Questa voce è stata curata da Isabella Digiesi e aggiornata da Alexander Bell
Scheda sintetica
La reintegrazione costituisce la più efficace forma di tutela prevista dalla legge a favore del lavoratore illegittimamente licenziato e consiste nell’obbligo, in capo al datore di lavoro, di riammettere il dipendente nel medesimo posto che occupava prima del licenziamento.
Questa particolare forma di garanzia è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e, fino al 2012, era applicabile a tutti i casi di licenziamento illegittimo che riguardavano lavoratori assunti presso datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che superavano specifiche soglie dimensionali (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 in caso di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale).
Tra il 2012 e il 2015, tuttavia, il legislatore ha sensibilmente ridotto le ipotesi in cui il giudice può ordinare al datore di lavoro di reintegrare il dipendente illegittimamente licenziato.
In particolare, la riforma del mercato del lavoro del 2012 è intervenuta direttamente sul testo dell’art. 18, modificando significativamente il regime di tutela previsto da tale norma: mentre prima di tale legge, il principio di stabilità del rapporto di lavoro era tutelato in ogni caso, a oggi la norma prevede invece quattro differenti regimi di tutela, che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi che inficiano il licenziamento. Solo due di questi quattro regimi contemplano la reintegrazione del lavoratore tra le sanzioni applicabili nei confronti del datore di lavoro.
Il progressivo depotenziamento delle tutele offerte ai lavoratori in caso di licenziamento ingiusto è quindi proseguito con l’entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015 (contenente la disciplina del c.d. “contratto di lavoro a tutele crescenti”), attuativo della legge delega 183/2014 (c.d. Jobs Act), che ha introdotto un nuovo regime sanzionatorio per le ipotesi di licenziamento illegittimo, che interessa tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015); detto regime individua nel pagamento di un’indennità risarcitoria la sanzione principale applicabile in caso di licenziamento illegittimo e limita ulteriormente le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro.
I regimi di tutela previsti dall’art. 18 della legge 300/1970
L’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro, disciplina il regime sanzionatorio da applicare nei casi di licenziamento illegittimo di un lavoratore assunto a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del Decreto legislativo 23/2015, che ha introdotto un nuovo regime di tutela per i lavoratori illegittimamente licenziati).
La norma, a oggi, prevede quattro differenti tipi di tutela, che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi che inficiano il licenziamento.
Tutela reintegratoria “piena”
Tale tutela si applica:
- in tutti i casi di nullità del licenziamento, perché discriminatorio oppure comminato in costanza di matrimonio o in violazione delle tutele previste in materia di maternità o paternità oppure negli altri casi previsti dalla legge;
- nei casi in cui il licenziamento sia inefficace perché intimato in forma orale.
È bene precisare che essa trova applicazione a prescindere dal numero di lavoratori occupati dal datore di lavoro ed è prevista anche a favore dei dirigenti.
In tali ipotesi, il giudice, dichiarando nullo il licenziamento, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore al risarcimento del danno subito per il periodo successivo al licenziamento e fino alla reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo intercorrente fra il licenziamento e la reintegrazione.
Il risarcimento del danno è rappresentato da un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento al giorno dell’effettiva reintegrazione e non può in ogni caso essere inferiore alle cinque mensilità (non è invece previsto un limite massimo). Dall’importo deve essere dedotto quanto eventualmente percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità – entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza – di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
La legge non disciplina la questione contributiva in ordine alla indennità che il lavoratore può rivendicare al posto della reintegrazione; resta pertanto controverso se, in questo caso, il datore di lavoro sia anche obbligato al versamento dei contributi.
A tale riguardo, va comunque segnalato che l’INPS ha emanato una circolare nella quale afferma che i contributi non sono dovuti, dal momento che la somma non viene corrisposta a titolo di retribuzioni, bensì a titolo risarcitorio.
Tutela reintegratoria “attenuata”
Tale tutela si applica:
- in caso licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra in una delle condotte punibili con sanzione conservativa sulla base del CCNL applicabile;
- in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se il fatto è manifestamente infondato.
Il giudice, annullando il licenziamento, ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento del risarcimento del danno.
Il risarcimento, in questo caso, corrisponde ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia ci che il lavoratore ha effettivamente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, sia ciò che lo stesso avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione.
Il legislatore fissa inoltre un limite massimo per il risarcimento, che non può in ogni caso superare un importo pari a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto.
