Questa voce è stata curata da Arianna Castelli
Scheda sintetica
Il lavoratore può rinunciare liberamente ai diritti attribuitogli da norme derogabili di legge o di CCNL, oppure a diritti pattuiti con il datore di lavoro nel proprio contratto individuale, purché tali diritti non derivino da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi.
Tuttavia non sempre il lavoratore è a conoscenza di queste disposizioni inderogabili; in questo senso la legge interviene a sua tutela prevedendo che, qualora ciò avvenga, il lavoratore possa impugnare l’atto di rinuncia.
L’art. 2113 del codice civile, infatti, prevede una disciplina speciale per rinunce e transazioni del dipendente aventi ad oggetto diritti previsti da norme inderogabili di legge o di contratti collettivi.
In particolare l’impugnazione di tali atti deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, se la sottoscrizione è avvenuta in costanza di rapporto, o entro sei mesi dalla sottoscrizione, se successiva alla risoluzione del rapporto di lavoro.
Tale impugnazione può essere effettuata con qualsiasi mezzo e senza l’uso di formule specifiche, dovendo semplicemente contenere un’esplicita manifestazione della volontà di revocare il consenso prestato alla rinuncia del proprio diritto.
Le rinunce e le transazioni sono invece perfettamente valide (e non più impugnabili) se sottoscritte in talune “sedi protette” (conciliazione in sede amministrativa, sindacale o davanti al giudice).
La dichiarazione rilasciata dal lavoratore, che dà atto di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua spettanza e di non aver null’altro a pretendere dal proprio datore di lavoro, viene chiamata “quietanza a saldo” o “liberatoria”.
La stessa costituisce una semplice manifestazione del convincimento dell’interessato di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti, salvo i casi in cui assume il valore di rinuncia o transazione.
Rinunce, transazioni e quietanze a saldo
In un’ottica protettiva del lavoratore, le rinunce e le transazioni sono soggette a un regime particolare volto a impedire che dismetta alcuni diritti in costanza del rapporto di lavoro con il solo scopo di salvaguardare l’occupazione o per via di una situazione di squilibrio o “timore” contrattuale.
L’articolo 2113 del codice civile disciplina espressamente solo due tipi di atti attraverso i quali il dipendente può dismettere i propri diritti:
- le rinunce
- le transazioni
La rinuncia è un atto unilaterale e consiste nella manifestazione della volontà del lavoratore di non esercitare più un suo diritto; essa può realizzarsi non solo attraverso una dichiarazione espressa, ma anche tramite un comportamento del dipendente dal quale si può dedurre in modo inequivocabile la volontà di abdicare a tale diritto.
La transazione, invece, è un contratto con cui le parti pongono fine a una lite o ne prevengono l’insorgenza attraverso reciproche concessioni. Affinché la transazione sia valida non è indispensabile che sia stipulata per iscritto, anche se la forma scritta è necessaria ai fini della prova. I diritti oggetto dell’accordo transattivo devono essere determinati o comunque determinabili, in caso contrario il lavoratore può agire in giudizio per far valere quei diritti che non possono essere considerati oggetto della transazione.
Inoltre, il lavoratore deve essere pienamente consapevole del contenuto e dell’ampiezza dei diritti di cui intende disporre e deve essere pienamente convinto dell’intenzione di rinunciarvi, perciò tale volontà abdicativa deve risultare chiaramente dal testo dell’accordo transattivo non essendo sufficiente l’utilizzo di mere clausole di stile ampie e indeterminate.
Diverse da tali atti dispositivi sono le c.d. quietanze a saldo, ossia quei documenti, di regola sottoscritti a fine rapporto, con cui il lavoratore dichiara di aver percepito una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua pretesa e di non aver più nulla a pretendere dal proprio datore di lavoro. Generalmente, esse si considerano mere dichiarazioni di scienza, perciò il lavoratore in futuro potrà promuovere un’azione giudiziale a tutela dei diritti che ne sono oggetto, indipendentemente dal termine di decadenza semestrale sancito dall’art. 2113 c.c. La quietanza a saldo può assumere il valore di rinuncia o transazione, con l’onere per il lavoratore di impugnare nei termini di cui all’art. 2113 c.c., unicamente alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili altrimenti, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di rinunciarvi o di transigere sui medesimi.
Fonti normative
- Codice civile: artt. 1965, 1236, 2113
- Codice di procedura civile: artt. 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater
- Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276
- Decreto Legislativo 2004, n. 124
- Legge 4 novembre 2010, n. 183
A chi rivolgersi
- Ufficio di vertenza sindacale
- Studio legale esperto in diritto del lavoro
Oggetto delle rinunce o delle transazioni
L’articolo 2113 del codice civile si riferisce a diritti previsti in norme inderogabili, cioè in quelle disposizioni di legge o dei contratti collettivi il cui contenuto non può essere pregiudicato da pattuizioni individuali peggiorative. Tuttavia, non tutti i diritti previsti da norme inderogabili sono indisponibili (cioè non possono essere dismessi dal lavoratore che ne è titolare), dunque, si è posto il problema di distinguere nell’ambito delle norme inderogabili quelle produttive di diritti assolutamente indisponibili e quelle produttive di diritti relativamente indisponibili.
