specifica attività:
- quelle ricerca e selezione del personale svolgono “l’attività di consulenza di direzione finalizzata alla risoluzione di una specifica esigenza dell’organizzazione committente, attraverso l’individuazione di candidature idonee a ricoprire una o più posizioni lavorative in seno all’organizzazione medesima, su specifico incarico della stessa; formazione della rosa di candidature maggiormente idonee; progettazione ed erogazione di attività formative finalizzate all’inserimento lavorativo; assistenza nella fase di inserimento dei candidati” (art. 2 c. 1 lettera c);
- quelle di supporto alla ricollocazione svolgono invece: “l’attività effettuata su specifico ed esclusivo incarico dell’organizzazione committente, anche in base ad accordi sindacali, finalizzata alla ricollocazione nel mercato del lavoro di prestatori di lavoro, singolarmente o collettivamente considerati, attraverso la preparazione, la formazione finalizzata all’inserimento lavorativo, l’accompagnamento della persona e l’affiancamento della stessa nell’inserimento nella nuova attività” (art. 2 c. 1 lettera d).
La differenza tra i due tipi sta nel fatto che, mentre la prima agenzia si occupa di selezionare le candidature idonee in seguito ad una specifica richiesta dell’organizzazione committente, la seconda promuove il reinserimento di lavoratori di una organizzazione che sono usciti dal mercato del lavoro (e.g., in seguito a licenziamento collettivo):
- nel primo caso la platea dei candidati lavoratori è indefinita
- nel secondo la (ri)collocazione riguarda quegli specifici “prestatori di lavoro, singolarmente o collettivamente considerati”.
A differenza degli altri tipi, che devono necessariamente essere costituiti in società di capitali, le agenzie di mera consulenza possono essere anche società di persone.
Regime di accreditamento
In attuazione delle previsioni dell’art.5, sono stati emanati due decreti ministeriali attuativi:
- il primo, del 23 dicembre 2003, in tema di “modalità di presentazione della richiesta di autorizzazione per l’iscrizione all’Albo delle agenzie per il lavoro”;
- il secondo, del 5 maggio 2004, sui “requisiti delle Agenzie per il lavoro, in attuazione dell’art. 5 c. 1 lettera c) del D.Lgs. 276/2003.
Si tratta di previsioni prevalentemente di mero rilievo amministrativo e procedurale che verranno richiamati ove pare utile nel testo.
Rinviando a quanto sopra detto riguardo ai singoli elementi richiesti dalla legge per le specifiche agenzie, ci si occupa ora sinteticamente dei requisiti generali.
Le agenzie devono essere costituite come società di capitali o cooperative (i tipi società di persone sono ammesse per le sole agenzie di mera consulenza); devono disporre di personale con adeguate competenze professionali e di locali idonei allo specifico uso; amministratori, direttori generali, dirigenti muniti di rappresentanza non devono essere stati condannati penalmente per reati gravi: la legge si mostra particolarmente sensibile per i reati contro il patrimonio o in materia di lavoro e previdenza sociale.
Per le agenzie polifunzionali (non caratterizzate, cioè, da un oggetto sociale esclusivo) è necessaria la “presenza di distinte divisioni operative, gestite con strumenti di contabilità analitica”.
I requisiti economico-finanziari sono diversi a seconda dell’attività per la quale viene richiesta l’autorizzazione: si va dalle agenzie di somministrazione, il cui capitale versato non può essere inferiore ai 600.000 euro ed il cui deposito cauzionale è di 350.000 euro, alle agenzie di mera consulenza, il cui capitale versato deve essere almeno di 25.000 euro.
Infine, in attesa della messa a regime della “borsa continua nazionale del lavoro” (artt. 15, 16,17), occorre la dichiarazione del rappresentante legale dell’impegno alla tempestiva connessione dell’agenzia alla borsa stessa.
La procedura di autorizzazione ricalca in buona parte quella della disciplina previgente in tema di agenzie di lavoro temporaneo (legge 196/1997): una prima fase in cui le agenzie di nuova costituzione possono chiedere un’autorizzazione temporanea (due anni), seguita da una seconda fase in cui la richiesta è finalizzata a confermare l’autorizzazione, questa volta a tempo indeterminato.
La competenza per il rilascio dell’autorizzazione (oltre che per la gestione dell’albo) spetta alla Direzione generale per l’impiego.
La prima autorizzazione provvisoria all’esercizio delle attività per le quali viene fatta richiesta è rilasciata dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali “entro sessanta giorni dalla richiesta e previo accertamento della sussistenza dei requisiti giuridici e finanziari (…) provvedendo contestualmente alla iscrizione”. Dunque, iscrizione ed autorizzazione procedono di pari passo.
Trascorsi due anni, le agenzie possono richiedere l’autorizzazione a tempo indeterminato; questa viene concessa a seguito della verifica del rispetto degli obblighi derivanti dalla legge e dell’effettivo svolgimento dell’attività.
In particolare, per le agenzie di somministrazione generaliste e per quelle di intermediazione, occorre la verifica del rispetto della prevalenza dell’attività per cui è stata richiesta l’autorizzazione che viene verificata secondo un criterio “strettamente quantitativo” a norma del d.m. 23 dicembre 2003 art. 6 c. 3.
Tuttavia, la vera novità riguarda l’introduzione di un meccanismo di silenzio-assenso: scaduti i termini entro cui la direzione deve pronunciarsi circa l’autorizzazione (60gg per l’autorizzazione provvisoria e 90gg per quella a tempo indeterminato), la domanda si intende accettata.
L’ultimo inciso dell’art. 5 riguarda il “divieto di transazione commerciale” dell’autorizzazione; il termine transazione, mutuato dal lessico delle discipline economiche, ha nell’ambito del diritto un significato affatto diverso (si rinvia alla disciplina codicistica del “contratto di transazione” -artt.1965 e seguenti-).
L’interpretazione della norma creava grande incertezza, seppure l’obiettivo di tutela è facilmente intuibile: impedire la circolazione dell’autorizzazione ottenuta (rilasciata “ad personam”). Ora il decreto ministeriale 23 dicembre 2003 art.10 chiarisce in parte il dato legislativo: “è vietato il ricorso a figure contrattuali attraverso cui realizzare, anche a titolo non oneroso, qualsivoglia forma di trasferimento o concessione della autorizzazione ottenuta a favore di soggetti terzi, siano essi persone fisiche o giuridiche (…).
Il trasferimento d’azienda o la fusione comportano, il venir meno della autorizzazione e la necessità, per la costituenda agenzia, di ottenere una autorizzazione provvisoria”.
Regimi particolari di autorizzazione
Sono molti i soggetti ai quali l’art. 6 – rubricato “regimi particolari di autorizzazione” – apre le porte, dando loro la possibilità di svolgere l’attività di intermediazione, quali università, comuni, camere di commercio, istituti di scuola secondaria superiore, associazioni sindacali, enti bilaterali, consulenti del lavoro.