Il datore di lavoro è inoltre condannato al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo fino alla reintegrazione effettiva.
Tale versamento deve essere effettuato per un importo pari alla differenza fra i contributi che il lavoratore avrebbe maturato nel corso del rapporto illegittimamente interrotto e quelli che gli sono stati accreditati in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative.
La legge precisa anche che, in quest’ultimo caso, se i contributi derivanti da altra attività lavorativa dovessero afferire a un’altra gestione previdenziale, essi dovranno ugualmente essere imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta in precedenza dal lavoratore licenziato e che i costi di tale imputazione sono a carico del datore di lavoro.
Anche in tal caso, il lavoratore può optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.
Tutela meramente obbligatoria
Tale tutela si applica in tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro.
In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento, condanna il datore i lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti.
Tutela obbligatoria “ridotta”
Tale tutela si applica alle ipotesi in cui il licenziamento risulti illegittimo per carenza di motivazione o per inosservanza degli obblighi procedurali previsti per il licenziamento disciplinare o per il giustificato motivo oggettivo.
In tali casi il giudice, dichiarando l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un indennità variabile tra sei e dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, da valutarsi da arte del giudice in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro.
Osservazioni conclusive
Da quanto detto, si ricava che, secondo la disciplina dettata dall’art. 18 della Legge 300/1970, così come riformulata dalla riforma del 2012, il giudice deve ordinare la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro nei seguenti casi:
- licenziamento discriminatorio;
- licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio;
- licenziamento comminato in violazione delle tutele previste in materia di maternità e paternità;
- licenziamento inefficace in quanto orale;
- altri casi di licenziamento nullo previsti dalla legge o determinato da motivo illecito determinante;
- licenziamento comminato per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa annullabile in quanto il fatto addebitato non sussiste o quando esso rientra fra le sanzioni punibili con una sanzione conservativa;
- licenziamento economico annullabile quando il fatto addotto è manifestamente infondato.
Per gli altri casi di licenziamento, la stessa norma prevede altre forme di tutela che vengono graduate a seconda della gravità del vizio che inficia la legittimità del licenziamento.
In ogni caso, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è applicabile solo ai datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti nell’unità produttiva nella quale è occupato il lavoratore licenziato oppure nell’ambito dello stesso comune; e in ogni caso ai datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze globalmente più di sessanta lavoratori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo delle unità produttive.
La reintegrazione deve avvenire riammettendo il dipendente nel medesimo posto che occupava prima del licenziamento, salva la possibilità di procedere al trasferimento in un secondo momento se ricorrono apprezzabili esigenze tecnico-organizzative o in caso di soppressione dell’unità produttiva cui era addetto il lavoratore licenziato (Cass. 3 maggio 2004 n. 8364).
Non è possibile allegare l’avvenuta sostituzione dello stesso come esigenza organizzativa per trasferire in altra sede il dipendente reintegrato.
Se il ripristino di tutte le condizioni preesistenti al licenziamento è impossibile per cause non imputabili al datore di lavoro, possono essere adottate quelle modifiche (ad esempio un distacco) che assicurino comunque il ripristino del rapporto illegittimamente risolto.
Per l’esecuzione della reintegrazione non vi sono obblighi a carico del lavoratore, pertanto egli non deve compiere alcun atto formale, né deve dichiarare la propria disponibilità alla ripresa del lavoro.
I nuovi regimi di tutela introdotti dal decreto legislativo n. 23/2015
Il Decreto legislativo 23/2015, sul c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, attuativo del c.d. Jobs Act (legge n. 183 del 2014), ha introdotto un nuovo regime di tutela per le ipotesi di licenziamento illegittimo, destinato dapprima ad affiancare e quindi a sostituire il sistema di tutele previsto dall’art. 18 della legge 300/1970.
In base alla nuova disciplina, il lavoratore ingiustamente licenziato avrà diritto, nella maggior parte dei casi, a percepire esclusivamente un indennizzo economico; la tutela reintegratoria viene invece limitata a poche e residuali ipotesi.
La nuova disciplina interessa tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015).
I lavoratori già in forza prima di questa data continueranno, invece, a beneficiare dei regimi di tutela previsti dall’art. 18, purché, naturalmente, risultino assunti in strutture che superano le soglie numeriche previste dalla legge (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale). Nell’immediato, dunque, per questi lavoratori non cambia nulla.
