Corte di Cassazione, sentenza 27 giugno 2024, n. 17715
Un caso di licenziamento per abuso del whistleblowing
La vicenda giudiziaria riguarda l’impugnazione del licenziamento di una dirigente pubblica, irrogatole per avere trasmesso una sua segnalazione c.d. whistleblowing formulando gravi accuse a carico di un superiore, poi rivelatesi infondate (tra l’altro estendendo l’invio anche a soggetti diversi dall’organo deputato a ricevere le segnalazioni) e per avere successivamente pubblicato su una nota piattaforma social gli stralci di una conversazione con un collega registrata di nascosto. La Cassazione, nel confermare la legittimità del recesso, si sofferma sui limiti delle tutele (invocate dalla dirigente) che l’ordinamento offre al c.d. whistleblower contro possibili ritorsioni, osservando che: (i) sebbene una registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all’insaputa dei conversanti, non sia in assoluto abusiva, essa appare legittima solo se svolta per finalità difensive in giudizio, sempre che il mezzo utilizzato non ecceda l’esercizio di tale diritto di difesa; (ii) il sistema di tutela del whistleblower opera solo nei confronti di chi segnala notizie di un’attività illecita, senza che sia ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie e illecite azioni di indagine per acquisire tali notizie; (iii) più in generale, deve escludersi l’applicabilità della disciplina di tutela del whistleblowing ogni qualvolta il segnalante agisca per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori; (iv) nel caso di specie, essendo stato accertato che la dirigente, allorché aveva diffuso il contenuto della propria segnalazione e gli stralci della conversazione registrata di nascosto, aveva agito con il solo intento di gettare discredito sui colleghi, non v’è spazio per invocare le tutele previste dalla legge.