Occorre subito fare due precisazioni:
- La prima è che tali soggetti sono unicamente autorizzati a svolgere l’attività di intermediazione: tuttavia, considerata la definizione molto ampia che di tale attività dà l’art. 2, ciò che realmente viene precluso è l’attività di somministrazione e le attività di mera consulenza che non siano strumentali alla mediazione. In effetti, esaminando la definizione normativa di intermediazione, si nota immediatamente, ad esempio, come l’attività di intermediazione includa quella di preselezione dei curricula e di orientamento professionale. Più in generale, occorre osservare come tutte le cinque attività descritte (due di somministrazione, due di mera consulenza, quella di mediazione) siano strettamente interconnesse e tendano a volte a sovrapporsi.
- La seconda precisazione è che, secondo la lettera della legge delega, più che “regimi particolari di autorizzazione”, ci troviamo di fronte a una graduazione dell’unico regime di autorizzazione, “modulato in relazione alla natura giuridica dell’intermediario” (legge 30/2003, art. 1 c. 2, lett. l).
L’apertura ai privati, come già visto sopra nel paragrafo introduttivo, più che una novità è un ritorno al passato: prima cioè che la fase di collocamento fosse pertinenza esclusiva dei pubblici uffici. Quanto previsto dal D.Lgs. 276/2003 prosegue nel solco tracciato dal già citato D.Lgs. 469/1997, aprendo ad una più larga platea di soggetti l’attività di mediazione, ora accompagnata anche da risvolti di politica attiva del lavoro, e lasciando cadere il vincolo della esclusività dell’oggetto sociale.
Nello specifico, l’art. 6 stabilisce che sono autorizzati all’attività di intermediazione i seguenti soggetti:
- gli istituti di scuola secondaria di secondo grado, statali e paritari, a condizione che rendano pubblici e gratuitamente accessibili sui relativi siti istituzionali i curricula dei propri studenti all’ultimo anno di corso e fino ad almeno dodici mesi successivi alla data del conseguimento del titolo di studio;
- le università, pubbliche e private, e i consorzi universitari, a condizione che rendano pubblici e gratuitamente accessibili sui relativi siti istituzionali i curricula dei propri studenti dalla data di immatricolazione e fino ad almeno dodici mesi successivi alla data del conseguimento del titolo di studio;
- i comuni, singoli o associati nelle forme delle unioni di comuni e delle comunità montane, e le camere di commercio;
- le associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale anche per il tramite delle associazioni territoriali e delle società di servizi controllate;
- i patronati, gli enti bilaterali e le associazioni senza fini di lucro che hanno per oggetto la tutela del lavoro, l’assistenza e la promozione delle attività imprenditoriali, la progettazione e l’erogazione di percorsi formativi e di alternanza, la tutela della disabilità;
- i gestori di siti internet, a condizione che (i) svolgano la predetta attività senza finalità di lucro e che (ii) rendano pubblici sul sito medesimo i dati identificativi del legale rappresentante;
- l’Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo e dello sport professionistico, ma solo con riferimento ai lavoratori dello spettacolo.
Il secondo comma dell’art. 6 stabilisce inoltre che l’ordine nazionale dei consulenti del lavoro può chiedere l’iscrizione all’albo delle agenzie per il lavoro di una apposita fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di personalità giuridica costituito nell’ambito del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro per lo svolgimento a livello nazionale di attività di intermediazione.
Per tutti tali soggetti, l’autorizzazione allo svolgimento della attività di intermediazione è subordinata:
- alla interconnessione alla borsa continua nazionale del lavoro per il tramite del portale clic lavoro (Le modalità di interconnessione al portale clic lavoro, che costituisce la borsa continua nazionale del lavoro sono state definite dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con decreto 20 settembre 2011; la legge stabilisce che il mancato conferimento dei dati alla borsa continua nazionale del lavoro comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 2000 a euro 12000, e la cancellazione dall’albo delle agenzie per il lavoro, con conseguente divieto di proseguire l’attività di intermediazione);
- al rilascio alle regioni e al Ministero del lavoro e delle politiche sociali di ogni informazione utile relativa al monitoraggio dei fabbisogni professionali e al buon funzionamento del mercato del lavoro.
Accreditamenti
L’articolo 2, comma 1, lettera f), del D.Lgs. 276/2003 offre la seguente definizione di accreditamento: “provvedimento mediante il quale le regioni riconoscono a un operatore, pubblico o privato, l’idoneità a erogare i servizi al lavoro negli ambiti regionali di riferimento, anche mediante l’utilizzo di risorse pubbliche, nonché la partecipazione attiva alla rete dei servizi per il mercato del lavoro con particolare riferimento ai servizi di incontro fra domanda e offerta”.
La disposizione tradisce il timore del legislatore d’invadere le competenze legislative in materia di mercato del lavoro e di servizi per l’impiego che la riforma costituzionale del 2001 sembra riconoscere alle regioni (nel rispetto dei principi posti dalla legge dello Stato).
Ciò che si può intuire è che gli operatori (pubblici e privati, in concorrenza tra loro), una volta accreditati, potranno esercitare attività relative al mercato del lavoro ed ai servizi per l’impiego, usufruendo eventualmente di risorse pubbliche.
I criteri di accreditamento e le procedure sono disciplinati a livello regionale, in ottemperanza dei principi elencati dall’articolo quali:
- il rispetto della libertà di scelta dei cittadini;
- la salvaguardia di standard omogenei a livello nazionale nell’affidamento di funzioni relative all’accertamento dello stato di disoccupazione e al monitoraggio dei flussi del mercato del lavoro;
- la costituzione negoziale di reti di servizio ai fini dell’ottimizzazione delle risorse;
- la garanzia di connessione con la borsa nazionale del lavoro attraverso nodi regionali;
- il coordinamento tra operatori nazionali e regionali, pubblici e privati.
Divieto di indagini sulle opinioni e trattamenti discriminatori
L’art. 10 del d.lgs. 276/2003, il cui contenuto riecheggia la lettera dell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori, stabilisce che: “è fatto divieto al datore di lavoro (…) di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Si richiama anche, ratione materiae, l’art. 15 dello Statuto, che vieta gli atti discriminatori.
Rispetto all’art. 8 St. Lav., l’articolo in commento amplia in modo rilevante l’elenco delle tematiche su cui è fatto divieto di compiere indagini (e.g. salute e orientamento sessuale); ma ciò che più importa evidenziare è il diverso ambito applicativo dei due articoli in questione: mentre la disposizione dello Statuto dei lavoratori fa riferimento al contesto aziendale, vincolando i datori di lavoro, l’art. 10 del D.Lgs. riguarda, invece, il mercato del lavoro, censurando le indagini discriminatorie attuate dagli operatori sul mercato.
Si evince dal testo che la tutela contro le indagini discriminatorie è un diritto indisponibile al lavoratore stesso: infatti, l’eventuale consenso prestato dal soggetto protetto non esime l’operatore dal rispettare il divieto (la tecnica normativa è mutuata da quella della legge 675/1996 in tema di dati sensibili).