Il decreto prevede peraltro che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore di detto decreto, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti) si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti, e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento ingiusto.
Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
I lavoratori già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, seppur a oggi non interessati dalle novità normative, potranno comunque esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso un diverso datore di lavoro.
Le ipotesi di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro
Il Decreto legislativo 23/2015 stabilisce che il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato nei soli casi di:
- licenziamento discriminatorio a norma dell’art. 15 della legge n. 300 del 1970 (art. 2, co. 1);
- licenziamento nullo per espressa previsione di legge (art. 2, co. 1);
- licenziamento inefficace perché intimato in forma orale (art. 2, co. 1, ult. parte);
- licenziamento rispetto al quale il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (art. 2, co. 4);
- licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa rispetto al quale sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, co. 2).
Nelle prime quattro ipotesi (licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore), il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità ovvero l’inefficacia del licenziamento, condanna il datore di lavoro, oltre alla reintegrazione del lavoratore, anche al pagamento di un’indennità a favore di quest’ultimo e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
L’indennità è commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrisponde al periodo intercorrente tra il giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso, l’indennità non può essere inferiore a cinque mensilità.
Fermo restando il diritto a percepire la suddetta indennità, al lavoratore è attribuita la facoltà di sostituire la reintegrazione nel posto di lavoro con un ulteriore indennizzo economico, pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, purché effettui la relativa richiesta entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla comunicazione. L’indennità sostitutiva della reintegrazione non è assoggettata a contribuzione previdenziale.
Anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, rispetto al quale sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, il datore di lavoro è condannato al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, e il dipendente ha diritto di percepire un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione. A tale indennità, tuttavia, andrà dedotto non solo l’aliunde perceptum, ma anche le somme che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro (secondo i criteri indicati dall’art. 4, co. 1, lett. c), del decreto legislativo n. 181 del 2000). Inoltre, l’indennità non potrà essere superiore a dodici mensilità (mentre non è prevista un’entità minima, come invece stabilito per le altre ipotesi di licenziamento nullo o inefficace).
Le ipotesi in cui al lavoratore spetta il solo indennizzo economico
Fuori delle suddette ipotesi, in tutti gli altri casi di licenziamento individuale ingiustificato o intimato in violazione delle procedure prescritte dalla legge (ad es. in materia di licenziamento disciplinare), il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 4 e le 24 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale).
Più in particolare, l’art. 3, co. 1, del decreto stabilisce che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, allorché il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento, dichiara l’estinzione del rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio (la base di calcolo è costituita, anche in questo caso, dall’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).
In ogni caso, l’indennità non potrà essere inferiore a 4 mensilità, né potrà superare le 24 mensilità.
Ai sensi dell’art. 10, il medesimo regime sanzionatorio (indennità pari a due mensilità per ogni anno di servizio, comunque ricompresa tra 4 e 24 mensilità) trova applicazione anche nei casi di licenziamento collettivo illegittimo per violazione della procedura prescritta dalla legge (in particolare, le procedure richiamate all’art. 4, co. 12, legge 223 del 1991) o per violazione dei criteri di scelta (art. 5, co. 1, legge 223 del 1991).
Al lavoratore spetta un mero indennizzo economico anche nell’ipotesi di licenziamento illegittimo per violazione del requisito della motivazione (art. 2, co. 2, legge 604 del 1966) o per violazione della procedura prescritta dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.
In questi casi, tuttavia, l’indennità risulta dimezzata: sarà pari a 1 mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di 2 mensilità e un limite massimo pari a 12 mensilità.
Le novità relative ai dipendenti dei datori di lavoro che non soddisfano i requisiti dimensionali dell’art. 18 della legge 300 del 1970
Il decreto sul contratto a tutele crescenti si occupa anche dei dipendenti presso strutture che non raggiungono le soglie numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18.
In particolare, l’art. 9 del Decreto legislativo 23/2015 prevede che, nei confronti di tali lavoratori, trovi applicazione il medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze: è esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Vale a dire che, in caso di licenziamento illegittimo di un lavoratore occupato presso un datore di lavoro minore, la reintegrazione varrà solo nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo, orale e per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.