Nella prima ipotesi, il lavoratore non potrà in nessun caso rinunciare a quel diritto, mentre nel secondo gli atti dispositivi considerati saranno annullabili solo se impugnati entro il termine di decadenza semestrale sancito dall’art. 2113.
Tra i diritti assolutamente indisponibili devono essere annoverati i diritti della personalità (es. diritto alla salute) e tutti quei diritti definiti dallo stesso legislatore come “intransigibili e irrinunciabili”.
Inoltre, è possibile distinguere tra diritti primari e diritti secondari. I diritti primari derivano direttamente da norme di legge e come tali sono irrinunciabili, mentre i diritti secondari (consistenti nel diritto al risarcimento del danno) derivano dalla violazione dei diritti primari e possono essere dismessi dal lavoratore. Perciò il lavoratore, per esempio, non può rinunciare al diritto alle ferie e al riposo settimanale (diritto primario sancito dalla legge), ma può rinunciare all’indennità sorta in seguito alla mancata fruizione delle ferie.
I giudici, inoltre, hanno chiarito come solo gli atti dispositivi aventi ad oggetto diritti già sorti sono annullabili se impugnati entro il termine di decadenza previsto dall’articolo 2113. Infatti, oggetto di una transazione può essere esclusivamente un diritto già entrato nel patrimonio del lavoratore e del quale lo stesso può disporre.
Al contrario, le rinunce e le transazioni preventive, concernenti diritti futuri, eventuali e non determinati, devono essere considerate radicalmente nulle, e pertanto possono essere impugnate in ogni tempo.
Questa distinzione è particolarmente rilevante in tema di TFR: alcuni giudici, infatti, hanno ritenuto che gli atti dispositivi aventi ad oggetto il TFR, sottoscritti durante la vigenza del rapporto di lavoro, sono nulli, poiché il diritto a tale indennità matura in capo al lavoratore solo in seguito alla cessazione del rapporto.
Le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la retribuzione, invece, sono valide solo se si riferiscono a quella parte di essa che eccede il minimo salariale previsto dalla contrattazione collettiva.
Ambito di applicazione
Occorre specificare, inoltre, che l’articolo 2113 del codice civile si riferisce non solo ai rapporti di lavoro subordinato, ma a tutti i rapporti cui si applica il rito del lavoro: dunque anche ad alcuni rapporti di lavoro autonomo come la mezzadria, i contratti agrari e ai rapporti di lavoro parasubordinato, quali l’agenzia, la rappresentanza commerciale e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.
Impugnazione delle rinunce e transazioni invalide
Le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti indisponibili o diritti futuri devono considerarsi radicalmente nulle e, dunque, possono essere impugnate in qualsiasi momento.
Al contrario le rinunce e le transazioni riguardanti diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo non sottoscritte nelle c.d. “sedi protette” sono annullabili e quindi impugnabili dal lavoratore solo entro il termine previsto nell’articolo 2113 del codice civile.
L’impugnazione, infatti, deve essere proposta dal lavoratore stesso o da un’organizzazione sindacale cui è stato conferito espresso mandato, entro sei mesi a pena di decadenza.
Il termine decorre dal momento:
- della cessazione del rapporto di lavoro se le rinunce o le transazioni si sono verificate in costanza di rapporto;
- della rinuncia o della transazione se queste sono avvenute dopo la cessazione del rapporto.
Scaduto il termine, l’atto -originariamente invalido- è sanato e il lavoratore non può più far valere in giudizio i diritti oggetto della rinuncia o della transazione.
L’impugnazione può essere effettuata con qualsiasi atto da cui emerga chiaramente la volontà del lavoratore; essa dunque può consistere sia in un ricorso al giudice che in un atto stragiudiziale, ossia una semplice lettera inviata al datore di lavoro a mezzo di raccomandata a.r. (o per posta elettronica certificata).
Inoltre, anche in seguito alla scadenza del termine di decadenza semestrale, gli atti abdicativi dei diritti possono essere impugnati entro cinque anni se ricorrono i presupposti previsti dal codice civile per l’annullamento dei contratti in generale (incapacità di agire o vizio del consenso).
Se la rinuncia o la transazione è stata sottoposta alla procedura di certificazione prima di agire in giudizio il lavoratore deve rivolgersi obbligatoriamente all’organismo che ha adottato l’atto di certificazione.
Rinunce e transazioni valide
Gli atti dispositivi conclusi in “sedi protette” individuate espressamente dalla legge sono validi e non impugnabili dal lavoratore. In questi casi, si parla di “volontà assistita” poiché il lavoratore, al momento della sottoscrizione, è affiancato da soggetti istituzionali che garantiscono la veridicità della volontà abdicativa e transattiva, evitando che il soggetto assistito possa subire pressioni da parte dal datore di lavoro.