Mentre è evidente il chiarimento circa l’illiceità del trattamento dei “dati personali dei lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali e al loro inserimento lavorativo”, lascia invece perplessi la deroga al divieto in relazione al trattamento per dati che riguardino “caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento della attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa”.
Senza dubbio è una deroga che, se interpretata ampiamente, rischia di inficiare l’intera previsione generale: è auspicabile una giurisprudenza attenta a restringere il più possibile la portata dell’eccezione, magari valorizzando il solo elemento dell’essenzialità.
Divieto di oneri posti in capo ai lavoratori
L’art.11 del d.lgs. 276/2003 ribadisce il principio ormai consolidato secondo cui è fatto divieto per le agenzie di esigere o comunque di percepire, direttamente o indirettamente, compensi dal lavoratore.
La gratuità dei servizi per l’impiego a vantaggio dei lavoratori è corollario del principio internazionale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) secondo cui “il lavoro non è una merce”, principio che può essere considerato norma consuetudinaria di diritto internazionale (si veda, analogamente, anche la previsione dell’art. 29 della Carta dei Diritti fondamentali UE, c.d. Carta di Nizza).
Fondi per la formazione e l’integrazione del reddito
L’art. 12 del d.lgs. 276/03 stabilisce che i soggetti autorizzati alla somministrazione di lavoro sono tenuti a versare dei contributi a fondi per la formazione e l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto di somministrazione, in una misura pari al 4% della retribuzione corrisposta ai lavoratori somministrati.
La gestione di tali fondi è affidata pariteticamente alle associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Per quanto riguarda la destinazione dei contributi, la legge stabilisce che i contributi derivanti dai lavoratori assunti a tempo determinato sono destinati a interventi di formazione e riqualificazione professionale, nonché a misure di carattere previdenziale e di sostegno al reddito a favore dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato, dei lavoratori che abbiano svolto in precedenza missioni di lavoro in somministrazione in forza di contratti a tempo determinato e, limitatamente agli interventi formativi, dei potenziali candidati a una missione
I contributi relativi ai lavoratori assunti a tempo indeterminato sono invece utilizzati per:
- iniziative comuni finalizzate a garantire l’integrazione del reddito dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in caso di fine lavori;
- iniziative comuni finalizzate a verificare l’utilizzo della somministrazione di lavoro e la sua efficacia anche in termini di promozione della emersione del lavoro non regolare e di contrasto agli appalti illeciti;
- iniziative per l’inserimento o il reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori svantaggiati anche in regime di accreditamento con le regioni;
- promozione di percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale.
Le politiche di intervento sono attuate nel quadro delle politiche e delle misure stabilite dal contratto collettivo nazionale di lavoro delle imprese di somministrazione di lavoro, sottoscritto dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative a livello nazionale ovvero, in mancanza, dai fondi bilaterali.
I fondi sono gestiti, come detto, dagli enti bilaterali, sotto il controllo del Ministero del lavoro, che dovrà autorizzare l’istituzione e vigilare sulla corretta gestione dei fondi.
In caso di omissione, anche parziale, del contributo, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al fondo di cui al comma 4, oltre al contributo omesso, gli interessi nella misura prevista dal tasso indicato all’articolo 1 del decreto del Ministero dell’economia e delle finanze 26 settembre 2005, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 236 del 10 ottobre 2005, più il 5 per cento, nonché una sanzione amministrativa di importo pari al contributo omesso.
Misure di incentivazione del raccordo pubblico e privato
L’articolo 13 del d.lgs. 276/03 contiene una disciplina specifica per il collocamento dei lavoratori svantaggiati attraverso la promozione del coordinamento tra le agenzie di somministrazione e le istituzioni pubbliche.
Ai sensi dell’art. 2 del medesimo decreto, per lavoratore svantaggiato si intende “qualsiasi persona appartenente a una categoria che abbia difficoltà a entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro ai sensi dell’articolo 2, lettera f) del regolamento (CE) n. 2204/2002” e della legge sulle cooperative sociali.
Gli atti legislativi ai quali l’art. 2 D.Lgs. 276/2003 rinvia fanno riferimento ad un vasto pubblico di soggetti tra cui:
- i giovani con meno di 25 anni o che abbiano completato il ciclo formativo da più di due anni, ma non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente
- i lavoratori extracomunitari che si spostino all’interno degli Stati membri della Comunità europea alla ricerca di una occupazione
- i lavoratori, appartenenti alla minoranza etnica di uno Stato membro, che debbano migliorare le loro conoscenze linguistiche, la loro formazione professionale o la loro esperienza lavorativa per incrementare la possibilità di ottenere una occupazione stabile
- i lavoratori che desiderino intraprendere o riprendere una attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni, in particolare quei soggetti che abbiano dovuto abbandonare l’attività lavorativa per difficoltà nel conciliare la vita lavorativa e la vita familiare
- i lavoratori adulti che vivano soli con uno o più figli a carico
- i lavoratori che siano privi di un titolo di studio, di livello secondario o equivalente, o che abbiano compiuto 50 anni e siano privi di un posto di lavoro o in procinto di perderlo
- i lavoratori riconosciuti affetti, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione nazionale
- i lavoratori che, dopo essere stati sottoposti a una pena detentiva, non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente
- le lavoratrici residenti in una area geografica del livello NUTS II , nella quale il tasso medio di disoccupazione superi il 100% della media comunitaria da almeno due anni civili e nella quale la disoccupazione femminile abbia superato il 150% del tasso di disoccupazione maschile dell’area considerata per almeno due dei tre anni civili precedenti
- i disoccupati di lunga durata senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti o per 6 degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni d’età
- gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico
- i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare
- i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47-bis, 47-ter e 48 della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663
Il principio di politica del diritto su cui è incardinata la disciplina è quella di sostituire il modello dello “stato sociale assistenziale” (welfare, nell’accezione più dispregiativa) con quello di workfare, cioè un modello che incentivi il soggetto in cerca di lavoro ad attivarsi, partecipando ad attività formativo-professionali e di inserimento lavorativo.
Allo scopo di agevolare l’inserimento (se in cerca di prima occupazione) o reinserimento (se disoccupati) di tale categoria di lavoratori, alle agenzie di lavoro è consentito:
- operare solo in presenza di un piano individuale di inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro, con interventi formativi idonei e il coinvolgimento di un tutore con adeguate competenze e professionalità, e a fronte della assunzione del lavoratore, da parte delle agenzie autorizzate alla somministrazione, con contratto di durata non inferiore a sei mesi;
- determinare, per un periodo massimo di dodici mesi e solo in caso di contratti di durata non inferiore a nove mesi, il trattamento retributivo del lavoratore, detraendo dal compenso dovuto quanto eventualmente percepito dal lavoratore medesimo a titolo di indennità di mobilità, indennità di disoccupazione ordinaria o speciale, o altra indennità o sussidio la cui corresponsione è collegata allo stato di disoccupazione o inoccupazione, e detraendo dai contributi dovuti per l’attività lavorativa l’ammontare dei contributi figurativi nel caso di trattamenti di mobilità e di indennità di disoccupazione ordinaria o speciale.
