Corte di cassazione, sentenza 17 febbraio 2016 n. 2920
Ancora sul mobbing: un possibile paradosso?
Il mobbing viene normalmente definito come un insieme sistematico di comportamenti di carattere persecutorio – anche quelli che singolarmente sarebbero leciti -, posti in essere dal datore di lavoro o da coloro di cui il datore risponde, unificati da un intento persecutorio (in genere per liberarsi della vittima). Il tutto deve essere provato dal lavoratore che ne lamenta la produzione di un danno. Senonché, il diritto italiano non contiene una specifica disciplina del mobbing, da reprimere pertanto in base all’art. 2087 cod. civ. Ma in base a tale norma non è normalmente richiesta al lavoratore la prova in giudizio dell’intento persecutorio. Tale prova semmai può essere necessaria per quegli atti, nella sequenza del c.d. mobbing, altrimenti leciti, perché allora l’intento qualifica l’atto altrimenti lecito, ma ancora come violazione degli obblighi di cui all’art. 2087. Normalmente, però, nella sequenza del c.d. mobbing, la maggior parte degli atti censurati sono di per sé lesivi della personalità morale o dell’integrità fisica del lavoratore (ad es. una dequalificazione che può determinare un danno alla salute e comunque offende la professionalità del lavoratore) e quindi non richiederebbe la prova dell’intento persecutorio ai fini del risarcimento del danno prodotto, ma, a causa della fascinazione esercitata dalla fattispecie (non giuridica) di mobbing, rischia di subire la sorte degli atti leciti, vale a dire che il lavoratore è gravato anche per essa dell’onere di provare l’intento persecutorio. Non è il caso della sentenza in esame in cui gli atti denunciati sono tutti esercizio in teoria lecito di poteri datoriali, illeciti pertanto solo se dettati da un intento persecutorio. Ma in altri casi il “paradosso del mobbing” ha colpito. Vale la pena invocarlo in maniera indiscriminata? – Sezione: rapporto di lavoro.