Pertanto, non si applica la disciplina prevista nell’articolo 2113 del codice civile alle rinunce e alle transazioni intervenute:
- innanzi al giudice (art. 185 c.p.c)
- innanzi alla commissione conciliativa costituita davanti alla DTL (rinvio) (art.410 c.p.c.)
- innanzi alle sedi di certificazione (art. 31, co. 13, L. 183/2010)
- innanzi alla commissione di conciliazione istituita in sede sindacale (art. 412-ter c.p.c.)
- innanzi ai collegi di conciliazione e arbitrato irrituale (art. 412-quater c.p.c.)
Tuttavia per quanto attiene alle rinunce e alle transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, la Cassazione ha chiarito come tali atti possono comunque essere impugnati ex art. 2113, co. 2 e 3, nel caso in cui l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali non sia stata tale da permettere al prestatore di comprendere realmente a quale diritto rinunciava e in che misura. Fondamentale dunque è che l’assistenza sindacale sia effettiva e che venga adempiuta la funzione di supporto che la legge assegna al sindacato: il rappresentante sindacale è infatti tenuto ad illustrare al lavoratore tutti gli elementi necessari perché comprenda le conseguenze proprie della rinuncia o della transazione che si intende effettuare nel caso specifico, non essendo sufficiente una semplice indicazione degli effetti delle rinunce e delle transazioni genericamente intese.
A conferma di questo principio, la Corte ha anche sottolineato come la presenza di una concreta assistenza sindacale è un elemento tanto fondamentale da non poter essere sostituito neppure da un’analoga assistenza fornita da un legale.
Oltre a ciò, per quanto riguarda in particolare le transazioni, affinché l’atto non possa essere impugnato, è necessario anche che dal tenore dello stesso emerga chiaramente quale sia la questione controversa oggetto della lite e la portata delle reciproche concessioni tra le parti.
Tuttavia, deve ricordarsi come, in ogni caso, tali atti possono sempre essere impugnati ex artt. 1418 e ss. del codice civile qualora vi siano autonomi profili di nullità o di annullabilità, senza che il lavoratore possa essere pregiudicato dalla decadenza semestrale prevista dall’art. 2113: difatti, nel caso in cui venga proposta un’azione di nullità essa non sarà soggetta ad alcuna prescrizione, mentre laddove venga esercitata un’azione di annullamento opererà l’ordinaria prescrizione quinquennale.
Pertanto, una conciliazione sottoscritta in sede sindacale può certamente essere impugnata entro tale il termine quinquennale se nel caso concreto vi è un vizio del consenso derivante dal dolo del datore di lavoro. In particolare, quest’ipotesi si verifica anche qualora quest’ultimo, pur non attuando alcuna condotta attiva, si sia limitato, coscientemente e maliziosamente, a tenere un comportamento passivo o a tacere informazioni rilevanti, in modo tale da determinare l’errore del lavoratore che, al contrario, non avrebbe sottoscritto la rinuncia o la transazione.
Occorre sottolineare come ulteriori ipotesi di rinunce non impugnabili siano costituite da quelle operate nell’ambito di una conciliazione monocratica o in seguito a una diffida accertativa per crediti patrimoniali.
La conciliazione monocratica può essere attivata tutte le volte in cui vi sia un inadempimento del datore di lavoro che incida sui diritti patrimoniali del lavoratore. La procedura può essere contestuale a un accertamento ispettivo in corso o essere avviata preventivamente dal lavoratore (o dall’organizzazione sindacale o dal professionista cui quest’ultimo ha conferito mandato) al fine di prevenire una futura controversia tra il dipendente e l’imprenditore.
In base all’accordo sottoscritto in questa sede il datore di lavoro sarà obbligato da un lato a versare i contributi previdenziali e assistenziali omessi in precedenza, dall’altro a versare al dipendente la somma concordata.
Analogamente, l’articolo 12 del decreto legislativo n. 124/2004 prevede che nel corso di un’indagine ispettiva, qualora vengano accertate violazioni della disciplina contrattuale da cui derivano crediti patrimoniali del lavoratore, l’ispettore diffidi il datore di lavoro intimandogli di pagare le somme dovute entro trenta giorni e che quest’ultimo possa promuovere un tentativo di conciliazione presso la DTL al fine di raggiungere un accordo con il lavoratore sul contenuto e sulle modalità dell’adempimento datoriale.
In entrambi i casi, gli atti dispositivi sottoscritti in queste sedi sono perfettamente validi e non sono soggetti alla disciplina sancita dall’articolo 2113 del codice civile.