Il lavoratore svantaggiato, a sua volta, decade dai trattamenti economici legati allo stato di disoccupazione eventualmente goduti in tre casi:
- in primo luogo, se rifiuta di essere avviato ad un progetto individuale di reinserimento oppure rifiuti di partecipare a un corso di formazione professionale autorizzato;
- in secondo luogo se non accetta l’offerta di un lavoro inquadrato in un livello retributivo non inferiore del 20 per cento rispetto a quello delle mansioni di provenienza, a meno che il luogo di lavoro non sia raggiungibile con i mezzi pubblici in 80 minuti oppure se la posizione lavorativa non risulti congrua rispetto alle competenze del lavoratore;
- in terzo luogo, se omette di dare comunicazione alla competente sede INPS dell’avvio di una attività di lavoro autonomo o subordinato.
Spetta alle agenzie stesse il compito di comunicare i nominativi di tali soggetti all’INPS, e al servizio per l’impiego.
Inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati nelle cooperative sociali
L’articolo 14 del D.Lgs. 276/03, rubricato “Cooperative sociali e inserimento lavorativo dei lavoratori svantaggiati”, si inserisce nel filone promozionale a favore dei disabili inaugurato dalla legge 68/1999, basato sul principio di scambio tra alleggerimento di vincoli normativi gravanti sul datore di lavoro e l’assunzione effettiva di disabili.
Gli artt. 11 e 12 della legge 68/1999 istituiscono una serie di strumenti convenzionali atti a promuovere l’inserimento e la formazione di tale categoria di lavoratori; la tipologia più vicina a quella prevista dal D.Lgs. 276/2003 consente al datore di lavoro di stipulare una convenzione con una cooperativa sociale a cui “distaccare” il lavoratore disabile.
Come contropartita per il distacco (altrimenti vietato) all’imprenditore si richiede di affidare alla cooperativa commesse annuali sufficienti per il pagamento della retribuzione e dei contributi del disabile distaccato.
La previsione dell’art.14 del D.Lgs. 276/2003 ricalca parte della disciplina sopra ricordata, ma presenta anche rilevanti margini di novità e d’incertezza.
In primo luogo, è necessario un accordo quadro, stipulato dai sevizi pubblici per il collocamento dei disabili con le associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative e con le associazioni di rappresentanza, assistenza e tutela delle cooperative che si occupano di lavoratori svantaggiati.
All’interno di tale accordo-cornice, ciascun datore di lavoro aderente alle associazioni firmatarie dello stesso può accordarsi con le cooperative sociali per affidare loro una certa quantità di commesse; il valore di tali commesse deve essere sufficiente a coprire il pagamento della retribuzione corrisposta ai soggetti svantaggiati utilizzati dalla cooperativa.
Come dicevamo poc’anzi, vi sono alcune similitudini con l’accordo ex art. 12 legge 68/1999: da una parte la necessità della copertura dei costi per i pagamenti dei soggetti svantaggiati attraverso il valore delle commesse, dall’altra l’intento di inserire il lavoratore svantaggiato in un ambiente lavorativo (le cooperative sociali) tendenzialmente più favorevole e sensibile a soggetti a rischio di esclusione sociale.
Le differenze, però, sono sensibilmente marcate: l’istituto più recente coinvolge non soltanto i disabili, ma la categoria più ampia dei lavoratori svantaggiati; in aggiunta e soprattutto, i lavoratori svantaggiati coinvolti non sono dipendenti del datore di lavoro distaccante, bensì titolari di rapporto di lavoro con la cooperativa sociale.
Per quanto concerne l’eventuale guadagno dei datori di lavoro nell’esternalizzare alcune attività affidandole a cooperative sociali, la norma pare valorizzare l’incentivo della liberazione (parziale) dall’obbligo gravante sul datore di lavoro di avere alle dipendenze una certa percentuale di lavoratori disabili.
In secondo luogo, vi è la possibilità per il datore di lavoro di realizzare un risparmio economico legato al meccanismo economico dell’esternalizzazione e (pare) dell’intrinseca economicità degli accordi per come disciplinati dall’art. 14.
Borsa continua nazionale del lavoro
L’ambizioso progetto di costruire un sistema integrato ed informatizzato contenente informazioni sul mercato del lavoro accessibili a lavoratori, imprenditori, operatori pubblici e privati è già contenuto nel Libro Bianco sul mercato del lavoro.
Più correttamente, bisogna rammentare che già dal 2000 il legislatore, alle prese con la riforma del collocamento, si era impegnato nel disegno del c.d. Sistema informativo lavoro (Sil), basato sulla raccolta e messa a disposizione delle informazioni relative ai soggetti in cerca di occupazione.
Tuttavia, tale progetto è rimasto inattuato. Nell’ambito della riforma del mercato del lavoro ne sono stati ripresi i principi ispiratori allo scopo di creare un supporto fondamentale al raggiungimento degli obiettivi di efficienza e trasparenza indispensabili al buon funzionamento del mercato del lavoro.
Si osservi che il 13 ottobre 2004 è stato emanato il decreto interministeriale attuativo ex art. 16 c. 1, per definire “gli standard tecnici e i flussi informativi di scambio tra i sistemi, nonché le sedi tecniche finalizzate ad assicurare il raccordo e il coordinamento del sistema a livello nazionale”.
I principi che informano la Borsa sono i seguenti.
In primo luogo, gli operatori, pubblici e privati, autorizzati ed accreditati, sono tenuti a connettersi al sistema informativo. Anche i lavoratori e gli imprenditori possono incontrarsi direttamente e liberamente, potendo accedere alla Borsa da qualsiasi terminale (previa identificazione, come richiesto dal decreto attuativo).
Per tutelare il diritto alla riservatezza dei lavoratori, l’art. 15 del d.lgs. 276/03 e il decreto interministeriale impongono agli operatori di richiedere il consenso alla diffusione dei dati ai diretti interessati.
Anche nel caso in cui siano direttamente i lavoratori ad inserire le informazioni anagrafiche e professionali, le disposizioni restringono la diffusione soltanto ai dati strettamente necessari per favorire l’incontro tra domanda ed offerta (vedi artt. 1 e 2 del decreto interministeriale) in applicazione del principio di sufficienza nel trattamento dei dati.
Inoltre “il cittadino o il datore di lavoro, che accede ai servizi della borsa continua nazionale del lavoro, autonomamente o attraverso un operatore, deve poter scegliere in autonomia il livello territoriale, sia esso provinciale, regionale o nazionale, sul quale esporre la propria candidatura od offerta di lavoro” (art. 1 c. 8 decreto interministeriale).
La borsa è costituita da due livelli:
- il primo centrale e nazionale, competente a definire gli standard tecnici, a integrare tra loro i nodi regionali, e alla definizione, alla raccolta, alla comunicazione e alla diffusione dei dati che permettono la massima efficienza e trasparenza del processo di incontro tra domanda e offerta di lavoro, assicurando anche gli strumenti tecnologici necessari per la raccolta e la diffusione delle informazioni presenti nei siti internet ai fini dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro;
- il secondo livello, regionale, che ha la funzione precipua di coordinare i flussi informativi pubblici e privati.