Negli altri casi, il lavoratore avrà diritto esclusivamente a un indennizzo economico, così calcolato:
- in caso licenziamento intimato per giusta causa, per giustificato motivo soggettivo o per giustificato motivo oggettivo, se il giudice accerta l’illegittimità del licenziamento, al lavoratore è riconosciuto un indennizzo (non assoggettato a contribuzione previdenziale) di importo pari a una mensilità per ogni anno di servizio; in ogni caso, l’indennizzo non può essere inferiore a due mensilità, né può superare le sei mensilità;
- in caso di licenziamento illegittimo per violazione dell’obbligo di motivazione previsto dall’art. 2, co. 2, della legge 604/1966, ovvero, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare, per violazione della procedura prevista dall’art. 7 della Legge 300 del 1970, al lavoratore spetta un indennità (non assoggettata a contribuzione previdenziale) pari a mezza mensilità per ogni anno di servizio, con un limite minimo di una mensilità e un limite massimo di sei mensilità.
L’offerta di conciliazione
Il Decreto legislativo 23/2015 prevede una nuova procedura conciliativa, finalizzata a rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento, che prevede l’immediato pagamento di un indennizzo da parte del datore di lavoro.
In particolare, l’art. 6 del decreto stabilisce che, in caso di licenziamento, il datore di lavoro, al fine di evitare il giudizio, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni), può convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative indicate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. (tra cui, in particolare, le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e dall’art. 76 del decreto legislativo 276 del 2003, e offrirgli un assegno circolare di importo pari a una mensilità per ogni anno di servizio, e comunque non inferiore a 2 mensilità e non superiore a 18 mensilità.
Per incentivare questo tipo di soluzione, il legislatore ha previsto che detto indennizzo non costituisce reddito imponibile per il lavoratore e non è assoggettato a contribuzione previdenziale.
L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.
Fonti normative
- Legge 11 maggio 1990, n.108
- Legge 20 maggio 1970, n. 300, Statuto dei Lavoratori
- Legge 15 luglio 1966, n. 604
- Legge 28 giugno 2012 n. 92, recante disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita
- Decreto legislativo 23/2015
- Codice Civile, artt. 2103, 2118 e 2119
Cosa fare – Tempi
Dedurre in ricorso il possesso da parte del datore di lavoro del requisito numerico per l’applicazione dell’art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).
Emesso l’ordine di reintegrazione, il datore di lavoro è obbligato a riattivare di fatto il rapporto ed a tal fine deve comunicare al lavoratore l’invito a riprendere servizio, con conseguente obbligo di quest’ultimo di ripresentarsi al lavoro entro il termine di trenta giorni.
A chi rivolgersi
- Ufficio vertenze sindacale
- Studio legale specializzato in diritto del lavoro
Documenti necessari
- Lettera di assunzione
- Lettera di licenziamento
- Ultima busta paga
Ripristino status quo ante
L’indiscutibile onere del datore di lavoro di riammettere il dipendente nella medesima situazione lavorativa precedentemente occupata ovvero in altra con similari caratteristiche e condizioni, va commisurato ed adeguato alla effettiva possibilità di ripristino dello status quo ante, nel caso questi sia venuto meno per oggettive modificazioni avvenute nel frattempo.
Il lavoratore reintegrato, ai sensi art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ha diritto ad essere riammesso nel medesimo posto di lavoro occupato al momento dell’illegittimo licenziamento, essendo irrilevante la circostanza che al posto di lavoro da lui precedentemente occupato sia stato nel frattempo adibito altro lavoratore.
Pertanto, l’eventuale attribuzione del posto ad altro dipendente in sostituzione del lavoratore licenziato – che abbia impugnato l’atto di recesso – deve essere considerata provvisoria perché condizionata alla definitiva reiezione giudiziale della impugnativa.
L’obbligo di reintegrazione in servizio non esclude che il datore di lavoro possa, all’atto della riammissione del dipendente, esercitare lo jus variandi nell’assegnare la sede di lavoro, quando sussistano comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, secondo la previsione dell’art. 2103 cod. civ.
Pertanto il datore di lavoro non ha alcuna discrezionalità nell’individuazione del posto di lavoro in cui il dipendente, illegittimamente licenziato, deve riprendere la sua attività; ma conserva la facoltà di disporne il trasferimento nei limiti e nei modi previsti dall’art. 2103 cod. civ.
Non ottempera all’ordine di reintegrazione del lavoratore licenziato, il datore di lavoro che si limiti al pagamento della retribuzione senza effettiva riammissione in servizio del lavoratore; in tal caso, il giudice può, ex art. 669 duodecies, determinare le modalità di esecuzione del provvedimento stesso, ordinando al datore di lavoro di rimuovere gli ostacoli frapposti all’effettiva ripresa del lavoro da parte del dipendente.