Rimedi esperibili
Accade talvolta che il lavoratore sia indotto a stipulare in sede “protetta” una transazione con la quale rinuncia a ogni suo diritto (transazioni definite in gergo con il macabro termine di “tombali”), senza averne adeguata consapevolezza. Ciò può avvenire perché non ha avuto la possibilità di essere adeguatamente assistito da qualcuno di sua fiducia, o addirittura per scarsa consapevolezza del valore delle transazioni stipulate avanti le sedi previste dall’art. 2113, 4° comma, cod. civ., quando la sede conciliativa non svolga un ruolo veramente indipendente e di attenta verifica della volontà del lavoratore.
Se, in qualche caso, la sottoscrizione superficiale di una transazione produce effetti non più rimediabili, in altri invece potranno emergere profili di impugnabilità dell’accordo, pur se formalmente stipulato ai sensi della disposizione da ultimo citata.
Ciò potrà verificarsi, ad esempio, per le transazioni sottoscritte davanti a una commissione di conciliazione sindacale che non sia coerente alle previsioni di cui all’art. 412-ter cod. proc. civ., perché non istituita da contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali maggiormente rappresentativi, o istituita da un contratto collettivo del tutto estraneo a quello che disciplinava in concreto il rapporto di lavoro. Ancora, ciò potrebbe verificarsi presso commissioni di certificazione istituite da enti bilaterali che, di nuovo, siano prive della legittimazione derivante da una fonte istitutiva riconducibile ad associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative (art. 2 e art. 76 d.lgs. 276/2003).
Nelle ipotesi, poi, di commissioni o singoli conciliatori che agiscano con modalità tali da far sospettare addirittura di essere “addomesticate” alle esigenze del datore di lavoro, o comunque negligenti rispetto ai doveri loro affidati dalla legge, si può valutare, oltre all’impugnazione della validità dell’accordo, l’eventuale azione di responsabilità nei confronti del conciliatore infedele ai propri doveri.
Quando il lavoratore abbia il dubbio di avere sottoscritto una transazione “fregatura”, è bene che si rivolga ad un ufficio vertenze o a un avvocato esperto di diritto del lavoro per esaminarne a fondo eventuali profili di impugnabilità e di tutela dei suoi diritti.
Casistica di decisioni della Magistratura in tema di rinunce e transazioni
In genere
- Nell’ipotesi in cui la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, o le dimissioni (riferibili ad un diritto disponibile del lavoratore e quindi sottratte alla disciplina dell’art. 2113 c.c.) siano poste in essere nell’ambito di un contesto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall’autonomia collettiva, il precetto posto dall’art. 2113 c.c. cit. trova applicazione in relazione all’intero contenuto dell’atto (che è quindi soggetto a impugnazione), sempre che la clausola relativa alle dimissioni non sia autonoma ma strettamente interdipendente con le altre e che i diritti inderogabili transatti siano noti e specificati, non potendosi desumere da una formula generica contenuta in una clausola di stile. (Corte app. Catanzaro 29/10/2020, in Lav. nella giur. 2021, 207)
- La clausola contenuta nel verbale di conciliazione stipulato in sede aziendale che ne subordina l’efficacia alla formalizzazione in sede sindacale, facendo riferimento a un fatto volontario il cui compimento dipende dalla mera volontà e arbitrio di una delle parti negoziali, integra una condizione meramente potestativa, come tale nulla ai sensi dell’art. 1355 c.c. La nullità di tale clausola è idonea a travolgere la validità dell’intero accordo se riferibile al nucleo essenziale del verbale e se risulta fondata sul primario interesse del datore di lavoro a rendere inoppugnabile l’accordo raggiunto con il lavoratore. (Trib. Vigevano 1/10/2009 n. 163, Giud. Scarzella, in Riv. it. dir. lav. 2010, con nota di Giorgio Bolego, “Osservazioni in tema di conciliazioni negoziali dirette e ‘formalizzazione’ innanzi ai conciliatori”, 329)
- Perché l’accordo tra il lavoratore e il datore di lavoro possa qualificarsi atto di transazione è necessario che contenga lo scambio di reciproche concessioni, sicché, ove manchi l’elemento dell'”aliquod datum, aliquid retentum”, essenziale a integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile. (Nella specie, la S.C. ha cassato per vizio di motivazione la sentenza di merito che aveva ritenuto la natura transattiva dell’atto recante dichiarazione di voler transigere ogni diritto derivante dall’intercorso rapporto di lavoro senza considerare nella motivazione che la somma corrisposta al lavoratore nel preteso atto di transazione corrispondeva esattamente a quanto a lui spettante per trattamento di fine rapporto). (Cass. 4/10/2007 n. 20780, Pres. Senese Est. Stile, in Lav. nella giur. 2008, 311 e in Dir. e prat. lav. 2008, 1528)