Il rapporto Stato-regioni, disegnato nel D.Lgs. 276/2003 con una forte tendenza all’accentramento delle competenze, sembra nel caso della Borsa un poco più rispettoso dell’autonomia regionale, anche alla luce della nuova riforma in senso federale della Carta costituzionale.
Al ministero è infatti lasciato il compito di coordinare le peculiarità delle scelte regionali e di uniformare gli standard tecnici, così da rendere il sistema nazionale integrato e omogeneo.
Tutto il processo attuativo ha coinvolto profondamente le rappresentanze regionali: predisposizione delle linee guida condivise ed emanazione del decreto interministeriale “d’intesa con le regioni”. La stessa commissione per il raccordo ed il coordinamento, istituita dal decreto per ultimo citato, è annovera tra i suoi membri una discreta quantità di rappresentati degli enti locali.
Alle regioni viene riconosciuta una funzione fondamentale: quella di risolvere nel modo più efficace e funzionale l’irrinunciabile esigenza di coordinare gli operatori privati ed i soggetti pubblici protagonisti del mercato; agli enti locali è demandato anche il compito di adattare il modello tecnico alle esigenze del mercato del lavoro locale.
Il potere centrale, a sua volta, sovrintende al buon funzionamento ed all’aggiornamento tecnologico della rete, in modo da realizzare la libera circolazione dei lavoratori sull’intero territorio nazionale (e comunitario) come richiesto dall’art. 120 della Costituzione.
Rammentiamo, ad ogni modo, che il fondamentale principio che informa il rapporto Stato, regioni ed altri enti locali è quello della sussidiarietà verticale: in buona sostanza ciò significa che dovrebbe esservi la tendenza ad affidare le competenze “concorrenti” al potere pubblico più vicino al cittadino. Anche alle regioni è richiesto in linea di principio di devolvere le proprie prerogative agli enti minori, province in primis.
Passando ad analizzare le funzioni in materia di elaborazioni statistiche e di valutazione delle politiche del lavoro, parrebbe che il legislatore abbia optato per un modello di gestione accentrato.
Presso il Ministero sono indirizzati i flussi informativi anagrafico-professionali dei soggetti operanti sul mercato e nel mondo del lavoro. Con scadenza annuale, il Ministero presenterà una relazione al Parlamento sull’efficacia delle azioni svolte, avvalendosi del supporto dell’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (Isfol).
L’art. 17 c. 3 prevede l’istituzione di una “Commissione di esperti in politiche del lavoro, statistiche del lavoro e monitoraggio e valutazione delle politiche occupazionali” che avrà il compito di predisporre linee giuda per le attività di monitoraggio e valutazione affidate al Ministero.
In coerenza con le linee programmatiche elaborate a livello comunitario, alcune priorità in ambito di politiche attive del lavoro si evincono dal testo: promozione delle pari opportunità, supporto ai lavoratori svantaggiati, investimento nel contratto di apprendistato.
Il vero scoglio da superare è quello di coordinare la struttura centrale con quelle locali alle quali sono affidati compiti di valutazione delle politiche formative e del lavoro direttamente dalle istituzioni comunitarie (come condizione per accedere ai fondi strutturali e finanziari erogati dall’UE).
Da una parte vi sono forti dubbi che l’affidamento agli enti locali dei compiti di monitoraggio e valutazione delle politiche del lavoro sia efficiente, anche perché gli stessi sono dotati di risorse tecniche e finanziarie certamente limitate.
Dall’altra, tuttavia, intervengono due ordini di motivi. In primo luogo occorre prendere atto della scelta comunitaria di affidare direttamente ai fruitori dei fondi europei (enti locali) i controlli in merito all’efficacia delle azioni. In secondo luogo, non si può ovviamente prescindere dal nuovo riparto di competenze Stato-regioni voluto dalla Costituzione: la competenza statale esclusiva riguarderebbe soltanto il “coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati” delle PA (art. 117 c. 2 lett. “r”) e non la gestione diretta dei dati e dei sistemi stessi che, in materia di politiche del lavoro, costituirebbe al più una attribuzione concorrente.
Regime sanzionatorio
Il titolo secondo del D.Lgs. 276/2003 si chiude col capo dedicato al regime sanzionatorio.
Le disposizioni, spalmate su due articoli, prevedono sanzioni penali e sanzioni amministrative; il D.Lgs. 6 ottobre 2004 n. 251 ha contribuito non poco a risolvere alcune antinomie contenute nell’art. 18 del D.Lgs. 276/2003 originale.
Senza soffermarci troppo dettagliatamente sulla disciplina (peraltro di facile lettura nelle disposizioni di legge alle quali si rinvia) occorre inquadrare gli artt. 18 e 19 nei principi fondamentali.
Una doverosa premessa è la seguente: le attività di somministrazione, intermediazione e consulenza sono legittime solo se autorizzate in senso lato e nei limiti previsti; in caso contrario, sono illecite e, quindi, perseguibili a noma di legge: in questo senso, non vi è una cesura del D.Lgs. 276/2003 con il passato.
Passando alla disciplina dell’art. 18, primo luogo, si può osservare come le sanzioni colpiscano tanto le agenzie operanti sul mercato, quanto i datori di lavoro che si avvalgono dei servizi offerti; in secondo luogo, sono sanzionate con ammenda le infrazioni inerenti le attività di somministrazione, con l’arresto quelle relative alla intermediazione; ancora, è prevista un’aggravante in caso di sfruttamento di lavoro minorile; infine, per le violazioni ritenute più gravi, è disposta la cancellazione dall’albo dell’agenzia.
In ottemperanza a quanto previsto all’art.10, che vieta alle agenzie di indagare sulle opinioni dei lavoratori e di trattare i soggetti secondo criteri discriminatori, gli operatori inadempienti sono sanzionati, in alternativa, con il pagamento di un’ammenda o l’arresto (salvo inasprimenti di pena in caso di violazioni gravi).
Si noti che, in ogni caso, le sanzioni ex art. 18 sono integrative e non sostitutive delle sanzioni già previste in tema di trattamento dei dati in generale dal “testo unico sulla privacy”, (D.Lgs. 196/2003).
Chi percepisce compensi da parte del lavoratore, in violazione dell’art.11, è punito con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda.
Va peraltro segnalato che il recente decreto legislativo n. 8 del 2016 ha disposto la depenalizzazione, e la relativa conversione in sanzione amministrativa, di tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda.
L’articolo 19 del D.Lgs. 276/03 colpisce con sanzioni amministrative il datore di lavoro che ometta di adempiere ad una serie di obblighi legati alla costituzione o alla modifica di un rapporto di lavoro; si tratta di una serie di informazioni sulle caratteristiche del rapporto di lavoro che il datore di lavoro deve fornire per iscritto al lavoratore, nonché di comunicazioni sulla costituzione e la modifica di un rapporto di lavoro che il datore di lavoro deve rendere agli uffici pubblici per l’impiego competenti. L’articolo in parola perfeziona e completa la disciplina sulla riforma del collocamento pubblico di cui l’ultimo tassello era stato posto dal D.Lgs. 297/2002.