Onere probatorio dei requisiti dimensionali
Una importante decisione della Corte di Cassazione (sentenza n. 141 del 10 gennaio 2006), risolvendo un contrasto di giurisprudenza, ha affermato che l’onere di provare i requisiti dimensionali dell’azienda, ai fini dell’applicazione dell’art. 18 della Legge 300/1970, spetta al datore di lavoro mentre sul lavoratore grava l’onere della dimostrazione della illegittimità del licenziamento e del suo diritto alla reintegra nel posto di lavoro.
Con riguardo alla richiesta del lavoratore di essere reintegrato nel posto di lavoro per invalidità del licenziamento, legittimamente il giudice può desumere la sussistenza del requisito dimensionale previsto dall’art. 35 della stessa legge per la reintegrazione dalla mancata contestazione specifica, da parte del datore di lavoro, circa l’affermata dimensione. (Cass. 23/4/2004 n. 7735)
Qualora il lavoratore abbia dedotto in ricorso il possesso da parte del datore di lavoro del requisito numerico per l’applicazione dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, la contestazione circa l’effettiva sussistenza di tale requisito soggiace al regime delle preclusioni previste dall’art. 416 c.p.c. e deve perciò essere dedotta nella memoria difensiva.
Ai fini dell’applicazione della tutela reale, le dimensioni dell’impresa vanno accertate sulla base del criterio della normale occupazione.
Inoltre:
- si considerano le unità necessarie secondo la normale produttività dell’impresa nel periodo anteriore al licenziamento;
- non possono comprendersi nel calcolo dello stabile e normale livello occupazionale gli assunti con contratti a termine in numero variabile e con durata limitata del rapporto nel periodo di riferimento;
- i dipendenti con contratto di lavoro a tempo parziale devono essere computati nel complesso del numero dei lavoratori in proporzione all’orario svolto, secondo quanto previsto dall’art. 6 D.Lgs. 25/2/2000 n. 61. Allorché il lavoratore sostenga che debba tenersi conto non dell’orario risultante dalla documentazione relativa ai dipendenti a part-time, ma del maggiore orario effettivamente svolto dagli stessi, il relativo onere della prova incombe sul lavoratore.
L’invito del datore di lavoro a riprendere il servizio
Emesso l’ordine di reintegrazione il datore di lavoro è obbligato a riattivare di fatto il rapporto ed a tal fine deve comunicare al lavoratore (senza necessità di forma ed anche non personalmente, bensì per il tramite del difensore) l’invito a riprendere servizio, con conseguente obbligo di quest’ultimo di ripresentarsi al lavoro entro il termine di trenta giorni.
Ove il lavoratore non ottemperi all’invito di riprendere servizio, il rapporto si risolve, allo scadere del termine (il quale, se cade in un giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo), anche se la mancata ripresa sia determinata da un fatto non direttamente riconducibile alla volontà del lavoratore.
L’invito non può essere meramente formale, ma deve avere il carattere della concretezza e della specificità tale da implicare l’effettivo reinserimento del dipendente nel posto di lavoro.
Non è quindi sufficiente una generica disponibilità del datore di lavoro a dare esecuzione al provvedimento di reintegrazione (come nell’ipotesi in cui quest’ultimo si riservi di fare conoscere al dipendente il giorno ed il luogo della ripresa lavorativa).
Analogamente, ove il datore di lavoro si sia limitato a consentire al lavoratore il materiale rientro in azienda, senza disporne anche l’effettivo reinserimento nel ciclo produttivo, non può ritenersi che in realtà vi sia stata piena ed effettiva reintegrazione.
Conseguentemente il rifiuto del dipendente di presentarsi non può considerarsi rinuncia alla reintegra e il successivo licenziamento deve essere ritenuto illegittimo.
Non si ha risoluzione del rapporto di lavoro ove il lavoratore abbia dichiarato di aderire all’invito, ancorché con l’offerta della propria prestazione per una data successiva alla scadenza del termine.
Il lavoratore che ha ottenuto il provvedimento favorevole all’ordine di reintegrazione, non ha alcun onere di rendersi parte attiva per la ripresa del lavoro, né di dichiarare la propria disponibilità; non di meno, pur mancando l’invito del datore di lavoro a riprendere il lavoro (e quindi in una situazione in cui entrambe le parti non hanno preso alcuna iniziativa dopo il provvedimento di reintegrazione), il rapporto deve considerarsi in atto, ancorché di fatto non ancora ripristinato.