- L’art. 2113 c.c., il quale ha valore di norma ellitticamente riferita ai diritti di natura retributiva e risarcitoria derivanti al lavoratore dalla lesione di fondamentali diritti della persona, non comprende che le pretese patrimoniali maturate dal lavoratore in conseguenza del mancato godimento di tali diritti, rimanendo invece soggetti al più radicale regime della nullità ex art. 1418 c.c., gli atti dimissori degli stessi. (Cass. 3/2/2006 n. 2360, Pres. Mileo Est. Curcuruto, in D&L 2006, con n. Francesca Verdura, “Brevi riflessioni sul regime delle transazioni in materia di lavoro”, 570)
- La quietanza a caldo sottoscritta dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, ad una serie di titoli di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati ed obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti enunciazioni di tale genere sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficienti di per sé a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato. (Cass. 11/10/2004 n. 20123, Pres. Ravagnani Rel. Minichiello, in Lav. e prev. oggi 2005, 366)
- Con riferimento alla disciplina dettata in tema di rinunce e transazioni, di cui all’art. 2113 c.c. (disponente l’invalidità di tali atti quando hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivante da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti ed accordi collettivi concernenti i rapporti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c.), diritti di natura retributiva o risarcitoria indisponibili da parte del lavoratore non devono ritenersi soltanto quelli correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, atteso che la ratio dell’art. 2113 c.c. consiste nella tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, la cui posizione in via ordinaria viene disciplinata attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria. Ne consegue che è annullabile la transazione riguardante diritti di natura retributiva come il compenso per il plus orario e relativi accessori. (Cass. 12/2/2004 n. 2734, Pres. Mattone Rel. De Renzis, in Lav. nella giur. 2004, 759, con commento di Gianluigi Girardi, 761)
- L’art. 2113 c.c. – che consente l’impugnazione delle rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi – non è applicabile alle manifestazioni di volontà negoziale relative alla risoluzione del rapporto di lavoro (ivi compresa la risoluzione consensuale del rapporto), in relazione, da un lato, alla libertà di recesso del lavoratore e, dall’altro, ai limiti legali del potere di recesso del datore di lavoro ed alla previsione dell’impugnazione del licenziamento entro un limite decadenziale. (Trib. Milano 24/7/2003, Est. Vitali, in Lav. nella giur. 2004, 191)
- La rinuncia o la transazione conclusa tra dipendente e datore di lavoro, avente ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro, non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c. in quanto, anche quando è garantita la stabilità del posto di lavoro, questa garanzia dipende da leggi o disposizioni collettive, mentre l’ordinamento riconosce al lavoratore il diritto potestativo di disporre negozialmente e definitivamente del posto di lavoro stesso, in base all’art. 2118 c.c.. (Cass. 28/3/2003, n. 4780, Pres. Mileo, Rel. Picone, in Dir. e prat. 2003, 1987)
- L’art. 2113 c.c. è applicabile anche nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia già intrapreso un’azione giudiziaria, in quanto la sua posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro non viene meno per il fatto che egli abbia azionato un diritto o sia assistito da un legale; ne consegue che restano impugnabili ai sensi del citato art. 2113 c.c. nel termine di sei mesi tutte le rinunce e transazioni che non siano intervenute nella forma della conciliazione giudiziale o sindacale, a nulla rilevando che le suddette intervengano dopo che il lavoratore abbia già azionato il diritto in giudizio. (Cass. 17/9/2002, n. 13616, Pres. Sciarelli, Rel. Figurelli, in Lav. nella giur. 2003, 439, con commento di Gianluigi Girardi)
- Un accordo per la risoluzione consensuale del contratto di lavoro è vincolante per le parti ex art. 1372 c.c. e rispetto ad essa è improduttiva di effetti la successiva revoca delle dimissioni comunicata dal prestatore al datore di lavoro, non essendo consentito alle parti di un contratto recedere unilateralmente fuori dalle ipotesi in cui un tale diritto potestativo sia attribuito dalla legge o sia stato espressamente pattuito. Deve essere altresì esclusa l’annullabilità di siffatto accordo ex art. 2113 c.c., posto che né la risoluzione consensuale del rapporto, né le dimissioni attengono ad un diritto previsto da norme inderogabili di legge e, quindi, il diritto al posto si configura quale diritto disponibile. (Trib. Milano 24/5/2002, Est. Di Ruocco, in Lav. nella giur. 2003, 286)
- Va esclusa l’efficacia novativa di una transazione quando non risulta espressamente che le parti, con l’accordo transattivo, abbiano inteso sostituire un nuovo rapporto a quello precedente o un nuovo titolo obbligatorio a quello precostituito (Trib. Verona 12/11/97, pres. Chimenz, est. Caracciolo, in D&L 1998, 510)