Un commento finale all’apparato sanzionatorio può essere stimolato dalla previsione di diverse sanzioni penali: la normativa penale è usata con parsimonia nel diritto del lavoro. Tuttavia, già l’abrogata legge 1369/1960 conteneva previsioni di tale natura.
La ratio del legislatore del D.Lgs. 276/2003 in questo ambito può essere ricostruita isolando le violazioni da questi ritenute più gravi e cioè quelle sanzionate con l’arresto. Secondo questa logica di buon senso, possiamo verificare che i comportamenti illeciti più odiosi agli occhi del D.Lgs. 276/2003 sono quelli che implicano lo sfruttamento del lavoro minorile: si prevede l’arresto fino a diciotto mesi e l’aumento dell’ammenda sino al sestuplo. La severità è in armonia con gli orientamenti internazionali in tema di diritti umani e, in particolare, di sfruttamento del lavoro infantile e minorile.
In secondo luogo, le condotte colpite con più rigore sono quelle di attività non autorizzata di intermediazione (ritenuta più grave di quella di somministrazione) e di percezione di “compensi da parte del lavoratore per avviarlo a prestazioni di lavoro oggetto di somministrazione” (chissà perché non per la mediazione).
Per quanto riguarda il trattamento dei dati e le discriminazioni illecite, il rinvio all’art. 38 dello Statuto dei lavoratori assicura, a sua volta, l’irrogazione della sanzione penale.
Collocamento speciale – Inserimento obbligatorio dei lavoratori disabili
I lavoratori disabili, considerata la comprovata difficoltà a rendersi “appetibili” sul mercato del lavoro, usufruiscono di un regime di collocamento obbligatorio.
Ai datori di lavoro viene imposto di assumere un certo numero di lavoratori disabili, i quali devono tuttavia possedere una (anche solo minima) capacità lavorativa residua.
Le principali categorie di lavoratori (soggetti beneficiari) coinvolti dal collocamento obbligatorio, attualmente disciplinato dalla legge 68/1999, sono:
- gli invalidi civili in età lavorativa affetti da minorazioni fisiche o psichiche che comportino una riduzione della capacità lavorativa sopra il 45%;
- gli invalidi del lavoro che abbiano una riduzione della capacità lavorativa sopra il 33%;
- le persone non vedenti o sordomute;
- persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio con minorazioni ascritte dalla prima all’ottava categoria.
Nel caso in cui si tratti di invalidi civili, le condizioni di disabilità vengono accertate attraverso un’apposita visita medica effettuata da commissioni mediche istituite presso le ASL. Al contrario, per i disabili con invalidità derivante da infortunio sul lavoro e malattie professionali, l’accertamento viene condotto dall’INAIL; mentre, per quanto riguarda gli invalidi di guerra, invalidi civili di guerra e per servizio, il compito viene svolto da commissioni apposite.
Ottenuto l’accertamento i disabili devono iscriversi agli speciali elenchi presso i centri per l’impiego. Elenchi per mezzo dei quali i lavoratori vengono posti in graduatoria attraverso criteri che tengono conto dell’anzianità, dei carichi di famiglia, delle condizioni economiche.
Inoltre, in seguito all’emanazione del D.Lgs. 150/2015 anche per i disabili iscritti negli elenchi viene predisposto il cd. patto di servizio personalizzato di cui si parlerà nel prossimo paragrafo.
La regola in passato era quella della richiesta numerica, tuttavia già la legge 68/1999 prevedeva una parziale deroga, ammettendo che parte della forza lavoro disabile potesse essere assunta attraverso la richiesta nominativa.
In particolare, la richiesta nominative era ammessa per le assunzioni dei datori di lavoro privati che impiegavano da 15 a 35 dipendenti, oltre ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali e sociali e gli enti da essi promossi. Analogamente, l’assunzione nominativa era consentita per il 50% delle assunzioni dei datori di lavoro che occupavano da 36 a 50 dipendenti, nonché per il 60% delle assunzioni dei datori che avevano alle proprie dipendenze più di 50 dipendenti.
La nuova formulazione dell’art. 7 legge n. 68/1999, per effetto delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 151/2015, prevede il superamento della disciplina che regolamentava l’avviamento numerico del personale disabile.
Oggi, i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici assumono i lavoratori mediante richiesta nominativa di avviamento agli uffici competenti o mediante la stipula delle convenzioni previste dalla legge. La richiesta nominativa può essere preceduta dalla richiesta agli uffici competenti di effettuare la preselezione delle persone con disabilità iscritte negli appositi elenchi che aderiscono alla specifica occasione di lavoro, sulla base delle qualifiche e secondo le modalità concordate dagli uffici con il datore di lavoro.
In pratica, potranno essere assunti lavoratori con disabilità attraverso chiamata nominativa, ma non sarà possibile procedere ad assunzione diretta, posto che potranno essere assunti solo disabili inseriti nelle apposite liste.
Le imprese hanno l’obbligo di impiegare un certo numero o una certa quota di lavoratori disabili:
- per le imprese che occupano più di 50 dipendenti, il 7% della forza lavoro deve essere costituita da disabili (e.g., per un’impresa di 200 dipendenti, almeno 14 devono appartenere alla categoria protetta);
- per le imprese che occupano da 36 a 50 dipendenti devono essere assunti almeno 2 disabili;
- per le imprese che occupano da 15 a 35 dipendenti deve essere assunto almeno un disabile;
- le imprese che occupano meno di 15 dipendenti, infine, sono esentate.
Per i datori di lavoro privati, l’obbligo di assunzione scatta ogniqualvolta il datore si colloca in una delle fasce d’organico cui la legge ricollega l’obbligo di assunzione di un certo numero di lavoratori disabili. In questo caso, la richiesta deve essere inoltrata entro i sessanta giorni successivi.
Nell’ipotesi di un datore di lavoro che occupi tra i 15 e i 35 dipendenti, il D.Lgs. 151/2015 ha abrogato la vecchia normativa che prevedeva che l’obbligo di assunzione del lavoratore disabile non scattasse immediatamente al raggiungimento di tale soglia occupazionale, bensì solo in occasione dell’assunzione di un sedicesimo lavoratore.
A partire dal 1.01.2017, infatti, l’obbligo di assunzione sorgerà direttamente al raggiungimento di 15 dipendenti.
Alcuni strumenti di flessibilità “consensuale” nel meccanismo di collocamento del disabile sono da individuarsi nelle diverse forme di convenzione previste dagli art. 11 e 12 legge 68/1999 e art.13 D.Lgs. 276/2003, le quali coinvolgono a diverso titolo imprese, centri per l’impiego e cooperative sociali.
La nuova Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL) e la Rete per i servizi del lavoro istituiti dal d.lgs. 150/2015
Nell’ambito della recente e complessiva riforma del diritto del lavoro del c.d. Jobs Act (legge delega n. 183 del 2014), il Governo ha varato, tra gli altri, il decreto legislativo n. 150 del 2015, che ha ridisegnato la struttura del sistema del collocamento, razionalizzando l’organizzazione delle misure di politica attiva sia a livello regionale che a livello centrale.