In questa situazione, sul datore grava l’obbligo di corrispondere le retribuzioni ordinarie al lavoratore reintegrato dalla data della sentenza fino a quella della effettiva riammissione in servizio.
Tale obbligazione, avendo carattere non risarcitorio, ma retributivo, è soggetta alla prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948 cod.civ.
L’indennità sostitutiva della reintegrazione
Il lavoratore, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, ma fermo restando il diritto al risarcimento del danno, ha la facoltà di chiedere al datore di lavoro il pagamento di una indennità pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto, indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, ai sensi del terzo comma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’ordine di reintegrazione costituisce presupposto necessario per l’esercizio dell’opzione e quindi per l’indennità ex art. 18 Statuto dei Lavoratori; pertanto, qualora il giudice investito dell’impugnazione non abbia disposto la reintegrazione (ad esempio, per intervenuta revoca del licenziamento) il lavoratore non può far valere il diritto a tale indennità.
Si tratta di una facoltà alternativa attribuita al lavoratore ed esercitata mediante la dichiarazione unilaterale recettizia di scelta.
Il lavoratore in corso di causa può chiedere l’indennità in sostituzione della reintegrazione richiesta con l’atto introduttivo.
Una volta comunicata l’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione il rapporto di lavoro si estingue e il lavoratore non può più pretendere di essere reintegrato, nel caso di mancato pagamento delle quindici mensilità.
L’obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro, facente carico al datore di lavoro a norma dell’art. 18, Legge 300/1970, si estingue soltanto con il pagamento della indennità sostitutiva della reintegrazione (introdotta in sede di novellazione dell’art. 18 da parte della Legge 108/1990), prescelta dal lavoratore illegittimamente licenziato, e non già con la semplice dichiarazione, proveniente da quest’ultimo, di scegliere tale indennità in luogo della reintegrazione.
In caso di riforma in appello dell’ordine di reintegrazione, il lavoratore licenziato, il quale abbia optato in favore dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, è tenuto a restituire tutto quanto percepito a titolo d’indennità risarcitoria anche per il periodo dalla pronuncia dell’ordine medesimo fino alla comunicazione dell’opzione stessa.
Reintegrazione a seguito di cessione di ramo d’azienda
Qualora dopo il licenziamento il ramo d’azienda cui era addetto il dipendente sia stato ceduto, la sentenza di reintegra determina il diritto al ripristino del rapporto in capo all’azienda cessionaria, che si configura come successore a titolo particolare nel diritto controverso.
Ne consegue che un secondo licenziamento intimato dalla cedente è inefficace in quanto tale soggetto non era più titolare del rapporto di lavoro, già passato automaticamente alla cessionaria.
Procedure di mobilità
L’integrale ripristino del rapporto di lavoro conseguente all’ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato comprende anche il diritto del datore di lavoro di esercitare autonomamente il proprio potere direttivo.
Ciò implica la possibilità di includere nelle procedure di mobilità previste dalla Legge n. 223/91 anche lavoratori da reintegrare, ancorché il relativo ordine non sia stato ancora materialmente eseguito, in quanto i criteri sulla cui base vanno individuati i lavoratori da collocare in mobilità non richiedono in alcun modo l’effettività del rapporto lavorativo, non risultando parametrabili su tale effettività. (Cass. 14/10/00, n. 13727, pres. Mercurio, est. Vidiri, in Orient. giur. lav. 2001, pag. 343)
TFR percepito dopo il licenziamento, in caso di reintegrazione
Il lavoratore licenziato, reintegrato nel posto di lavoro a seguito di una sentenza di accertamento della illegittimità del licenziamento, deve restituire il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) eventualmente percepito.
Tuttavia l’art. 545 cpc dispone che le retribuzioni e le “altre indennità relative al rapporto di lavoro” non possono essere pignorate in misura superiore ad un quinto.
Pertanto, anche se si ammettesse la possibilità di una sorta di compensazione automatica tra i crediti, il datore di lavoro non potrebbe trattenere più di un quinto della retribuzione.
Casistica di decisioni della Magistratura in materia di reintegrazione
Per la casistica di decisioni della Magistratura si veda il paragrafo specifico alla voce Licenziamento illegittimo – Effetti