- Le somme previste in una transazione giudiziale sono imponibili solo ove la stessa sia stata stipulata successivamente all’entrata in vigore dell’art. 32 DL 23/2/95 n. 41, convertito con modificazioni nella L. 22/3/95 n. 85 (Trib. Milano 19/4/97, pres. Mannacio, est. Ruiz, in D&L 1997, 864, n. Dal Lago)
- Alla dichiarazione del lavoratore di non aver più null’altro a pretendere dal datore di lavoro accompagnata dall’accettazione del licenziamento deve senz’altro riconoscersi valore di transazione con riferimento ai diritti del lavoratore derivanti dall’illegittimo licenziamento, in quanto l’accettazione dello stesso comporta il riconoscimento della legittimità del recesso da parte del datore di lavoro con la conseguente volontà di rinunciare alla tutela prevista per il caso di licenziamento illegittimo (Pret. Verona 21/12/94, est. Mancini, in D&L 1995, 979, nota SCORCELLI, Su alcune questioni in materia di rinunzie e transazioni)
- Mentre rientrano nel disposto di cui all’art. 2113 c.c. le transazioni e le rinunzie aventi a oggetto il diritto del lavoratore alla retribuzione ex art. 36 Cost., alla qualifica, al riposo settimanale e feriale, al trattamento previdenziale nonché i fatti costitutivi dei diritti del lavoratore (con l’unica eccezione del licenziamento), sono escluse dall’ambito di operatività di tale norma le rinunzie e le transazioni riguardanti i diritti consistenti nelle conseguenze economiche derivanti in capo al datore di lavoro dalla violazione dei diritti del lavoratore, con la conseguenza che l’art. 2113 c.c. non è applicabile alla rinuncia avente a oggetto il pagamento dell’indennità supplementare prevista dal CCNL per il caso di ingiustificato licenziamento del dirigente (Pret. Verona 21/12/94, est. Mancini, in D&L 1995, 979, nota SCORCELLI, Su alcune questioni in materia di rinunzie e transazioni)
Quietanze liberatorie
- Le quietanze a saldo sottoscritte dai lavoratori, ove contengano una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, a una serie di titoli e di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, possono assumere il rilievo di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l’onere di impugnare nel termine di cui all’art. 2113 c.c., alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. (Trib. Bari 24/10/2013, Giud. Vernia, in Lav. nella giur. 2014, 189)
- La quietanza a saldo costituisce una semplice dichiarazione di scienza non preclusiva della possibilità di agire nei normali termini di prescrizione per il riconoscimento del diritto insoddisfatto del lavoratore, salvo che dal contesto dell’atto e da circostanze desumibili aliunde non risulti accertato che il lavoratore l’abbia rilasciata con la chiara consapevolezza di specifici diritti e con il cosciente intento di abbandonarli. (Trib. Grosseto 5/2/2007, Dott. Ottati, in Lav. nella giur. 2007, 1047)
- La quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore che contenga una dichiarazione di rinuncia a maggiori somme riferita, in termini generici, a una serie di titoli, di pretese in astratto ipotizzabili in relazione alla prestazione di lavoro subordinato e alla conclusione del relativo rapporto, può assumere il valore di rinunzia o di transazione, che il lavoratore ha l’onere di impugnare nei termini di cui all’art. 2103 c.c., a condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati e obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi; infatti, in mancanza, enunciazioni di tal genere sono assimilabili alle clausole di stile e non sono sufficiebti di per sé a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato (nella fattispecie, è stata confermata la sentenza di merito che aveva negato alla dichiarazione soggettiva sottoscritta dal lavoratore di non aver più nulla a pretendere a titolo di trattamento di fine rapporto, efficacia di rinuncia e transazione con riferimento alle pretese aventi a oggetto il pagamento del trattamento di fine rapporto sul compenso per lavoro straordinario continuativo). (Cass. 26/9/2006 n. 20867, Pres. Mercurio Est. Lamorgese, in D&L 2007, 151)
- La dichiarazione con cui il lavoratore dà atto di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua spettanza e di non aver null’altro a pretendere dal proprio datore di lavoro rappresenta, di regola, una semplice manifestazione del convincimento dell’interessato di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti e, risolvendosi in un giudizio soggettivo, concreta una mera dichiarazione di scienza priva di ogni efficacia negoziale che, come tale, se è successivamente riscontrata erronea, non preclude al dichiarante di agire per il soddisfacimento giudiziale dei propri diritti non ancora soddisfatti; soltanto nel concorso di altre speciali circostanze, desumibili anche aliunde, una tale dichiarazione può assumere il valore di rinuncia o transazione, ai sensi dell’art. 2113 c.c., sempreché di tali negozi ricorrano i requisiti legali e, in particolare, risulti inequivocabilmente accertato che il lavoratore abbia avuto, nel rilasciarla, la chiara consapevolezza degli specifici diritti determinati, o almeno obiettivamente determinabili, che gli sarebbero spettati e ai quali, appunto, egli abbia coscientemente inteso rinunciare totalmente o parzialmente (Cass. 13/6/98 n. 5930, pres. Rapone, est. Figurelli, in D&L 1998, 1003)