Il nuovo sistema si caratterizza per una spiccata vocazione a favorire l’occupabilità dei lavoratori.
Inoltre, viene istituito un Sistema informativo unitario delle politiche attive del lavoro, cui fanno capo una serie di comunicazioni, quali quelle relative alle comunicazioni obbligatorie relative ad assunzioni, cessazioni e modificazioni dei rapporti di lavoro. Il sistema raccoglie anche i dati relativi ai lavoratori che percepiscono strumenti di sostegno del reddito, ai servizi per il lavoro e le politiche attive, nonché ai servizi per la formazione.
La predisposizione di un sistema unitario, cui affluiscono dati e comunicazioni che vengono coordinate tra loro tanto a livello regionale quanto a livello statale, promuove lo scambio di informazione tra i vari enti, favorendo l’interazione tra gli stessi.
Sempre in materia di politiche attive, sono stati individuati esattamente i compiti spettanti allo Stato e quelli di competenza regionale; inoltre, l’art. 4 istituisce l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (ANPAL), un nuovo organismo che dovrebbe provvedere proprio al coordinamento tra le attività statali e quelle regionali.
Il nuovo assetto prevede che allo Stato spetti l’onere di individuare i livelli essenziali delle prestazioni che dovranno poi essere attuati in concreto a livello regionale, coerentemente a quanto stabilito in apposite Convenzioni stipulate tra il Ministero del Lavoro e le Regioni stesse.
Queste ultime erogano i servizi connessi alle politiche attive del lavoro tramite i Centri per l’impiego; tuttavia, è anche possibile che talune operazioni siano devolute direttamente all’ANPAL (salvo eccezioni) o ad appositi soggetti privati accreditati.
Le attività, svolte dalle Regioni, che garantiscono il rispetto dei cd. livelli essenziali delle prestazioni individuati a livello statale sono:
- orientamento di base, analisi delle competenze in relazione alla situazione del mercato del lavoro locale e profilazione;
- ausilio alla ricerca di una occupazione, anche mediante sessioni di gruppo, entro tre mesi dalla registrazione;
- orientamento specialistico e individualizzato, mediante bilancio delle competenze ed analisi degli eventuali fabbisogni in termini di formazione, esperienze di lavoro o altre misure di politica attiva del lavoro, con riferimento all’adeguatezza del profilo alla domanda di lavoro espressa a livello territoriale, nazionale ed europea;
- orientamento individualizzato all’autoimpiego e tutoraggio per le fasi successive all’avvio dell’impresa;
- avviamento ad attività di formazione ai fini della qualificazione e riqualificazione professionale, dell’autoimpiego e dell’immediato inserimento lavorativo;
- accompagnamento al lavoro, anche attraverso l’utilizzo dell’assegno individuale di ricollocazione;
- promozione di esperienze lavorative ai fini di un incremento delle competenze, anche mediante lo strumento del tirocinio;
- gestione, anche in forma indiretta, di incentivi all’attività di lavoro autonomo;
- gestione di incentivi alla mobilità territoriale;
- gestione di strumenti finalizzati alla conciliazione dei tempi di lavoro con gli obblighi di cura nei confronti di minori o di soggetti non autosufficienti;
- promozione di prestazioni di lavoro socialmente utile.
All’ANPAL sono invece attribuiti i seguenti compiti:
- coordinamento della gestione dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego, dei servizi per il lavoro, del collocamento dei disabili di cui alla legge n. 68 del 1999, nonché delle politiche di attivazione dei lavoratori disoccupati, con particolare riferimento ai beneficiari di prestazioni di sostegno del reddito collegate alla cessazione del rapporto di lavoro;
- definizione degli standard di servizio in relazione alle misure di politica attiva del lavoro;
- determinazione delle modalità operative e dell’ammontare dell’assegno di ricollocazione e di altre forme di coinvolgimento dei privati accreditati;
- coordinamento dell’attività della rete Eures;
- definizione delle metodologie di profilazione degli utenti, allo scopo di determinarne il profilo personale di occupabilità, in linea con i migliori standard internazionali, nonché dei costi standard applicabili ai servizi e alle misure di politica attiva del lavoro;
- promozione e coordinamento, in raccordo con l’Agenzia per la coesione territoriale, dei programmi cofinanziati dal Fondo Sociale Europeo, nonché di programmi cofinanziati con fondi nazionali negli ambiti di intervento del Fondo Sociale Europeo;
- sviluppo e gestione integrata del sistema informativo unitario delle politiche del lavoro, ivi compresa la predisposizione di strumenti tecnologici per il supporto all’attività di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro e l’interconnessione con gli altri soggetti pubblici e privati;
- gestione dell’albo nazionale delle agenzie per il lavoro;
- gestione dei programmi operativi nazionali nelle materie di competenza, nonché di progetti cofinanziati dai Fondi comunitari;
- definizione e gestione di programmi per il riallineamento delle aree per le quali non siano rispettati i livelli essenziali delle prestazioni in materia di politiche attive del lavoro o vi sia un rischio di mancato rispetto dei medesimi livelli essenziali e supporto alle regioni, ove i livelli essenziali delle prestazioni non siano stati assicurati, mediante interventi di gestione diretta dei servizi per il lavoro e delle politiche attive del lavoro;
- definizione di metodologie di incentivazione alla mobilità territoriale;
- vigilanza sui fondi interprofessionali per la formazione continua, nonché dei fondi bilaterali per la formazione e l’integrazione del reddito;
- assistenza e consulenza nella gestione delle crisi di aziende aventi unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o in più regioni e, a richiesta del gruppo di coordinamento e controllo del progetto di riconversione e riqualificazione industriale, assistenza e consulenza nella gestione delle crisi aziendali complesse;
- gestione di programmi di reimpiego e ricollocazione in relazione a crisi di aziende aventi unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o in più regioni, di programmi per l’adeguamento alla globalizzazione cofinanziati con il Fondo Europeo di adeguamento alla globalizzazione (FEG), nonchè di programmi sperimentali di politica attiva del lavoro;
- gestione del Repertorio nazionale degli incentivi all’occupazione.
Inoltre, il D.Lgs. 150/2015 ha istituito la Rete dei servizi per le politiche attive del lavoro di cui (oltre all’ANPAL) fanno parte:
- le strutture regionali per le politiche attive,
- l’INPS (in relazione alle competenze in materia di incentivi e strumenti a sostegno del reddito),
- l’INAIL (in relazione alle competenze in materia di reinserimento e integrazione lavorativa delle persone con inabilità da lavoro),
- la Agenzie per il lavoro,
- i fondi interprofessionali per la formazione continua,
- i fondi bilaterali,
- l’ISFOL e Italia S.pa.,
- il sistema delle Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura, le università e gli istituti di scuola secondaria di secondo grado.
La Rete dei servizi per le politiche attive è coordinata proprio dall’ANPAL.
Tale sistema, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbe favorire il raccordo delle attività degli operatori pubblici e privati, in modo tale da ottimizzare le chance dei lavoratori di inserirsi nel mercato del lavoro.
Ciò si realizza principalmente tramite una serie di interventi finalizzati al supporto del lavoratore nella ricerca di un impiego, ossia attività volte all’orientamento, alla formazione e alla ricollocazione. Tali servizi sono rivolti sia ai soggetti che hanno perso involontariamente il proprio lavoro, sia ai soggetti che sono alla ricerca del primo impiego.
I lavoratori sono tenuti ad effettuare un’apposita dichiarazione in forma telematica al Portale nazionale delle politiche attive del lavoro, in cui manifestano la propria immediata disponibilità allo svolgimento di un’attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva concordate con il Centro per l’impiego.
In attesa della piena entrata a regime di tale Portale, questa dichiarazione può essere sottoscritta presso il Centro per l’impiego o essere rilasciata ai sistemi informativi regionali già esistenti.
La domanda di ASPI, NASPI, DIS-COLL e indennità di mobilità, resa dall’interessato all’INPS, equivale a una dichiarazione di immediata disponibilità. In questi casi, la registrazione sarà resa disponibile per i sistemi regionali attraverso il canale di cooperazione applicativa.
Infine, le misure di sostegno alla ricollocazione sul mercato del lavoro spettano anche a coloro che, pur essendo occupati, vogliono trovare una nuova occupazione che risponda maggiormente alle loro aspettative; un’ assistenza intensiva alla ricerca di un’occupazione, tuttavia, è riservata, in via prioritaria, ai soggetti disoccupati registrati sull’apposito Portale.
In seguito alla registrazione, sulla base delle informazioni fornite, gli utenti dei servizi per l’impiego vengono assegnati ad una classe di profilazione, allo scopo di valutarne il livello di occupabilità secondo una procedura automatizzata.
Successivamente, i lavoratori disoccupati sono tenuti a contattare il centro per l’impiego, entro 30 giorni dalla data della dichiarazione (15 giorni per i beneficiari di trattamenti a sostegno del reddito), allo scopo di confermare lo stato di disoccupazione e di stipulare un cd. patto di servizio personalizzato. Qualora il dipendente non provveda, è lo stesso Centro per l’impego a convocarlo; nel caso in cui non si attivi neppure tale organismo, il lavoratore ha diritto a richiedere telematicamente la profilazione direttamente all’ANPAL.
Nel patto di servizio personalizzato, vengono indicati, in particolare, il profilo personale di occupabilità del lavoratore, le attività di ricerca attiva del lavoro che dovranno essere realizzate dal Centro e la disponibilità del dipendente a partecipare a quest’ultime.
Laddove il patto di servizio venga stipulato tra i centri per l’impiego e soggetti percettori di strumenti di sostegno al reddito erogati in seguito alla perdita del posto di lavoro (NASPI, indennità di mobilità, indennità di DIS-COLL, ASDI), esso presenta un contenuto rafforzato.
Il beneficiario può essere convocato nei giorni feriali dai competenti servizi per il lavoro con preavviso di almeno 24 ore e non più di 72 ore secondo le modalità concordate.
il richiedente, inoltre, deve manifestare la propria disponibilità alle seguenti attività:
- partecipazione a iniziative e laboratori per il rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di lavoro (per esempio, la stesura del curriculum vitae e la preparazione per sostenere colloqui di lavoro o altra iniziativa di orientamento);
- partecipazione a iniziative di carattere formativo o di riqualificazione o altra iniziativa di politica attiva o di attivazione;
- accettazione di congrue offerte di lavoro .
Nel caso in cui il lavoratore non risponda alle convocazioni oppure non si attenga al contenuto del Patto, sarà soggetto una serie di sanzioni, che variano, a seconda della gravità dell’infrazione, da una decurtazione di parte dell’indennità alla decadenza dalla prestazione e dello stato di disoccupazione.
Qualora i lavoratori di cui si discute siano percettori di trattamenti di sostegno al reddito in costanza di rapporto (integrazioni salariali, patto di solidarietà e prestazioni dei fondi bilaterali), il Patto di servizio personalizzato deve essere stipulato solo se la riduzione d’orario è superiore al 50% del normale orario di lavoro, calcolato in un periodo di dodici mesi.
Il patto può stabilire che, con il consenso del datore di lavoro e l’eventuale concorso dei fondi interprofessionali per la formazione continua, il dipendente venga avviato a attività di carattere formativo o finalizzate al rafforzamento delle competenze nella ricerca attiva di un lavoro, nonché ad attività socialmente utili.
Analogamente a quanto previsto nell’ipotesi precedente, il lavoratore inadempiente alle prescrizioni contenute nel Patto di servizio è soggetto alle sanzioni della decurtazione del trattamento o della perdita del diritto a seconda della gravità.
I lavoratori percettori della NASPI, la cui durata è superiore a 4 mesi, hanno anche diritto al cd. assegno di ricollocazione, spendibile al fine di ottenere un’assistenza intensiva nella ricerca di una nuova occupazione presso i centri per l’impiego o i soggetti privati accreditati.
L’ammontare dell’assegno è proporzionato al profilo individuale di occupabilità.
In seguito alla registrazione e alla profilazione, il lavoratore disoccupato presenta la richiesta al Centro per l’impiego oppure, in via sostitutiva, direttamente all’ANPAL. Entro due mesi dal rilascio dell’assegno, a pena di decadenza dalla NASPI e dallo stato di disoccupazione, il lavoratore deve scegliere l’organismo con cui avviare il percorso di ricollocazione.
La durata del percorso di assistenza intensiva è di sei mesi (prorogabile di altri sei) e durante lo stesso viene sospeso il patto personalizzato eventualmente stipulato in precedenza.
Tale assistenza intensiva prevede le seguenti attività:
- affiancamento di un tutor al soggetto beneficiario;
- individuazione di un programma di ricerca intensiva della nuova occupazione e la relativa area, con eventuale percorso di riqualificazione professionale mirata a sbocchi occupazionali esistenti nell’area stessa;
- assunzione del soggetto beneficiario dell’onere di seguire le indicazioni del tutor e di accettare offerte di lavoro congrue;
- l’obbligo per il soggetto erogatore del servizio di comunicare al centro per l’impiego e all’ANPAL il rifiuto ingiustificato, da parte della persona interessata, di svolgere una delle attività di cui sopra o di un’offerta di lavoro congrua, al fine di applicare la sanzione della riduzione l’indennità o della decadenza dalla stessa;
- la sospensione del servizio nel caso di assunzione in prova, o a termine, con eventuale ripresa del servizio stesso dopo l’eventuale conclusione del rapporto entro il termine di sei mesi.
L’agenzia è tenuta a incassare l’assegno solo a risultato ottenuto.
L’ANPAL realizza il monitoraggio e la valutazione comparativa dei soggetti erogatori del servizio, con riferimento agli esiti di ricollocazione raggiunti nel breve e nel medio periodo per ogni profilo di occupabilità.