- La dichiarazione contenuta nella cd. quietanza liberatoria o a saldo, con cui il lavoratore afferma di ricevere dal datore di lavoro tutto quanto di sua spettanza, è priva di contenuto abdicativo e pertanto non può ricondursi allo schema negoziale di una rinuncia o transazione dei suoi diritti, ai sensi dell’art. 2113 c.c.; inoltre, il lavoratore non è tenuto a dare la prova del mancato pagamento della somma quietanzata (Trib. Pistoia 4/3/99, pres. ed est. Amato, in D&L 1999, 648, n. Balli, Quietanze a saldo e onere della prova del mancato pagamento della somma indicata)
Conciliazioni sindacali
- Le rinunce e le transazioni contenute in un verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale sono inoppugnabili ex art. 2113, comma 4, c.c. a condizione che il lavoratore abbia beneficiato di effettiva assistenza da parte dell’organizzazione sindacale e che la conciliazione si sia svolta nelle sedi e secondo le procedure previste dai contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. (Trib. Roma 8/5/2019 n. 4354, Est. Cacace, in Riv. it. dir. lav. 2019, con nota di M. Novella, La conciliazione sindacale tra legge, prassi, forma e sostanza, 611)
- Nel contratto di lavoro, il silenzio serbato da una delle parti in ordine a situazioni di interesse della controparte e la reticenza che si inserisca in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia e astuzia, a realizzare un inganno idoneo a determinare l’errore del “deceptus”, integrano gli estremi del dolo omissivo rilevante ai sensi dell’art. 1439 c.c. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di merito che aveva omesso di accertare se la condotta della datrice di lavoro – che, dopo aver incluso la posizione del lavoratore tra quelle eccedentarie nell’ambito di una procedura di mobilità, aveva poi assunto altro lavoratore per la medesima posizione – fosse idonea ad integrare dolo omissivo in danno del proprio dipendente, tale da comportare l’annullamento del verbale di conciliazione sottoscritto tra le parti in sede sindacale, nell’ambito della procedura di mobilità ex l. n. 223 del 1991). (Cass. 30/03/2017, n. 8260, Pres. Manna Rel. Patti, Giust. Civ. Mass., 2017)
- Per il combinato disposto degli articoli 2113 del Cc e 410 e 411 del Cpc, le rinunce e transazioni aventi a oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione sindacale, non sono impugnabili ai sensi dei commi 2 e 3 dell’articolo 2113 del Cc solo a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentati sindacali sia stata effettiva, consentendo al lavoratore di sapere a quale diritto rinuncia e in che misura, e, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto si evinca la res dubia oggetto della lite (in atto o potenziale) e le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’articolo 1965 del codice civile. (Cass. 23/10/2013 n. 24024, Pres. Lamorgese. Rel. Curzio, in Guida al Diritto, 2013, 46).
- Le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, anche se convenute in conciliazione raggiunta in sede sindacale, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c., e pertanto rimangono irrilevanti, attesa la non impugnabilità della risoluzione consensuale del rapporto ex art. 2113 c.c., gli eventuali vizi formali del procedimento di formazione della conciliazione sindacale. (Cass. 24/3/2004 n. 5940, Pres. Sciarelli Rel. Picone, in Lav. e prev. oggi 2004, 920)
- La conciliazione compiuta in sede sindacale, nel rispetto della procedura prevista dall’applicata contrattazione collettiva, si sottrae al regime di impugnabilità di cui all’art. 2113 c.c. ove risulti da un documento sottoscritto contestualmente dalle parti e dal rappresentante di fiducia del lavoratore e a condizione che l’accordo conciliativo sia raggiunto con l’effettiva assistenza del lavoratore da parte di assistenti dell’organizzazione sindacale cui lo stesso aderisce (nella specie la sentenza di merito – confermata dalla Corte – aveva ritenuto sufficiente, ai fini di tale ultimo requisito, l’accertata presenza del rappresentante dell’organizzazione sindacale d’appartenenza del lavoratore “nell’ambito della procedura conciliativa”). (Cass. 3/4/2002 n. 4730, Pres. Mileo Est. Mammone, in D&L 2002, 785; in Riv. it. dir. lav. 2003, 178, con nota di Andrea Pardini, Sui requisiti formali e sostanziali della conciliazione in sede sindacale)
- La conciliazione compiuta in sede sindacale, nel rispetto della procedura prevista dall’applicata contrattazione collettiva, si sottrae al regime di impugnabilità di cui all’art. 2113 c.c. ove risulti da un documento sottoscritto contestualmente dalle parti e dal rappresentante di fiducia del lavoratore e a condizione che l’accordo conciliativo sia raggiunto con l’effettiva assistenza del lavoratore da parte di assistenti dell’organizzazione sindacale cui lo stesso aderisce (nella specie la sentenza di merito – confermata dalla Corte – aveva ritenuto sufficiente, ai fini di tale ultimo requisito, l’accertata presenza del rappresentante dell’organizzazione sindacale d’appartenenza del lavoratore “nell’ambito della procedura conciliativa”). (Cass. 3/4/2002 n. 4730, Pres. Mileo Est. Mammone, in D&L 2002, 785; in Riv. it. dir. lav. 2003, 178, con nota di Andrea Pardini, Sui requisiti formali e sostanziali della conciliazione in sede sindacale)
- La revoca, ottenuta con verbale di conciliazione in sede sindacale, del licenziamento e la reintegrazione del lavoratore nel precedente posto di lavoro hanno eliminato il licenziamento con effetti “ex tunc”, con la conseguenza della giuridica continuità del rapporto di lavoro. La rinuncia, effettuata dal lavoratore in sede di conciliazione, alle retribuzioni relative al periodo in contestazione può spiegarsi solo con la continuità del rapporto e con la persistenza dell’obbligo contributivo. Ovviamente, il lavoratore può rinunciare alle retribuzioni, ma non anche alle contribuzioni previdenziali, che rientrano nel novero dei diritti indisponibili (Cass. 8/6/01, n. 7800, pres. Lupi, est. Filadoro, in Lavoro e prev. oggi 2001, pag. 1610)
- Non è affetto da nullità l’atto, stipulato dal lavoratore con la società datrice di lavoro nelle forme della conciliazione in sede sindacale (anche in assenza di una già prospettatasi vertenza tra le parti), con cui il medesimo, in relazione alla prevista e prossima cessione, da parte della società datrice di lavoro, della sua azienda ad un’altra (specificata) società, rinunci al diritto garantito dall’art.2112 c.c., di passare alle dipendenze dell’impresa cessionaria, dato che il diritto oggetto della rinuncia in questione deve ritenersi determinato ed attuale (nella specie la società datrice di lavoro era assoggettata a concordato preventivo, il lavoratore si trovava in cassa integrazione straordinaria, e la società interessata a rilevare l’azienda aveva posto la condizione del passaggio alle sue dipendenze di solo una parte dei dipendenti) ( Cass. 18/8/00, n. 10963, pres. De Musis, in Orient. giur. lav.2000, pag. 689)
- Non costituisce conciliazione in sede sindacale ex art. 2113, 4° comma c.c. – la quale in deroga a quanto previsto dai primi tre commi dello stesso articolo rende inoppugnabili rinunce e transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge e/o di contratti collettivi – l’accordo raggiunto autonomamente tra la direzione aziendale e i rappresentanti di alcune sigle sindacali. Per contro, affinché si versi nell’ipotesi di conciliazione sindacale è necessario che il lavoratore sia attivamente assistito, nella conduzione delle trattative con la controparte, da un rappresentante sindacale di fiducia e che tale assistenza risulti comprovata dal verbale di conciliazione contestualmente sottoscritto sia dalle parti che dal rappresentante sindacale stesso (Cass. 11/12/99, n. 13910, pres. Trezza, in Riv. Giur. Lav. 2000, pag. 508, con nota di Leotta, Ruolo e funzioni dei rappresentanti sindacali in sede di conciliazione sindacale)
Conciliazioni giudiziarie
- Posto che le conciliazioni giudiziali, pur essendo inoppugnabili ex art. 211 u.c. c.c., sono comunque suscettibili di formare oggetto delle ordinarie azioni di nullità o di annullamento, va dichiarata d’ufficio nulla ex artt. 1346 e 1421 c.c. la conciliazione giudiziale priva di sostanziale res litigiosa e di determinatezza dell’oggetto (nella fattispecie si trattava di conciliazione giudiziale a seguito di ricorso proposto dal datore di lavoro per l’accertamento della natura non subordinata del rapporto, senza che dagli atti o dal verbale di conciliazione risultasse l’esistenza d’una lite sul punto) (Pret. Napoli 24/1/97, est. Musella, in D&L 1997, n. Manna, La conciliazione giudiziale e il suo abuso)
Conciliazioni alla Direzione Provinciale Lavoro
- Con riguardo alla speciale impugnativa della transazione tra datore di lavoro e lavoratore, prevista dall’art. 2113, terzo comma, c.c., l’intervento dell’ufficio provinciale del lavoro è in sé idoneo a sottrarre il lavoratore a quella condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, che rende sospette di prevaricazione da parte di quest’ultimo le transazioni e le rinunce intervenute nel corso del rapporto in ordine a diritti previsti da norme inderogabili, sia allorché detto organismo partecipi attivamente alla composizione delle contrastanti posizioni delle parti, sia quando in un proprio atto si limiti a riconoscere, in una transazione già delineata dagli interessati in trattative dirette, l’espressione di una volontà non coartata del lavoratore. Consegue che anche in tale ultimo caso la transazione si sottrae alla impugnativa suddetta. (Cass. 12/12/2002, n. 17785, Pres. Mileo, Rel. Putaturo Donati, in Lav. nella giur. 2003, 481)